C’è questo autore emiliano
che a volte, se va bene, si diverte a prendere nomi e fisionomie differenti, un
po’ almeno, e per esempio una volta è secco affilato, un’altra piccolo e
rotondo, un’altra ancora sul trasandato, di media statura, anzi piuttosto
tarchiato, le spalle larghe e la pancia, i capelli sporchi e qualche macchia di
unto sul pullover stinto e l’occhio un po’ lucido perché gli piace mangiare e
bere, anche se questo può darsi che me lo confondo, questo dev’essere uno zio
che se n’era andato per conto suo da tutt’altra parte e che si chiamava Giorgio,
... non so... insomma c’è questo scrittore emiliano che ha tanti nomi, e uno
anche inventato più degli altri, perché anche l’invenzione, il falso, ha le sue
gradazioni, uno che scrive tanti libri di vario genere, che però, gira gira,
sono tutti capitoli, o tomi, di una stessa enciclopedia che si avvicina sempre,
tendenzialmente, alla realtà ma poi, quando è lì lì per aderirvi, rimbalza,
scarta, fa dietrofront, e se ne va via, sale quanto più si era accostata al
suolo, e viceversa. Insomma, non sta.
Poi è normale che ogni nome
cerca di darsi una coerenza, dei temi che sarebbero più suoi che degli altri,
solo suoi no, solo suoi è impossibile, per lui come per tutti, facendo finta di
prendere sul serio questa storia dell’unicità, dell’individualità che si
desume, si evince anche dalla differenza dei nomi, ma son tutte balle,
fantasime, fa parte della pantomima, giusto per far colpo sulle ragazze, tanto
più quanto meno sono oche, per divertire di più la gente, che lo stesso o la
stessa si annoia subito, vuole il cambiamento, purché anche un bel po’ simile,
e invece loro son tutti proprio lo stesso: lo stesso-stesso.
E allora parlare, per
esempio, di loro, cioè dei loro (suoi) libri, quale più quale meno, diventa,
più che difficile, risibile. E poiché io, sarò scemo ma il senso del ridicolo
un po’ ce l’ho, allora non lo faccio. Ma poi, poiché scemo lo sono davvero, e
mi piacciono le cose difficili, quelle da pestarci contro il muso, poi rimbalzo,
torno indietro anch’io, e ci provo.
E la prima cosa è evitare il
giochetto di mimarlo, di aggiungere una variante, di piegare il discorso a quel
tono, a quei vezzi, cioè di sbertucciarli, che sarebbe peggio, anche se la
parodia, come diceva un polacco, può essere un ottimo modo per imparare a
liberarsi dalla forma, o a liberare la forma, che è lo stesso: uno, perché io
sono bergamasco, mica emiliano, non ho quella leggerezza, quella fantasia, ho i
piedi per terra e sono grezzo, piuttosto chiuso che aperto, uno che sta sulle
sue e fa piuttosto un passo indietro che incontro al prossimo; e due perché, a
farlo facile, come viene facile di farlo, dato che c’è l’origine scimmiesca di
mezzo, sarebbe solo un giochetto retorico, e se c’è una cosa che uno impara, o
vede confermata se aveva l’idea già di suo, è che queste voci in cui si
diffrange l’autore emiliano, soprattutto, mi pare, quello che si fa chiamare N.,
ma anche quelli che si fanno chiamare B. e C., è che tutto il dispendio
stilistico messo in atto per costruire una voce che sembri parlata, naturale,
cioè artefatta, e quindi non retorica, è appunto per smontare, mettere a nudo,
in ridicolo, perché uno nudo è un po’ ridicolo lo è sempre, chiedere alle donne
non ormonalmente coinvolte per verificarlo, per mettere in ridicolo tutta la
retorica, appunto, quella del voler far credere ciò che non si sa, del dare per
vero ciò che nemmeno si sa se è falso; anzi: che è falso senza dubbio... e
secondo me il vero nome di questo autore dovrebbe essere (è) Pi., il quale,
furbissimo, ha inventato che tutti questi autori che sono un solo autore
emiliano, hanno invece inventato lui e gli stanno costruendo, finché non se ne
stancheranno, perché prima o poi avverrà anche questo, vita opere e miracoli,
anche se nessuno l’ha mai viso, mentre invece è lui che sguinzaglia in giro
questi buontemponi e li dota del capitale cospicuo di opere individuali, tutte
loro, ciascuno le sue, per potersene stare da solo, lui, in santa pace, da
qualche parte, a ridere. O a non ridere, senza per questo piangere. A fare quel
che gli pare insomma.
Che
poi qualcuno si faccia carico di questi nomi e vada in giro a rappresentarli,
uno per nome, o a volte uno per più nomi, o vari per lo stesso nome che tanto
la gente mica si ricorda tutto bene e se si confonde tanto meglio, non c’è
nemmeno da stupirsi... che si prenda la pena delle opere che hanno il nome in
questione sulla copertina e viaggi su
differenti rotte stagionali, a volte anche pagato, per diffonderle ai quattro
angoli del mondo rotondo, a spiegarle per filo e per segno, che poi però quando
sono lì si rifiutano, si fanno pregare, perché spiegare poi, al fatto, loro
proprio no, cosa vuoi spiegare un’opera?, un’opera parla da sé o tace, e
l’autore è il meno indicato a farlo, per quanto loro, essendo finti autori,
potrebbero, e perciò, poiché è brava gente, qualcosa finisce che lo dicono lo
stesso, magari per far ridere, che a ridere uno dimentica il resto, il succo
delle cose, sembra, e fanno pubbliche letture e addirittura, che è il colmo dei
colmi, ma anche commovente in un certo senso, le continuano scrivendone alcune
proprie, che si vede subito che non sono della stessa pasta, ma poi, si sa, il
tempo, la distanza, il fatto che di guardar bene nessuno ha mai voglia,
finiscono per assomigliare, per prendere l’aria di famiglia e così entrare
davvero a far parte dell’originaria e originale, senza che nessuno si lamenti,
men che meno l’autore emiliano stesso. E neanche il lettore, a dir la verità.
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