Sono a passeggio con A.,
di ritorno dalla visita periodica al "nostro" orto per verificare
come procedono i lavori di fine inverno. La nuova stagione è alle porte, mica
vorremo farci trovare impreparati! L'orto è nostro nel senso che l'abbiamo adottato:
già ci piaceva e ci fermavamo a ammirarlo ad ogni passaggio, con ampi
apprezzamenti anche per le galline razzolanti, le capre nel prato contiguo,
l'ordine della legna accatastata, la pulizia del vialetto, la cura degli
attrezzi, senza dimenticare la maestà del concime accumulato pudicamente dietro
un muro e visibile solo una volta entrati (semi-illegalmente, perché dovrebbe
essere proprietà privata: del prete però) nel vialetto dell'aglio selvatico, da
cui parte anche una ripida discesa verso il fiume lungo la riva traforata di
grotte (una abitata da una Madonna piuttosto ritrosa; scontrosa o timida, non
saprei: appartata e solitaria comunque); ma poi abbiamo anche conosciuto il
contadino, che ci ha informati sulla sorte dei prodotti, non in vendita come
speravamo perché tutti riservati alla famiglia allargata, sui metodi di lavoro
rigorosamente biologici che hanno incantato A., che sull'argomento è un
oltranzista (io me ne frego: per me l'orto ha una valenza estetica prima che
etica: mi incanta e commuove; lo ammiro come una forma di auto-organizzazione
della terra, una geometria spontanea di cui l'uomo è solo uno strumento la cui
fatica è irrilevante anche per lui, e anche per lui leggera e gloriosa) e che
da allora ci saluta sempre e talvolta arresta persino il lavoro per scambiare
qualche parola con noi, mentre A. accarezza il cane che lo ha subito adorato: e
tanto è bastato perché l'orto fosse ufficialmente anche nostro. Il nostro
bambino di pensionati in cammino. Io, che non ne ho; A. che invece ne ha due, e
ora anche una nipotina, bellissima e dal nome bellissimo: Irene.
Sì, ma non era di questo che volevo parlare... Riprendo il filo: abbiamo da poco lasciato il vialetto dell'aglio selvatico ancora non fiorito eppure già profumato, e l'orto dissodato ma vuoto, e il cane che prende il sole in mezzo alla strada chiusa, e stiamo camminando sulla pista ciclopedonale; A. dice qualcosa che richiede solo il 37% della mia attenzione e io dissipo il resto nello spazio circostante, un po' su tutto, senza preferenze. Et vive la démocratie!
A un certo punto
sorpassiamo un signore che spinge una carrozzina al cui bordo si sostiene, con
la manina destra, un bimbo di un anno e mezzo circa. Siccome occupano quasi
tutta la pista, chiediamo permesso e io non mi esimo dal dire una battuta
affettuosa (immagino) a cui il signore, un bell'uomo vicino alla cinquantina,
risponde con stringata cortesia. Salutiamo il signore e il bel bambino, e
mentre rallentiamo per la manovra, il bimbo alza di scatto il braccino e mi
afferra l'indice destro al volo; e subito riprende a camminare spedito,
sorreggendosi a me, che lo assecondo e mi sorreggo a lui con lo spirito, per un
bel pezzo. Nello scambio ci guadagno io, ma non me ne vergogno. L'infanzia è
tutta gratis. Si dissipa così, finché può. Finché non lo sa. Poi glielo fanno
notare, e è finita. Come se non ne avessero più. Va be'...
La presa al mio dito
rinforza anche il legame momentaneo del gruppo e quindi è giocoforza rivolgere
di nuovo la parola al signore, che potrebbe essere un nonno giovane; e invece
no: è il papà. Un papà non più giovane che ha sposato una cubana. Giovane. Ne
veniamo informati quando io faccio un cenno alle doti atletiche dell’infante
che mi sta trascinando in una deriva caracollante ma speditissima ("ha
preso tutto da papà") e, riferendomi alla quasi coetanea Irene a cui il
nonno sta già dando le prime lezioni di valzer e fox, alla danza: fra un po’
anche il pargolo sarà un eccellente ballerino, avendo la mamma cubana. Cubana e
ballerina. Ballerina perché cubana. Ballerina cubana. Il dna! Io per esempio
avevo i genitori molto intelligenti.
A. lo trascina allora in
un discorso sul ballo: disquisiscono sui latinoamericani, di cui uno è dotto,
l’altro meno (però eccelle nel liscio classico). Io presto al discorso il 17,5
% della mia attenzione, specie quando entrano in dettagli troppo tecnici per la
mia blanda vocazione tersicorea, concentrato (e felice) come sono sulla manina
attorno al mio indice, stretta stretta. Inutile negarlo: sono orgoglioso, oltre
che estasiato, della fiducia istintiva che l’innocente sta dimostrando per me
(non capisco perché, dal momento che non amo particolarmente i bambini e evito
accuratamente moine e smancerie: mentre in genere a loro io piaccio, magari
proprio per quello; boh, non capisco e non mi interessa capire). Anche se
forse, alla fin fine, sono solo un sostegno come un altro. (Però mi sorride.
Non fa che sorridermi.) Ho fretta, ma non faccio niente per liberarmene. Lui
stringe ancora più forte e così mi cattura (mi stringe) sempre di più, e io
lascio che si continui così fino al ponte, dove le nostre strade si dividono.
Il padre allora gli prende la manina e con una leggera pressione mi scioglie
dalla presa. Io assisto senza assecondare né resistere. Il bimbo alla fine si
stacca, ma il musetto si imbroncia, il labbro trema e, mentre noi siamo già a
qualche metro, abbozza un pianto. E’ in quel momento che mi sembra di sentire
il padre che, presolo in braccio, gli sussurra: "su, dai, non piangere,
vedrai che un altro dito lo troviamo ancora... saluta i vecchietti!"
aprile 2012
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