20/12/22

Su Lucio Klobas. Traccia di intervento a un convegno alla Fondazione Corrente (Milano) - 1984


Come è noto “crudeltà mentale” indica, nel diritto anglosassone (cito dal Battaglia) un “comportamento ingiusto da parte di un coniuge, il quale, anche senza danneggiare la salute e l’integrità fisica dell’altro coniuge, ne mette in pericolo la sanità mentale, e gli cagiona sofferenze morali”, e può “costituire titolo sufficiente per ottenere la separazione o il divorzio”. (Ricordare magari film di Hitchcock con James Mason e Ingrid Bergman). Ed è appunto di questo comportamento che il narratore dell’omonimo racconto viene accusato dalla presunta moglie allorché questa ritorna dalla madre (ho detto “presunta” perché lo statuto della moglie, come quello di tutti gli altri personaggi di questi testi è sempre, a diverso grado, ipotetico).

Quella mentale però, tra tutte le crudeltà subite e inferte dalla moglie e dai vari personaggi, è ancora la minore: ogni pagina infatti offre un diverso esempio di un vastissimo campionario, sia immaginario che reale, che dallo scherzo stupido, ma non per questo meno truce, si estende fino alla violenza più efferata.

E tuttavia non sono nemmeno queste ricorrenze che colpiscono nella scrittura di Klobas e che la qualificano: è piuttosto il tono con cui vengono enunciate, il punto di vista a partire dal quale vengono raccontate. Crudeltà mentale allora, se indica un aspetto della narrazione, più ancora indica il principio, la fonte e insieme la modalità della sua emissione.

Spogliata di ogni consolazione amara e rancorosa potremmo forse chiamarla cattiveria, una specie di elisir di velenosità.

 

Personalmente credo che la cattiveria, per lo sguardo di sovrana e inflessibile lucidità che presuppone, sia un’ottima cosa in letteratura, e se di qualcosa mi rammarico è solo che ce ne sia troppo poca, e perpiù diluita o razionata.

La cattiveria (se non si vuole ridursi a pura malignità, che è divertente e basta, o peggio, a melodrammatico rancore) comporta un ditacco che va esercitato in primo luogo su chi la enuncia, che dve quindi cancellarsi fino a ridursi a mera voce o diventarne l’oggetto privilegiato: se mi si passa la semplificazione direi che gli uomini propendono generalmente per questo secondo versante, finendo di solito con l’impantanarsi in un masochismo un po’ o parecchio frignone, mentre le donne (o per usare una sbiadita espressione di moda: il lato femminile della scrittura) preferiscono invece il primo, il più rigoroso, giungendo nei casi più puri (penso soprattutto a Ivy Compton Burnett) a cancellarsi in una voce assolutamente neutra. Si tratta comunque di eventi piuttosto rari, soprattutto nelle patrie lettere, tanto che basterebbe appunto la sua cattiveria sistematica ed esemplare a far apprezzare Crudeltà mentale.

Tra i due versanti sopra indicati, Klobas, che non è un tipo che si accontenta di poco, non sceglie: in perfetta atarassia li adotta entrambi, con esiti paradossali e in apparenza assurdi, ma non per questo meno realistici, come cercherò di chiarire più avanti. Nei suoi testi anzi, la distinzione tra i due versanti, già più tendenziale e logica che fattuale, non ha più nemmeno ragione di sussistere: in essi infattil’esterno non è che la proiezione o un aspetto dell’interno, il quale a sua volta viene dispiegato nelle modalità descrittive e narrative tipiche di quello che tradizionalmente è il suo opposto. Non c’è traccia di psicologia cioè, nonostante il discorso sembri calcare modelli paranoici: il tono invece è quello di un tranquillo tran tran allucinatorio perfettamente assuefatto ai propri ritmi forsennati.

Parlo di ritmi forsennati perché questi racconti, più che svolgere una narrazione classicamente strutturata e distesa (ed è per questo, e solo per questo, che li si può classificare come testi sperimentali), proliferano incessantemente di micro-narrazioni.

 

Klobas rifiuta così la costruzione classica della trama come elemento portante della narrazione, come struttura all’interno della quale si dispongono eventi, personaggi, discorsi, descrizioni ecc. ai loro vari livelli di realtà, immaginazione, ricordo, sogno ecc. – e secondo specifiche gerarchie – e fa corrispondere alla sua assenza o fragilità (che se è tale sul piano strutturale non lo è, come vedremo, sotto altri aspetti), una proliferazione, come dicevo, di micro-racconti che si susseguono senza altro rapporto apparente che non sia la semplice successione, per pura contiguità. Molti di essi, o alcuni loro frammenti, ritornano poi a volte a fornire elementi o suggestioni di continuità narrativa, mentre più spesso anarchicamente (o meglio: per derivazioni interne e contingenti) sorgono, si disgregano e scompaiono senza lasciare apparentemente traccia.

Dico apparentemente perché epesso fanno da incubatrice ad altri microracconti, disseminati in ordine sparso “senza né capo né coda” (come si suol dire), senza origine o telos, risolti anch’essi, anche quando sembrano esserci o incontrarsi circolarmente, in simulacri immaginari o in altre avventure ipotetiche: frantumati, degenerati o putrefatti, e sostituiti da protesi apogrife e vacillanti come i corpi dei personaggi.

Causalità, temporalità, identità, e le altre comuni forme di riconoscimento e di legame perdono così di pertinenza, spiazzate o in ogni caso subordinate alla contingenza e alla contiguità dei singoli frammenti. Alla fine risulterà ancora l’ombra di una parabola compiuta, un simulacro di trama dalle maglie molto larghe, ma assimilata agli altri momenti della narrazione: persi e confusi, trasportati dallo stesso ritmo, anche i normali cardini strutturali e gli elementi tematici topici nel duplice senso, 1) retorico di luoghi dove trovare l’argomento, e 2) fondamentali, decisivi).

Lo dimostra il fatto che dare un riassunto dei due racconti che compongono Crudeltà Mentale è, se non impossibile, perlomeno inadeguato alla grana e allo stile del testo, quando sono addirittura in contraddizione.

Così il primo racconto, quello che dà il titolo al libro, si ridurrebbe alla storia di un matrimonio, dall’improbabile incontro inaugurale, passando per tutti i rapporti tra i componenti la coppia e l’esterno – fratelli, amanti, madre, e persino la perlomeno ambigua nascita di figli-feti, alla finale vedovanza che si consuma su se stessa; e il secondo, che si intitola – lo ricordo – Complicazioni interne che dell’altro è una sorta di continuazione ipotetica post-moderna, (si ridurrebbe) alla moltiplicazione sistematica di un io inesistente che si dissolve nell’infinito speculare: degli sprcchi e della speculazione: la conclusione, se proprio vogliamo trarne una, è che è impossibile “vivere assieme”, ma è anche altrettanto impossibile viver “soli”. Non sono possibili né il rapporto né il non-rapporto. La compresenza di tutte le alternative e delle loro stesse possibilità, che si ritrova anche nella narrazione, invece di farle accedere alla presenza, è come se le moltiplicasse cioè).

Ma torniamo all’assimilazione della trama agli altri elementi. Se ciò può avvenire è perché la scrittura di Klobas, in questo di chiara ascendenza flaubertiana, più che avere di mira e per base la realtà (quella che supponiamo tale cioè) la vede già in partenza come linguaggio, anzi, più ancora come repertorio di stili e di stereotipi, dei quali le stesse possibili trame fanno parte all’identico titolo di ogni altro aspetto, e su essi Klobas si accanisce smontandoli, negandoli o ribaltandoli.

C’è anzi una specie di caccia ad ogni forma di stereotipo che, ricondotto meticolosamente all’assurdità della sua lettera, diventa il supremo suscitatore di senso, anziché, come abitualmente avviene, il suo uccisore. Lo stereotipo infatti, come è noto, è diventato tale proprio per la pregnanza che il suo significato (di solito figurato) si è trovato ad avere nel tempo tanto da indurne ad un uso esasperato che ne ha provocato lo svuotamento, finrndo col ridurlo a pura sigla che spesso dice solo il niente di pensiero di chi lo enuncia o la sua aderenza a questi o quel gruppo sociale o ideologia.

Lavorare sullo stereotipo è allora lavorare su un linguaggio fatto solo di vacuità, su un linguaggio di livello semantico vicino o uguale a zero direi, nel quale l’unico rapporto con la realtà, labile e forte assieme, è spostato su chi ne fa uso e nel fatto stesso di utilizzarlo. Ma proprio a questo punto lo stereotipo diventa di nuovo disponibile, non tanto ad essere ricondotto all’ipotetico significato o valore originario, quanto,letteralizzando quello che in partenza era perlopiù un senso figurato, come di enunciati narrativi, di un racconto cioè del tutto slegato dalla realtà ma che di fatto, usato come fa Klobas, la reduplica nella distorsione e nella parodia. Identico meccanismo viene applicato a stilemi, a topoi narrativi e in genere letterari, che forse stereotipi non sono ma che Klobas, se anche solo una volta sono passati nella memoria della sua scrittura, riesce a renderli tali. (Anna Frank, il blitz in Iran, più il resoconto dei giornali che il fatto vero e proprio). Non si contano allora tautologie vere e false, assudità, paradossi e sorprese a creare una comicità spesso sfrenata e, in ogni senso, tremenda (che fa termare di paura; disastroso, spaventoso, terribile, grave, che eccede la normalità e la misura).

E a raggerla (la comicità), più diffuso che veramente sottostante, c’è ovviamente, catafratto, assolutamente impermeabile, il più rigoroso, ma quieto, nichilismo. Sfracellati amabilmente nel suolo del vuoto, si analizzano al rallentatore, con entemologico candore le singole fasi della ridicola caduta, quelle che si sono realizzate e quelle che lo avrebbero potuto. Ed è così che, come già accennato, Crudeltà Mentale finice col dare della realtà una inaspettata quanto precisa immagine, nonostante il rifiuto originario e sempre rispettato di ogni forma di realismo e di verosimiglianza.

E’ proprio la sua (della realtà) riconduzione, o meglio la sua risoluzione totle nel linguaggio che permette di indagarne, di ricrearne la complessità al di fuori delle in questo caso arbitrarie distinzioni tra concreto e astratto, interno ed esterno, reale e immaginario, edei principi di identità e di causalità, che il testo segnala, per esempio, con l’uso frequente del gerundio.

L’espressione “dare nei gerundi” (impazzire,perdere il sennoo la pazienza) potrebbe anzi fornire un diverso titolo, o una diversa chiave e tono complessivo, del libro, del libro e della realtà di, e secondo, Klobas. E’ la realtà, che dà nei gerundi e Crudeltà mentale ne costruisce in forma perversa e comicamente feroce, un compiuto per quanto estraneo omologo. Come avverte giuseppe pontiggia nella sua prefazione, Klobas non lavora però “a quella operazione teatralmente fuorviante, che si suole chiamare demistificazione della verità” quanto piuttosto “a un progetto infinitamente più ambizioso, quello della sua mistificazione”.

Ma forse è appunto questo che paradossalmente dà la misura del peculiare e imprevedibile realismo di Klobas, che invece di rispecchiare il “reale”, lo rovescia e insieme lo sposta, pervenendo ad un’omologia tanto più vicina quanto più si allontana e diverge dal modello che almeno in un primo momento negazione e spostamento presupponevano. La più perfetta mistificazione sarebbe allora non tanto la costruzione di un mondo perfettamente simile e parallelo, più vero o vero come il reale, ma quella di un altro che con esso non ha, o sembra non avere alcun rapporto e invece ne riproduce i meccanismi evidenti e segreti con minuzia maniacale e con grande godimento. Poi però, per citare la frase finale del primo racconto, “resta da vedere ancora cosa viene dopo il godimento”.

 


 

 

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