Il
linguaggio non ama chi lo ama, ama chi lo serve, mentre si rivolta contro che
pretende di dominarlo e limitarlo. Altro non gli importa che di vedere la
propria potenza amplificata al massimo grado; per questo sospetto che il suo
vero grande amore, clandestino perché inconfessabile, lungi dal riversarlo sui
poeti, lo riservi invece alla burocrazia.
Ma se la
burocrazia incarna la vocazione segreta del linguaggio è solo perché, sospetto
ancora, il linguaggio è la vocazione inconscia della burocrazia, e precisamente
il linguaggio sotto forma di romanzo. Come spiegare altrimenti il suo fervore
nel creare destini?
Che
molti romanzieri provengano poi dalle sue fila e come da essa cooptati, non è
che un corollario minore, non certo una riprova decisiva. ben più decisivi sono
infatti i lapsus e le sbadataggini, che rivelano, al pari di ogni inconscio,
anche quello della burocrazia. Può capitare allora, per esempio, che una svista
nella stesura di un rapporto dichiari morto un certo tenente Sinjuchaev vivo e
vegeto, e che viceversa un errore tipografico ne consegni alla vita un altro
inesistente, il tenente Sunnominato.
Tanto
basta per inaugurare la traiettoria di due destini che porteranno il primo a
scomparire “senza lasciare traccia (...) come se non fosse mai esistito”, dopo
aver vagato per tutta la Russia come un fantasma destituito di ogni realtà
anche ai propri occhi; il secondo a morire “dopo aver realizzato tutto ciò che
è possibile realizzare nella vita ed aver avuto a sazietà: gioventù e amorose
avventure, castigo corporale e deportazione, anni di servizio e una famiglia,
il favore dell’imperatore e l’invidia dei cortigiani”, fantasma più reale dei
vivi.
Tanto
basta, soprattutto laddove l’alleanza di linguaggio e burocrazia già regna, sia
pure dissimulata sotto l’immagine di un autocrate (lo zar Paolo I), che di
fatto del suo dominio è insieme l’effetto, lo strumento e una delle vittime.
Che
l’autore dei destini dei tenenti Sinijuchaev e Summenzionato sia lo zar è solo
un’impressione: infatti egli è all’oscuro di ciò che continua a provocare. Non
solo, ma anche questo, come tutti i suoi altri gesti che dovrebbero indicare
l’assoluta autonomia della sua persona e del suo potere, ne tradisce il realtà
la vera natura, che è quella di un semplice effetto: come funzione egli produce
anche o soprattutto terrore, ma come persona non è altro che una vittima,
risibile per di più.
Ogni sua
azione è infatti reazione; invece di improntare di sé ciò che lo attornia ne
viene improntato, tanto che agiscono su di lui persino le decorazioni del suo
palazzo; invece di incutere paura e rispetto è in preda a paure e sospetti
talmente generalizzati da finire per fidarsi solo del tenente Summenzionato,
che non conosce e non ha mai visto naturalmente.
Ma
soprattutto, come si diceva, egli è vittima e effetto di quelli che in genere
si crede siano gli strumenti privilegiati del suo potere: del linguaggio, del
quale egli cerca di dominare ogni sfumatura proprio perché ne ha paura e sente
che gli sfugge da ogni lato e a ogni livello (a scatenare la vicenda è un
semplice grido di aiuto lanciato da un ignoto sotto la sua finestra); della
burocrazia che lo obbliga a formalismi sempre più esasperati e a impennate
inconsulte di reazione per imporsi su ciò che pone in dubbio persino i confini
elementari della sua esistenza (di chi è veramente figlio? come è veramente
morto? “Morì – secondo il comunicato ufficiale – per un colpo apoplettico...”).
Alla
fine giunge difficile continuare a credere alla favola che la burocrazia serva
il potere e che il potere possa limitare il linguaggio, favola molto funzionale
peraltro. L’uno e l’altra, tranquilli, gli lasciano questa illusione, lanciando
ogni tanto segnali che rivelano l’illusione per quella che è, pura imbecillità.
Un’imbecillità che finisce per coinvolgere tutti, anche coloro che
apparentemente ne approfittano, un’imbecillità che non rende certo più nobile
il fatto che accompagni tragedie, e che anzi si accompagna troppo spesso al
terrore per esserne solo un risvolto marginale.
E’ una
storia vera, questa dei tenenti e dello zar? Pare proprio di sì, ma come si
suol dire non lo sarebbe meno se fosse inventata. E ancor più vera deve essere
apparsa a molti dei russi che la lessero nei primi anno trenta, quando fu
pubblicata, e ancor più ai loro figli nei decenni successivi. L’ha scritta, con
straordinaria eleganza, in tono parodistico e grottesco ma non per questo meno
terribile, estremizzandone gli effetti paradossali ma insieme ricreando con
precisione il clima di fine Settecento, Jurij Tynyanov (1894-1943), il grande
formalista noto in Italia per i suoi scritti critici, ma ancor più in patria
come autore di romanzi storici.
Tynjanov
la narra nel racconto Il sottotenente
Summenzionato, che dà il titolo a un volumetto edito da Sellerio trad. di
P. Oliva, pref. di V. Zaslavsky) che ne comprende un secondo di pari valore,
imperniato sulla figura di un altro zar, Nicola I. Il lettore ne sarà per più
di un verso sorpreso.
Jurij
Tynjanov, Il sottotenente Summenzionato,
Sellerio, Palermo, 1986, p. 163, £ 5.000
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