16/12/22

Pierre Michon, Vite Minuscole (2017)



Pierre Michon in Francia è un autore di culto. Alla sua opera sono dedicati convegni, numeri monografici di riviste e numerosi saggi, tra i quali, nella collana economica Foliothèque dedicata principalmente ai classici francesi, un bel commento di Dominique Viart a Vite minuscole, tradotto da Leopoldo Carra per Adelphi (p. 204, E. 18) a più di trent’anni dalla sua prima pubblicazione in Francia, accolto con grande e diffuso favore anche da noi.

Personalmente, leggo Michon sempre con un sentimento contrastato, altalenante tra ammirazione e fastidio, dovuto in gran parte al suo stile, cioè esattamente a quello che piace a molti lettori e critici francesi. Michon si attesta in genere, sia per linguaggio che per “sentire”, su un registro molto alto, ricco di metafore e acrobazie sintattiche, salvo poi ribaltarlo ogni tanto con piccoli tuffi nel suo corrispettivo speculare basso e “volgarmente” diretto, e in un analogo sprezzante e cinico atteggiamento, sia come narratore che in quanto personaggio. Il linguaggio ‘medio’ in linea di massima lo evita come una tentazione maligna, salvo poi, quando non può fare a meno di resisterle, specie nei passaggi più tradizionalmente narrativi (raccontare un’azione, diffondersi su un fatto, sintetizzare una transizione logica o temporale), restare automaticamente invischiato in scrittura tradizionalmente piatta. Cioè irritante in diversa, ma non meno acuta, maniera. Anche nei punti dove scatta l’ammirazione, e ce ne sono, il pericolo è incombente: la sottigliezza e l’intensità emotiva di analisi e riflessioni a volte si spingono un passo oltre; il piede viene troppo calcato sull’acceleratore lirico; la ricchezza e l’eleganza della sintassi sfociano (tracimano) in compiacimento; il lessico raro e prezioso in certi punti si spreca ecc...

E tutto questo proprio mentre lo scrittore cerca l’infimo, il trascurato, il taciuto o sottaciuto, il travisato o censurato, raccontandone le differenti figure per quello che erano, non solo sottraendole al silenzio ma, con scelta programmatica, glorificandole e trasfigurando l’insignificanza della loro realtà miserrima nel cielo della poesia e della teologia. Ma non sempre ci riesce: il suo linguaggio, la sua frase già li tradiscono, trasformandoli in altro, proiettandoli nel suo cielo personale, pieno di angeli, di fiori (linguistici) sontuosi e, a far capolino nelle maglie della crudezza, di pietà dal ciglio umido (in primo luogo su se stessa, sulla propria nobiltà).

Viene cioè il dubbio, a momenti, che ne parli meno per una forma di riparazione e giustizia, che per trovare qualcosa di nuovo da dire. Qualcosa di originale, che in qualche modo rappresenti chi scrive e nel quale egli possa riconoscersi; ma soprattutto, per qualcuno che ha passato anni nell’impotenza o nell’autocastrazione creativa (come ampiamente descritto in Vite Minuscole), semplicemente qualcosa da dire che poi, una volta detto, gli dia riconoscibilità e ancor di più che giustifichi il suo dire (il suo scrivere: l’arroganza implicita nell’atto della scrittura) mentre lo sta dicendo; che dia cioè un senso alla sua volontà, sacrosanta, di comunque dire, nel momento stesso in cui cerca il senso di ciò che va dicendo: per esempio delle vite che racconta.

Si tratta di vite infime, spesso ricostruite a partire da infime reliquie, come quella di un infimo santo, periferico, ignoto al di fuori del suo infimo territorio, che periodicamente ricompare in momenti di passaggio (nascita, malattie, morte) e nei racconti costruiti (e forse inventati) su questi momenti o su qualche personaggio di famiglia o del paese. Bisnonni, prozii, parenti, lavoranti, trovatelli, di cui sopravvivono quasi solo i nomi, e solo nella ristretta cerchia famigliare, e memorie lacunose, incerte, più immaginate che reali, che si sovrappongono e intrecciano a quelle, simili, di altre figure, esse pure con un nome che però non basta a nasconderne una certa tipicità: l’ubriacone, il figlio ribelle, il prete finito male, l’avventuriero, il professore di provincia, l’intellettuale parigino... figure romanzesche, alla fine, più che persone reali che si intende salvare dall’oblio. O salvate dall’oblio solo nella misura in cui, con un’incarnazione al contrario, prendono corpo in tratti o tipi letterari (e artistici: perché tale è la sostanza dell’ispirazione di Michon), che affiorano non appena si innalza a vita questo o quell’episodio della loro esistenza o questo o quell’aspetto del loro carattere: non appena si comincia a scriverne cioè.

 

Quelle che Michon racconta sono storie famigliari, come in Sebald, di parenti e antenati smarriti, mai conosciuti o conosciuti solo per minime tracce (cartoline, foto, libri in solaio, piccoli oggetti), con grandi differenze però rispetto al grande scrittore tedesco, a cominciare dal fatto che, per quest’ultimo, la sua implicazione personale in esse serve all’indagine e alla ricostruzione delle loro esistenze, e mai se le subordina come accade in più di un caso nello scrittore francese, e poi dal tono, che in Sebald è più distaccato, quasi cronachistico in apparenza, come per arrivare a una memoria condivisa e non a un restauro quale che sia di radici soggettive: distacco che anziché confliggere con la pietas la rafforza. Come se fosse il mondo, i fatti stessi, a contenerla e sprigionarla, e non uno sguardo personalissimo sì, ma circoscritto e come affondato nella propria intimità.

Le vite sono minuscole non solo nel senso più immediato di piccole vite, insignificanti, o di vite dei minuscoli (di cui già la tradizione storiografica delle Annales ha insegnato a occuparsi, per non contare i molti scrittori che le hanno sempre narrate...), ma anche in quello di vite piccole, brevi, miniaturizzate, ridotte a un tragitto che è un destino, un percorso spogliato di ogni cosa che non sia subordinata al tracciato di un destino cioè, o condensata in uno o pochissimi gesti o tratti di carattere, o in singole passioni o nella rinuncia ad esse, momenti apicali nei quali tutto si condensa o si spezza. Così però (come in ogni caso del resto, anche quello delle biografie monumentali), si perde o si rinuncia a più di quanto si salva. Si finalizza la vita al racconto che se ne può fare, al disegno che se ne intende tracciare, fosse pure alla glorificazione che se ne intende cantare, e di nuovo la si relega nella minorità da cui si dichiara di volerla togliere. Non c’è scampo.

Di fatto, attraverso queste storie, Michon non fa che narrare la propria, ampliandola alla lacunosa costellazione famigliare e dotandola di un adeguato corredo mitologico, radunando oggetti, reliquie, frammenti di racconti e ricordi e fantasie derivanti dalla propria esistenza infantile e, nella seconda parte, giovanile, e da quelle che l’hanno segnata o solo sfiorata.

La voce del narratore, come la sua figura, è variabile, gioca su più registri che però non sempre si amalgamano, quando compresenti, o armonizzano, quando di susseguono o alternano. Non sempre si riesce a capire chi parla o da che prospettiva, senza che la confusione delle voci, pure ammissibile, sia qui contemplata. L’ispirato e il chiacchierone (eco e omaggio al bavard di Louis-René des Forêts: Il chiacchierone, tradotto da Gioia Zannino Angiolillo per Guanda una trentina di anni fa e non più ristampato: bellissimo!), il nostalgico e il sarcastico, il colto e l’incolto, il prezioso e il vernacolare, si succedono a volte con effetti disarmanti ma non sembrano derivare da una precisa strategia di disorientamento del lettore, che Michon tende piuttosto a voler avvolgere e affascinare, anche nei casi in cui accentua volontariamente i trapassi repentini e immotivati a fini provocatori (ma si sa che la provocazione non è che un risvolto della volontà di cattura).

Adottare il punto di vista dei “minuscoli” (dei contadini, degli analfabeti, dei deboli e dei mentecatti, in questo libro; dei servitori, di Georges Roulin nel testo su Van Gogh o delle lavandaie in quello su Goya, o di un discepolo privo di talento di Piero della Francesca come in Padroni e Servitori, trad. it. Roberto Carifi, Guanda, 1994, con un’attenzione all’arte che percorre tutta l’opera dello scrittore francese: si veda anche Les onze, Verdier 2009, ora Gallimard folio, vincitore del Gran Prix du Roman de l’Académie française di quell’anno: eh sì, l’Académie...) non è una scelta diversa da quella di affidare il ruolo di protagonista o di voce narrante a bambini o folli o minorati (come in Faulkner, che giustamente Michon, in Trois auteurs, Verdier, 1997, venera e pone alle sorgenti del suo stesso approdo alla scrittura): permette di guardare le cose e di raccontare e interpretare eventi da una visuale “popolare”, ingenua ma non troppo, cioè estranea, “ignorante”, spaesata, rispetto alle cose complicate, alle questioni “di peso” e alle vicende impreviste che personaggi e narratori affrontano, ma adulta rispetto a tanti altri argomenti, per quanto spesso a sua volta spiazzata, laterale, tanto più se relativa ad altri tempi, o a società fino a quel momento immobili, o “lente”, e ora in via di scomparsa, come quelle della Francia profonda di Vite minuscole. E allora il lettore maligno magari comincia a sospettare che sì, ad importare è la vita di queste persone, anche, ma soprattutto ciò che il loro punto di vista (vero o presupposto), l’assumere le loro parti, lo schierarsi a loro difesa, permettono di dire e di fare allo scrittore: cose che essi non sarebbero assolutamente in grado di dire e fare, naturalmente, ma che se assumono nelle intenzioni di Michon, una valenza etica e storica (e politica), rischiano di rivelarsi invece di stampo retorico: un po’ false, non in quanto retoriche sia chiaro, ma poiché surrettizie, sottaciute nel loro principio.

Non che essere incerti su chi parla sia così importante. L’ambiguità in letteratura, come risaputo, non è un male. E del resto nessuna voce è singola, pura. Ogni voce è già un coro, o un insieme di echi. E se è lecito chiedersi se anche “l’impostura, se (...) bene spartita, è davvero impostura?” (Padroni e servitori, 17), si deve rispondere che lo resta nella misura in cui, mentre viene apertamente dichiarata rispetto a una cosa, al contempo viene nascosta rispetto ad altre, forse più importanti. Le voci si susseguono, come se fossero una sola, o una distinta dall’altra, ma non lo sono: quella dello scrittore si sovrappone o si insinua in quelle dei personaggi, mentre spesso il loro flusso è continuo, con effetti che quanto più puntano in alto tanto più rischiano di deragliare in quella che Michon stesso definisce “cretineria lirica” (97), “un misto di rozzo lirismo e astuzie sentimentali”, con un’autoironia che non la rende meno tale.

Diverso, perché allora è Michon a prendere direttamente in carico la parola, è invece quando descrive quegli stati (desiderio, fatica, aspirazione, disincanto, sgomento...) in cui gli incolti, ma anche i colti, si trovano davanti all’incomprensibile e non riescono né ad accedervi né a distogliersene, ma se ne sentono attraversati e scossi fisicamente, come un brivido, o attratti, come un vuoto, o oppressi, come una pena impalpabile ma pesantissima che schiaccia il petto e dilata le pupille e aguzza l’udito fino al limite dell’inudibile, e dove infatti niente si sente né si vede. Allora lo scrittore francese tocca vertici di grande intensità, come nell’episodio da tutti i suoi critici giustamente esaltato del vecchio “père Foucault”, analfabeta.

 

Nel complesso la sua è una prosa insieme novecentesca, per le immagini e i punti di vista adottati, spiazzanti e provocatori, e antica, seicentesca quasi; virtuosistica, paludata e compiaciuta come può esserlo solo una vecchia, accademica (scolastica), prosa francese, per quanto riveduta e corretta con alcuni apporti del modernismo e delle avanguardie, che per molto tempo sono state la stella polare di Michon, il quale poi, come tanti amanti disillusi, la storia è nota, è passato sull’altro versante pur portandosi addosso molte scorie di ciò che ha negato e abbandonato. Sono frasi tortuose, serpentinate, manieratissime (come in Proust, appunto, o, per altri aspetti, in Nabokov, o in certo Malcolm Lowry) che cominciano da una parte e non si sa dove andranno a parare, come succede quando uno parla con un certo trasporto: non lo sa nemmeno lo scrittore, che ne segue il corso stupito (è il demone!, la necessità interiore... l’ispirazione!), e poi, alla fine, quando le rilegge, cerca di raddrizzarle, di riequilibrarle, magari aggiungendo qualche finezza (qualche leziosità), un tassello qua e là, degli echi, dei rimandi, di modo che alla fine tutto tiene, bene o male, e lui è contento, tanto che a volte, staccandosi da questa bella soddisfazione, che nel mio piccolo conosco anch’io, ed è per questo che ne parlo, e ne parlo giustappunto con questa frase qui, simile a quelle di cui sto parlando..., staccarsi, dicevo, e cancellare tutto, o tagliare qua e là, solo perché c’è quella parola, quel passaggio che più di tutto gli piace, che più di tutto, scrivendolo, lo ha sorpreso, è impossibile: e la lavora ancora, ma tenendo tutto o quasi, senza rinunciare a niente e piuttosto aggiungendo ancora un dettaglio, una sfumatura, un paradosso, come per una bulimia spirituale, perché questa è l’arte, si dice, il mestiere... Perché tutto deve essere detto; ogni strada imboccata ha da essere percorsa fino alla fine, lunga o corta che sia; ogni dettaglio cesellato e laccato; ogni detrito recuperato, reso funzionale, redento, con qua e là, magari, qualche parola che spicca come fuori luogo, per studiatissimo effetto di abbassamento, o solo di cambio di registro, per straniamento, per sprezzatura. La sublime sprezzatura! Perché senza di essa a parlare sembra che sia sempre un signorino, un elegantone di primo pelo, come Proust con la sua racchetta, un giovane snob così patetico, in fondo, che ci commuove, che ci commuoverebbe anche se non ne conoscessimo l’immensa grandezza.

 


L’immensa grandezza, dell’autore della Recherche come di altri del pantheon letterario e artistico, che invece Michon non riesce, e non vuole, dimenticare nemmeno un istante (ma per fortuna poi lo fa). Sono i padri che lo scrittore francese ha eletto a propri ideale e misura, forse a compensazione dell’assenza fisica (e dell’incombenza mentale) del padre biologico. Non sembri un facile riduzionismo psicologico: è l’autore stesso a dirlo in vari luoghi della sua opera, e in particolare nel notevole Rimbaud il figlio (tradotto da Maurizio Ferrara per le edizioni Mavida, 2005, e da noi passato quasi completamente inosservato), affrontando le varie dinamiche di questa assenza, inclusa l’identificazione con Rimbaud stesso, che l’ha accompagnato per lunghi tratti della sua vita, appunto in virtù di questa comunanza di destino.

E se non sono i padri ad abbandonare i figli, sono questi che li abbandonano, se ne vanno, abbandonano tutto, come Rimbaud, e come in Vite Minuscole Antoine, il figlio del trisavolo Toussaint, poi finito male, in tutta una costellazione di rapporti mancati o conflittuali o ancor più dolorosi in quanto rimossi o passati sotto silenzio, a volte da entrambe le parti.

Questo rapporto mancato si traduce nel contrasto, da una parte, tra la singolarità inimitabile dell’artista (Jean-Pierre Richard, Chemins de Michon, Verdier poche, 2008, p. 72) che il narratore vuole conquistare contro i padri assenti e perciò opprimenti e i grandi scrittori e artisti, loro sostituti venerati ma appunto per questo ingombrantissimi, irraggiungibili: trascendenti, sacralizzati, come sacralizzata sono l’arte e la scrittura, a dispetto di ogni successivo tentativo di innervarli di carne, sangue e altri liquidi più o meno viscosi; e dall’altra, più complementari che opposti, questi personaggi minimi, individui che tali non sono mai stati forse nemmeno per se stessi, o che hanno rinunciato presto ad esserlo per rintanarsi nell’anonimato, nel generico o nella perdita di se stessi dovuta all’alcol e alle reiterate sconfitte, ciascuno la propria e ciascuna irredimibile, e che solo la scrittura, il divenir vita delle loro insignificanti e presto dimenticate esistenze, se non già dimenticate mentre ancora duravano, può forse provare a redimere, restituendo loro, non fosse che attraverso la perpetuazione di un episodio o di uno stigma tutto loro, qualcosa di più che un semplice nome o soprannome.

A volte basta questo a renderne le figure memorabili (la nonna Elisa, la madre, il nonno paterno, il citato père Foucault, ecc.), altre invece, come già accennato, esse si appiattiscono di nuovo, non appena venute alla superficie, su topos narrativi abbastanza risaputi, perché insomma, la storia del romanzo è anche la storia della conquista di un nome, di un accesso alla narrazione e alla memorabilità proprio di coloro che fino a quel momento apparivano periferici, emarginati, silenziosi, insignificanti, o non apparivano affatto.

Sorte, questa di ricalcare topos già orecchiati, a cui non sempre riesce a sfuggire neppure la figura del narratore, esplicitamente autobiografico, discretamente antipatico in alcuni punti, sia per il suo compiaciuto maledettismo di maniera, sia per certi toni sarcastici, per non dire acidi e meschini, nei confronti di alcuni suoi personaggi, che però non riesce  a tenere fino in fondo, fino alla vera cattiveria, al fiele, perché il bagnomaria del sentimento è sempre in agguato, specie quando parla di se stesso, laddove ce ne sarebbe invece più bisogno.

Eppure, più forte di queste debolezze, resta la benefica e benedetta illusione di salvare le vite infime scrivendone a dispetto di tutto, ricercandone o immaginandone le storie sulla scorta di pochi o nulli documenti e di vaghe memorie di testimoni diretti o indiretti, o della loro somiglianza con quelle di tanti altri altrettanto infimi e anonimi, che in tal modo (in qualche modo) verrebbero a loro volta salvati, quando in realtà non si salva niente, come in realtà niente si salva neppure dei cosiddetti grandi e rinomati, se non parole che prescindono da loro e di cui loro, ora, non sanno che farsene, e i loro nomi... Se non che, forse, un nome è tutto. Tutto ciò che può restare e forse resta, alla fine, non è, al massimo, che un nome.

Ma poi no, resta anche la volontà ostinata, viscerale, insopprimibile come un dovere insieme laico e metafisico, di dare pace ai morti: ai propri e, attraverso loro, a tutti quelli che ne hanno condiviso la sorte. Tuttavia, se dare pace ai morti, all’infinita distesa delle esistenze offese, dimenticate, mai sapute, è un compito, oltre che impossibile, inutile, certo per i morti; farlo, come noto, è di qualche consolazione per chi vive, a cui sarebbe crudele negarla; un compito infinito, insensato, in fondo, ma che pure, pensa qualcuno, vale la pena, ciascuno a modo suo, di cercare di assolvere, se non altro per coloro stessi che se ne assumono il carico, onerosissimo, insopportabile e insieme lieve, e che allevia.

 


 

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