19/12/22

Lucio Klobas, Galleria del vento (15-07-1981)


Qualche anno fa sembrava che nessuno più, tra i giovani, si occupasse di letteratura, presi tutti com’erano, sembrava, a riempire le discoteche; poi si è scoperto, con gran meraviglia, che qualcuno che leggeva o scriveva dopotutto c’era ancora. Anzi, erano molti; ma solo poeti, ahimè.

Ahimè? Per fortuna! Eh, la poesia dal nostro cuore non la toglie nessuno! e poi, questo mondo frantumato, niente di meglio della poesia per interpretarlo; naturale che narratori non ce ne fossero più. Adesso invece, le ultime due stagioni editoriali lo dimostrano, non mancano più nemmeno i giovani romanzieri. Grazie al cielo. Non tutti eccelsi, non tutti originalissimi, d’accordo, ma l’importante è che tornino ad esserci.

Si è persino tornato a parlare di sperimentazione, dopo che la fine delle avanguardie era stata accolta con evidente sollievo generale, anche se alcuni, su riviste e presso case editrici poco note al grande pubblico, il lavoro di ricerca lo avevano sempre continuato. Qualche volta persino con risultati molto interessanti e validi.

Uno di questi è Lucio Klobas, trentacinquenne bergamasco di origini istriane, vincitore di un Premio nazionale Riccione per la Drammaturgia, redattore e collaboratore di varie riviste e dei programmi culturali della Rai, e autore di Galleria del vento, un romanzo pubblicato nel 1976 con ottima accoglienza critica e che conviene ricordare.

Romanzo originale in più di un senso: c’è una storia anche se non si può parlare di una trama vera e propria; è comico per o nella disperazione; non c’è mistero ma ti intriga e vuoi sapere come va a finire; quanto è paradossale e arbitrario per alcuni aspetti, è perfettamente logico e necessario per altri. Tutte caratteristiche che si ritrovano ora in questo ora in quell’altro romanzo sperimentale, raramente insieme però e così ben organizzate come qui. Per cui la qualifica di sperimentale, che richiama sempre qualcosa di tentennante e incompiuto, mal si adatta a questo romanzo. teniamola per utilità classificatoria.

Comunque è certo un romanzo impossibile, che fa dell’aleatorietà e dell’inverosimiglianza il proprio oggetto. Se proprio dovessi definirlo, direi che è la storia dell’autodistruzione del personaggio letterario. Non cioè di un individuo che fa da protagonista nel libro, ma proprio del personaggio così come la storia del genere romanzesco pur nelle sue variazioni è venuta configurandolo.

Certo, chi nel libro dice “io” si autodistrugge anche fisicamente a testate contro il muro, fino a raggiungere con il massimo grado della scala Mercalli anche il totale spappolamento del proprio corpo, ma questo non è che l’epilogo di un lavoro che in ogni suo momento, già all’inizio, ne enunciava lo statuto illusorio a ogni livello. Così, per esempio, il corridoio in cui il protagonista, chiamiamolo ancora così, è bloccato all’inizio, nonché lo studio e la scrivania che vuole raggiungere, ci sono e non ci sono a seconda dei momenti e delle vie linguistiche di volta in volta seguite. Per non parlare dei vari compiti arbitrariamente prefissi, perseguiti, raggiunti o abbandonati con toni magari epici e seriosi nonostante la loro inutilità o addirittura imbecillità.

In tal modo, liberato il campo da azione, realismo, psicologia ecc., si apre lo spazio del linguaggio e di tutta la gamma delle sue possibilità. Un luogo comune dell’ultima avanguardia, si dirà; solo che in essa si fermava quasi sempre allo stato programmatico e all’enunciazione teorica, mentre qui è la pratica radicale che domina. Ed è appunto in questo che le notevoli capacità di Klobas si affermano con maggiore evidenza.

Sebbene ci siano qua e là alcuni paragrafi di troppo, certi toni un po’ stonati (ma dirò che sono anche pochi se si tiene presente la scelta di una scrittura che si deve reggere da sola, senza il supporto di una narrazione che giustifichi con le necessità della trama i momenti di passaggio e di caduta), e alcuni richiami a maestri ormai canonici come Beckett, l’originalità, la varietà e la sicurezza stilistica di Klobas si manifesta quasi ad ogni pagina, indipendentemente da ciò che sta raccontando. Non perché questo sia puro supporto, ma anzi proprio perché si risolve completamente nel linguaggio che lo pone in essere senza alcun riferimento ad altro che sia prima, dopo o fuori, magari in una eventuale realtà.

Ora, uno può credere che è naturale che vi sia varietà dove niente fa da limite o da contenitore, ma farebbe uno sbaglio. Da una parte ci sarebbe infatti il pericolo della noia e della monotonia, dato che non basta far ridere qua e là per tenere il lettore per 250 pagine; e dall’altra è proprio il problema del limite e del contenitore che viene messo qui in discussione, opponendo loro una scrittura che si basi su una necessità sistematica intrinseca. Necessità che qui si fonda sull’esplosione di ogni possibilità, sull’esaurimento di ogni combinatoria anche linguistica a partire da un punto arbitrario. Dato che non altro che un punto arbitrario è la partenza di ogni romanzo, e che ogni forma di riferimento non conta se non si risolve nel suo effettivo svolgimento.

E’ appunto questo che avvince in Galleria del vento, come in un giallo il cui protagonista è l’invenzione linguistica. Talmente esasperata che ne fa sospettare, a momenti, il motore in una ossessione della banalità narrativa. Così che, non appena si sente il sospetto di frasi fatte o di comodo, di situazioni o di elementi narrativi in qualche modo standardizzati, subito scatta l’ironia, il paradosso, la deformazione o la trasgressione. L’andamento stilistico stesso acquisisce allora uno spessore anche teorico che, certamente inopportuno se fosse presente a livello astratto, farebbe d’altra parte cadere un libro come questo nella banalità qualora fosse assente.


Lucio Klobas, Galleria del vento, Geiger, Torino, 1976, p. 248


 

 

 

 

 

 


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