25/02/18

Jurij Tynjanov, Il sottotenente Summenzionato (1986)



Il linguaggio non ama chi lo ama, ama chi lo serve, mentre si rivolta contro che pretende di dominarlo e limitarlo. Altro non gli importa che di vedere la propria potenza amplificata al massimo grado; per questo sospetto che il suo vero grande amore, clandestino perché inconfessabile, lungi dal riversarlo sui poeti, lo riservi invece alla burocrazia.
Ma se la burocrazia incarna la vocazione segreta del linguaggio è solo perché, sospetto ancora, il linguaggio è la vocazione inconscia della burocrazia, e precisamente il linguaggio sotto forma di romanzo. Come spiegare altrimenti il suo fervore nel creare destini?
Che molti romanzieri provengano poi dalle sue fila e come da essa cooptati, non è che un corollario minore, non certo una riprova decisiva. ben più decisivi sono infatti i lapsus e le sbadataggini, che rivelano, al pari di ogni inconscio, anche quello della burocrazia. Può capitare allora, per esempio, che una svista nella stesura di un rapporto dichiari morto un certo tenente Sinjuchaev vivo e vegeto, e che viceversa un errore tipografico ne consegni alla vita un altro inesistente, il tenente Sunnominato.
Tanto basta per inaugurare la traiettoria di due destini che porteranno il primo a scomparire “senza lasciare traccia (...) come se non fosse mai esistito”, dopo aver vagato per tutta la Russia come un fantasma destituito di ogni realtà anche ai propri occhi; il secondo a morire “dopo aver realizzato tutto ciò che è possibile realizzare nella vita ed aver avuto a sazietà: gioventù e amorose avventure, castigo corporale e deportazione, anni di servizio e una famiglia, il favore dell’imperatore e l’invidia dei cortigiani”, fantasma più reale dei vivi.
Tanto basta, soprattutto laddove l’alleanza di linguaggio e burocrazia già regna, sia pure dissimulata sotto l’immagine di un autocrate (lo zar Paolo I), che di fatto del suo dominio è insieme l’effetto, lo strumento e una delle vittime.
Che l’autore dei destini dei tenenti Sinijuchaev e Summenzionato sia lo zar è solo un’impressione: infatti egli è all’oscuro di ciò che continua a provocare. Non solo, ma anche questo, come tutti i suoi altri gesti che dovrebbero indicare l’assoluta autonomia della sua persona e del suo potere, ne tradisce il realtà la vera natura, che è quella di un semplice effetto: come funzione egli produce anche o soprattutto terrore, ma come persona non è altro che una vittima, risibile per di più.
Ogni sua azione è infatti reazione; invece di improntare di sé ciò che lo attornia ne viene improntato, tanto che agiscono su di lui persino le decorazioni del suo palazzo; invece di incutere paura e rispetto è in preda a paure e sospetti talmente generalizzati da finire per fidarsi solo del tenente Summenzionato, che non conosce e non ha mai visto naturalmente.
Ma soprattutto, come si diceva, egli è vittima e effetto di quelli che in genere si crede siano gli strumenti privilegiati del suo potere: del linguaggio, del quale egli cerca di dominare ogni sfumatura proprio perché ne ha paura e sente che gli sfugge da ogni lato e a ogni livello (a scatenare la vicenda è un semplice grido di aiuto lanciato da un ignoto sotto la sua finestra); della burocrazia che lo obbliga a formalismi sempre più esasperati e a impennate inconsulte di reazione per imporsi su ciò che pone in dubbio persino i confini elementari della sua esistenza (di chi è veramente figlio? come è veramente morto? “Morì – secondo il comunicato ufficiale – per un colpo apoplettico...”).
Alla fine giunge difficile continuare a credere alla favola che la burocrazia serva il potere e che il potere possa limitare il linguaggio, favola molto funzionale peraltro. L’uno e l’altra, tranquilli, gli lasciano questa illusione, lanciando ogni tanto segnali che rivelano l’illusione per quella che è, pura imbecillità. Un’imbecillità che finisce per coinvolgere tutti, anche coloro che apparentemente ne approfittano, un’imbecillità che non rende certo più nobile il fatto che accompagni tragedie, e che anzi si accompagna troppo spesso al terrore per esserne solo un risvolto marginale.
E’ una storia vera, questa dei tenenti e dello zar? Pare proprio di sì, ma come si suol dire non lo sarebbe meno se fosse inventata. E ancor più vera deve essere apparsa a molti dei russi che la lessero nei primi anno trenta, quando fu pubblicata, e ancor più ai loro figli nei decenni successivi. L’ha scritta, con straordinaria eleganza, in tono parodistico e grottesco ma non per questo meno terribile, estremizzandone gli effetti paradossali ma insieme ricreando con precisione il clima di fine Settecento, Jurij Tynyanov (1894-1943), il grande formalista noto in Italia per i suoi scritti critici, ma ancor più in patria come autore di romanzi storici.
Tynjanov la narra nel racconto Il sottotenente Summenzionato, che dà il titolo a un volumetto edito da Sellerio trad. di P. Oliva, pref. di V. Zaslavsky) che ne comprende un secondo di pari valore, imperniato sulla figura di un altro zar, Nicola I. Il lettore ne sarà per più di un verso sorpreso.



Jurij Tynjanov, Il sottotenente Summenzionato, Sellerio, Palermo, 1986, p. 163, £ 5.000

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