Nessuna
epoca, pare, è stata lontana dal mito quanto la nostra, e nessuna se ne è mai
tanto occupata e ne ha sentito altrettanta fame. O forse siamo circondati da
miti che ci sembrano, alla nostra distanza ravvicinata, tanto banali o
superficiali che proviamo il bisogno di rivolgerci a quelli del passato per
consolarci, riflettere o divertirci (sospinti anche, alquanto sospettosamente,
da tutti i mass-media).
Non è
solo il ricorso al passato saggio e favoloso come antidoto all’invivibile
presente, né una problematica smania delle origini, quanto anche, o piuttosto,
la necessità di schemi interpretativi della realtà ampi e possibilmente
profondi senza essere astrusi, ad indurci alla loro ricerca. “Noi siamo
ostacolati da ogni parte da soluzioni insufficienti ai grandi interrogativi
della vita”, afferma l’illustre indologo Heinrich Zimmer (1890-1943) nel suo
capolavoro postumo Il re e il cadavere –
Storie della vittoria dell’anima sul male, recentemente tradotto per
Adelphi da Fabrizia Baldissera, e pensiamo che forse il mito, sedimentazione
delle più profonde esperienze di chi ci ha preceduto, queste soluzioni possa se
non fornircele, almeno indicarle.
Zimmer
ne era anzi convinto. Solo che, diceva, spetta a noi scoprirle, facendo
rivivere i simboli nei miti contenuti. Anche in questi infatti, come in tutte
le storie, la “facoltà di germinare è perenne, attende solo d’essere
stimolata”. Ma solo saranno capaci di farlo “coloro che si dilettano di
simboli, amano conversare con essi e amano vivere tenendoli continuamente
presenti”, lasciandosene permeare e rispondendo alle rivelazioni che “dalle
profondità della nostra immaginazione” essi suscitano: non gli scienziati cioè,
con la loro pretesa di giungere a verità definitive e con le loro fredde
dissezioni, ma i dilettanti, umili e
disponibili, alla cui schiera Zimmer si onora di appartenere.
I miti e
le storie che Zimmer racconta e insieme interpreta nel suo libro, con l’amore e
il piacere del dilettante pur non rinunciando alla sua sapienza di erudito,
appartengono a tempi e culture differenti ma sono collegati, oltre che dalla
tematica comune, da una sottile e fitta rete di affinità, ripercussioni e
parentele che lo studioso districa con fascinosa sagacia e riconduce, quasi
senza darlo a vedere, a comuni archetipi umani. Passiamo così dalla favola
araba delle Babbucce di Abu Kasem al
parallelo tra l’eroe celtico Conneda e
il santo cristiano Giovanni Crisostomo, da Quattro
storie dal ciclo di Re Artù alla
“storia-chiave di questa raccolta”, quella del re indù che risponde agli enigmi
postigli da un cadavere e con il suo aiuto sventa una terribile magia, e a
quattro episodi di uno stupendo mito indù, qui tradotto per la prima volta, che
narra della creazione involontaria e delle passioni di Brahma, Visnu e Siva, e
vediamo ogni racconto, per quanto compiuto e autonomo, richiamare questo o
quell’aspetto degli altri o intravediamo caratteri comuni in personaggi
all’apparenza lontanissimi.
E’ come
se Zimmer, oltre a illuminarci sulle sotterranee e celesti consanguineità che
il mondo dei racconti intreccia, volesse farci capire che, se le vie per
raggiungerla possono in superficie variare, in fondo però si assomigliano
tutte, perché una è la saggezza a cui tendono. Infatti la “vittoria dell’anima
sul male” del sottotitolo assume caratteristiche ovunque comuni e nemmeno tanto
varie: la riconquista della innata ma poi perduta fusione tra la personalità
cosciente e quella inconscia, tra la sfera umana e quella delle forze
primigenie, la redenzione conseguita attraverso il riscatto del passato,
l’integrazione del male e la presa di coscienza della sua essenzialità, al pari
di quella dell’ignoranza, sotto il magistero della morte, onde “accordarsi col
vasto ritmo dell’universo e muoversi con esso”.
Certo
varrebbe la pena di soffermarsi maggiormente sulle storie, sulla diversità che
comunque si manifesta dei personaggi e degli accidenti che incontrano sulle
loro vie, oppure sulla ricchezza delle analisi che Zimmer ne offre prodigando
con tocco leggero la sua grande erudizione, ma, lasciando intatto il piacere
che ne potrà trarre il lettore, è opportuno evidenziare una delle implicazioni
fondamentali di questo libro.
Dato
infatti che “le risposte agli enigmi dell’esistenza che queste fiabe recano in
sé – che ne siamo coscienti o no – plasmano tuttora la nostra vita”, giunte a
noi per vie misteriose, Zimmer ne conclude che possiamo “utilizzare il loro
insegnamento nel mondo di ogni giorno”, che sono cioè valide oggi come lo erano
in passato e come lo sono sempre state.
Non tutti
però saranno disposti a condividere questo discorso, che comporta la
sostanziale immobilità dell’animo umano nei suoi rapporti con la vita e la
realtà, le cui modificazioni non sarebbero allora che un semplice movimento di
superficie; tanto più che Zimmer stesso finisce
per contraddirsi tramite esso, recuperando quelle verità ultime che
invece dovrebbero essere estranee, a suo dire, alla lettura del dilettante. Questo tuttavia, più che
malafede o ingenuità, non è che la conseguenza propria del suo metodo, che pure
non si vorrebbe tale, e in generale della lettura simbolica, che è sempre
condotta a ipotizzare il significato, e un significato sempre trascendente e
eterno, a discapito della lettera del testo.
Non a
caso Zimmer tende a prendere in considerazione, di preferenza, le articolazioni
generali dei racconti, occupandosi spesso dei particolari solo quando si
inseriscono con precisione nel suo quadro interpretativo, il quale appare così
predeterminato, come se il dilettante
si muovesse inconsapevole in un sistema che precede il suo vagabondaggio tra i
simboli. Capita così a volte che le risposte siano già contenute nelle domande
in qualità di presupposti sottaciuti o inconsapevoli, i quali non per nulla si
intrufolano anche altrove come dati di fatto indiscutibili e originari, mentre
ovviamente sono già ideologizzati. Il libro quindi, anche laddove teoricamente
lascia aperte, e anzi raccomanda, la possibilità di altre interpretazioni
(“l’abbondanza attinge dall’abbondanza, eppure abbondanza rimane”, afferma
citando le Upanisad), finisce col porsi come qualcosa di fisso nella sua
positività, con la sua tendenza irreprimibile a tramutarsi in manuale di
saggezza.
Se
questo è il limite che conviene sottolineare di Il re e il cadavere, non si può negare costituisce anche un
aspetto, e non dei minori, del suo fascino: il piacere di capire, la
consolazione di riconoscere o di intravedere dei punti fermi e di sentirsi più
saggi e sereni per tutta la durata della lettura. Non è tuttavia questo a
renderla consigliabile, quanto piuttosto, insieme ai molti pregi già citati, la
grande bellezza delle storie che in modo veramente magistrale Zimmer racconta.
Per il
lettore poi che non si accontenti della momentanea o più duratura pacificazione
delle risposte che propone, resta valido l’incitamento ad amare e convivere con
queste storie sia per se stesse, sia per farle ogni volta rigerminare, magari a
partire dal punto in cui Zimmer tace, dalle domande a cui non risponde o che
nemmeno pone, fino a quello di non-conciliazione che pure qualche mito indica,
laddove nessuna saggezza e nessuna unità sono possibili, per quanta nostalgia
possiamo averne.
Heinrich
Zimmer, Il re e il cadavere – storie
della vittoria dell’anima sul male, Adelphi, Milano, 1983, p. 347.
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