Sono
frasi che cominciano da una parte e non si sa dove andranno a parare, come
succede quando uno parla con un certo trasporto, e non lo sa nemmeno lo
scrittore, che ne segue il corso stupito (è il demone, la necessità interiore,
l’ispirazione!), e poi, alla fine, le rilegge, cerca di raddrizzarle, di
riequilibrarle, magari aggiungendo qualche finezza (qualche leziosità), un
tassello qua e là, degli echi, di modo che alla fine tutto tiene, bene o male,
e lui è contento, tanto che a volte, staccandosi da questa bella soddisfazione,
che nel mio piccolo conosco anch’io, ed è per questo che ne parlo, e ne parlo
giustappunto con questa frase qui, simile a quelle di cui sto parlando,
staccarsi, dicevo, e cancellare tutto, o tagliare qua e là, solo perché c’è
quella parola, quel passaggio che più di tutto gli piace, che più di tutto,
scrivendolo, lo ha sorpreso, è impossibile: e la lavora ancora, ma tenendo
tutto o quasi, perché questa è l’arte, si dice, il mestiere... Perché tutto
deve essere detto, ogni strada imboccata ha da essere percorsa fino alla fine,
lunga o corta che sia, ogni dettaglio cesellato e laccato, ogni detrito
recuperato, reso funzionale, redento, con qua e là, magari, qualche parola che
spicca come fuori luogo, per studiatissimo effetto di abbassamento, o solo di
cambio di registro, per sprezzatura. La sublime sprezzatura! Perché senza di
essa a parlare sembra sempre un signorino, un elegantone di primo pelo, come
Proust con la sua racchetta, un giovane snob così patetico, in fondo, che ci
commuove, che ci commuoverebbe anche se non ne conoscessimo l’immensa
grandezza.
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