Sulla Caduta di Icaro di Brueghel la parola definitiva l’ha detta W. H. Auden nella poesia Muséé des Beaux-Arts (1938). Io vorrei proporre qui un’aggiunta, spero non superflua. Le parole definitive non chiudono i discorsi; li aprono, piuttosto, come sapeva anche W. C. Williams che infatti ha scritto venti anni dopo (nel 1960) Landscape with the Fall of Icarus. È la meraviglia delle parole, che continuano dopo la fine. Vanno avanti, come navi sull’oceano mare, spinte dai venti della perfezione. O del disastro.
È del bellissimo vascello a mezz’altezza sulla destra, e delle altre navi, che vorrei dire qualcosa. Il quadro è noto: sulla sinistra in primissimo piano un contadino sta arando la terra; accanto sulla tela, ma lontano per la prospettiva, ci sono un gregge e il suo pastore con lo sguardo rivolto in alto, dove non c’è niente, ma potrebbe esserci Dedalo, che compare in un’altra copia del quadro del Musée des Beaux-Arts di Bruxelles che è qui in esame (e che potrebbe essere a sua volta una copia: ma qui non importa).
Sotto, di spalle, piccolo, c’è un pescatore accanto a un cespuglio su cui è posata una pernice (simbolo della cupidigia e del guadagno illecito, secondo san Girolamo, ma anche della Lussuria, che però non si capisce come possa entrarci qui), sopra la pernice due gambe che stanno sprofondando nell’acqua e sopra ancora il vascello che si dirige verso il mare aperto, oppure verso il porto della città azzurrorosata che si vede sullo sfondo nel quale sta entrando un altro vascello simile a questo, mentre nelle vicinanze sono disseminate altre imbarcazioni, e forse un terzo vascello che ha fatto pensare ad alcuni alle tre caravelle di Colombo. Le interpretazioni si sprecano: tutte molto interessanti, anche le più fantasiose (almeno per me), ma io non le seguirò.
La veduta è dall’alto, forse simile a quella che aveva Icaro prima di cadere dal cielo, e permette di allargare lo sguardo verso isole, promontori e città lontane, in un paesaggio meraviglioso illuminato dal sole che sta sorgendo dal mare. Il ragazzo sta sprofondando nell’acqua, solo le gambe sono ancora visibili, ma nessuno vi ha fatto caso, tutti sono impegnati nelle loro attività, il suo “non era un fallimento rilevante” (“it was not an important failure”). Tutti sono indifferenti, anche la natura: “il sole splendeva / Come doveva sulle bianche gambe che sparivano nella verde / Acqua; e il lussuoso delicato bastimento che doveva aver visto / Qualcosa di sorprendente, un ragazzo che cadeva dal cielo, / Doveva andare in qualche posto e seguitò con calma a veleggiare” (Trad. di Agostino Lombardo)Il “lussuoso delicato bastimento” prosegue tranquillo il suo viaggio. I marinai (se ne vedono almeno 6) sono intenti alle loro mansioni, uno sta pulendo il ponte di coperta, un altro sia arrampica sulle sartie, un terzo scioglie una vela per approfittare del vento favorevole… Nessuno ha uno sguardo per il ragazzo caduto dal cielo, nemmeno chi aveva la visuale libera.
La rotta è certa, il mare calmo, il cielo sereno, il timoniere saldo al suo posto e una dolce brezza gonfia le vele. Nessuna tempesta è all’orizzonte. Ormai il porto è in vista, forse uno di quelli fluviali dei grandi estuari del nord che si vedono nei primitivi fiamminghi, o uno di quelli che il pittore ha visto nel suo viaggio in Italia, nello specifico quello di Napoli, da lui dipinto in un altro quadro.
Di navi non ce ne sono molte negli antichi maestri, solo alcune, piccolissime, nello sfondo della Madonna Rolin di Van Eyck e nel San Luca di Van der Weyden. Qualcuna in più nei paesaggi di Patinier. Più numerose in Brueghel e nella sua bottega, in particolare ad opera del figlio, e più ancora nelle stampe che nei quadri. L’epoca d’oro delle tempeste e delle battaglie navali deve ancora venire, ma Brueghel già l’annuncia.
Il vascello se ne va sul mare per ora calmo spinto dalla la ricerca di guadagno, non di avventura o conoscenza, che semmai sarà un portato secondario, e comunque sempre utile per nuovi guadagni. Rotte, prodotti, mappe, coste, uomini, frutti, spezie, opportunità, consuetudini e meraviglie. È la cupidigia il motore, non la spinta verso l’ideale o il desiderio di esperire, di superarsi, di sfidare il rischio che diventa mortale quando si allontana (si distoglie) troppo dalla concretezza del suolo, come ha fatto Icaro. Anche chi si muove per desiderio di guadagno però va incontro a pericoli mortali: il mare è grande, smisurato, senza confini, potentissimo di vita ma anche di morte, ingovernabile. Nel suo fondo l’ignoto prolifera, la morte è sempre in agguato, come sa l’annegato che si intravede tra i cespugli accanto al pastore. Non c’è difesa. Chi lo affronta è in sua balìa, benevola o malevola che sia. Della sorte. Del destino.
Si tratta però di una contrapposizione semplicistica, come lo è ogni moralismo. Chi affronta i viaggi è conscio dei rischi che corre e delle fatiche che lo attendono, li affronta a viso aperto, raduna tutte le proprie capacità, coraggio e sopportazione ecc. Estende lui pure i limiti della conoscenza, del mondo; in quanto affronta l’ignoto, la sua è comunque un’avventura intellettuale e spirituale: ha capito la profondità, la complessità, l’inesauribilità della superficie marina, e i suoi tranelli, i rischi, anche mortali. La nave è lussuosa, sembra andare placida e sicura, ma è solo un’impressione, un dato momentaneo, basta niente perché gli alberi si spezzino, le vele vadano in brandelli, nelle fiancate si aprano falle, la chiglia si infranga su fondali imprevisti... (cfr. Esperanza Guillén, Naufragi: immagini romantiche della disperazione).
Per quanto sia comune nella pittura di quello e di tutti i tempi, io preferisco non leggere nel quadro nessun intento moralistico prevalente, e forse nemmeno una contraddizione tra Icaro che cade e la nave che gli passa accanto ignorandolo. Sono mossi entrambi da impulsi simili. Uno nell’aria, l’altra sull’acqua, mentre il contadino e il pastore percorrono e ridisegnano la terra. La tracotanza di Icaro è forse solo insufficienza di tecnologia. È meraviglioso che possa volare, ma le sue povere ali, incollate con la cera, più di tanto non potevano salire. Giusto quello che serviva per evadere dal labirinto. E d’altra parte è veramente difficile frenare l’ebbrezza del primo volo. La volontà di scoprire il mondo dall’alto, di infrangere limiti, di salire verso il sole, ubriaco di luce. Anche la nave lo fa. Quella di Brueghel inganna, perché, come dice Auden, è snella, elegante. Ma anch’essa affronta l’ignoto. Una tempesta è sempre dietro l’angolo, o una bonaccia, o venti contrari che costringono a prolungare il viaggio fino ai limiti della sete e della fame, e forse pirati, popoli ostili, all’approdo. La sua non è una crociera di diporto.
Nessuno andava per mare volentieri in passato; andare al largo era sempre un azzardo; attraversare mari e oceani era da folli: era sempre un grande azzardo che faceva paura. Oppure uno prende il mare per fuggire, per scampare un altro pericolo maggiore (certo), o per far perdere le sue tracce, come Dedalo e Icaro, appunto.
Il viaggio come avventura è un mito recente, romantico (W. H. Auden, Gl’irati flutti); prima si viaggiava per necessità, o per guadagno, avidità, ambizione. Gli Argonauti, e in genere gli eroi greci, a compiere le loro imprese sono costretti, da un’autorità esteriore, non da una spinta interiore, e tutti non vedono l’ora di tornare a casa. Della navigazione quello che interessa è il porto.
L’Ulisse di Dante deve convincere i marinai a seguirlo con la sua arte sottile, e la sua ultima impresa, pur nata sotto la dichiarata bandiera della virtù e della conoscenza, è l’ennesimo dei suoi inganni che lo hanno condotto all’Inferno. L’offerta di conoscenza (come quella del serpente nell’Eden, la cacciata dal quale è secondo alcuni il significato del quadro), nasce da una menzogna. La ricerca della verità è basata sulla menzogna. Ma senza menzogna nessuna verità, di conseguenza. Se non ci fosse stata menzogna non ci sarebbe verità. La verità sarebbe impensabile e impensata. (Come peraltro resta comunque, probabilmente.) Intanto si prende il mare. E la nave va.
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