10/04/14

Il mio amico psichiatra ha una crisi d'ansia




Mi telefona il mio amico psichiatra in preda a una crisi d'ansia. Quasi non riesce a parlare, respira con affanno e si lagna. Impreca. Farfuglia. Scaglia nel microfono fonemi allo stato puro o in piccoli grumi, aspirazioni araboidi, grattacieli consonantici slavi, lallazioni, brandelli di sintagmi nominali, radici verbali senza desinenza, desinenze sradicate. Ci sa fare col linguaggio! Mi sembra di vedergli le vene del collo gonfiarsi, i capillari sulle guance e nell'iride che esplodono, che lo imporporano. Come un cardinale. Il portamento e la stazza li ha già. Gli chiedo di raccontarmi cosa è successo, facendosi capire possibilmente. Mi piacciono le storie. A patto che siano lineari e comprensibili, però. Ha perso la strada, per l'ennesima volta! Non arriverò mai..., quasi mi urla; io torno indietro! Rinuncio! L'ansia lo avvolge, lo stritola. Rotola verso il panico, ormai sull'orlo del declivio, ripidissimo, vogliosa di precipitare, di gettarsi a capofitto giù nella paralisi, nell'apnea. Per trovare pace almeno lì. Un freno, se non altro. La calma della rigidità. Basta, se no gli rubo il mestiere.
Mi provo a farlo ragionare, una cosa per volta. Partiamo dall'abicì. Dove sei? Come hai fatto a arrivare lì? Un po' di anamnesi non guasta. Magari lo calma. Il ricordo come terapia! Dovrebbe essergli familiare. Invece niente. Funziona con gli altri, i pazienti. A lui vengono in mente solo le altre volte che ha sbagliato strada e comincia a raccontarmele, una per una, tutte!, con il loro bel condimento di libere associazioni. Il regesto completo degli smarrimenti. La mia vita come naufragio. Tutto questo mentre sta guidando. E io non so ancora dov'è. Lo aspetto con la mia borsa da viaggio all'uscita dell'autostrada e minaccia di piovere.
Inutile insistere, è agitatissimo, specifica, come se non l'avessi capito da solo; sbatte tutto, respira male. Allora gli ordino di calmarsi e di accostare, con un tono che non ammette replica. Mi concedo anche un cazzo! rafforzativo. Quando ne ho l'occasione non me la lascio sfuggire. Non mi dispiace il turpiloquio, ma sono troppo educato per farne uso. Mannaggia! Smettila, c.zo!, e dimmi di preciso dove sei che ti guido io.
Finalmente ci riesce. E' fuori di appena venticinque chilometri, sull'autostrada sbagliata. Niente di grave. Sempre che non si metta a diluviare. La cosa più semplice sarebbe farlo tornare indietro fino al punto dove ha sbagliato l'imbocco, ma è uno svincolo multiplo e complicato, e temo che giunto lì, vista anche l'indicazione di casa non mi torni indietro per davvero. Più che rinunciare al viaggio mi scoccerebbe farmi venire a prendere. E i commenti.
Non posso rischiare che faccia dietrofront. Difficile sapere cosa passa per il cranio di certe persone. Frequenta gente stramba, giorno e notte, per lavoro e diletto (è anche scrittore, e la moglie, che ora immagino irrigidita e silenziosa al suo fianco, poetessa: figurarsi!), e non serve a nulla che eriga difese su difese, che cerchi scappatoie e deviazioni: rischia sempre di diventare come loro; e mica uno solo, con una o due, o tre, identità; no: tutti!, con il peggio di ciascuno. Lui dice che lo fa apposta; ci gioca, finge. L'arte! Razionalizza, ovvio. Perché poi le uniche deviazioni che trova sono quelle che imbocca per sbaglio quando si mette in viaggio. Ogni sacrosanta volta. Per questo si sposta solo con i viaggi organizzati, o se ha qualcuno che lo accompagna o attende. Che qualcuno, almeno allora, pensi per lui! Che lo guarisca dalla pena, e dalle incertezze, del guaritore. Che gli apra una via di sfogo. Un varco (è ligure). Psichiatri in fuga! Una citazione. Una modesta proposta per un kolossal hollywoodiano. O un ancora più modesto progetto woodyalleniano. Marxiano, anche: nel senso di Groucho. Il mio psichiatra fuma il sigaro come lui, del resto. E come Sigmund, certo... E ha i baffi, come Groucho. Ma anche il pizzetto: sempre come Sigmund, per non farsi mancare niente. Con tutto che è un eretico di quelli che manco si premurano di scusarsene. Un deviante!
E si perde ogni volta. Si agita, va in ansia, in panico quando è particolarmente in vena (oggi non ancora per fortuna: l'ho preso per la collottola un attimo prima); e si perde. E non si calma. Allora gli rifilo un ceffone via etere. Facciamo due, per sicurezza. Per gli amici questo e altro. Lo minaccio e lo tranquillizzo. Con questa tipologia è consigliabile un comportamento elementare. Niente ambiguità soprattutto. Gli ordino di darmi ascolto. Silenzio! E guai se torni indietro! Ti insegno io un percorso alternativo. Tranquillo, ti guido io passo per passo. Intanto guardo il cielo che si fa sempre più scuro. Fingo di non sentire gli strombazzamenti e i commenti di camionisti. Alcuni mi chiedono la tariffa. Bestie! Faccio tutto gratis, io! Gli chiedo (al mio psichiatra) di leggermi i primi cartelli che incontra fuori dall'autostrada e gli do le prime indicazioni. Poche alla volta e molto chiare. Resta sulla statale e alle rotonde segui sempre l'indicazione della mia città, senza farti tentare da segnalazioni alternative per altre strade. Si può arrivare in tanti modi, ma tu segui me, non abbandonare la via principale anche quando i cartelli suggeriscono altri percorsi. E qualsiasi problema, chiama subito! Che io cerco di capire come togliermi da qui e andargli incontro in un posto facile da raggiungere. Ma questo mi guardo bene dal dirglielo. Fossi matto! Intanto trovo un passaggio. E subito comincia a piovere.
Mi telefona dopo 5 minuti convinto di essersi perso ancora. Smozzica le parole, alterna bassi e alti, sordine e vibrati, spezza il ritmo e varia i toni con discorso sincopato, ora. E' un patito del jazz. Un'altra delle sue sfaccettature. Delle sue tante sfaccettature. Tantissime, che vanno tutte in direzioni diverse. Pure loro. Che forse non sono nemmeno sfaccettature, ma frammenti, detriti sparsi di nessuna unità. Per dire... No, vai benissimo, lo rassicuro, anche se non è vero perché stava davvero per perdersi di nuovo, e aggiorno i comandamenti per tornare sulla retta via, e per i dieci km successivi. Se supera quelli è fatta. Poi la strada è tutta dritta.
Dopo 3 (tre!) minuti, mi chiama di nuovo, e fortuna che non ha esitato, perché stava rischiando un'altra deviazione. Lo guido passo per passo col cellulare, mentre lui guida l'auto e altre voci cercano di guidarlo altrimenti. Ascoltare le voci, in particolare le voci di quelli che sentono le voci, è la sua passione.  Con pochi aggiustamenti lo riporto nella giusta direzione, e finalmente posso  dargli le ultime indicazioni e chiudo. Prima di ringraziarmi, però, ci sarebbe un ultimo favore: prenderlo a pugni in testa non appena arriva. Non chiedo di meglio. Anche a nome dei suoi pazienti.

Quando arriviamo in Germania, è la disinvoltura fatta persona. Si guarda attorno professionale. Ma anche pacificato, carezzevole. Osserva. Scruta. E poi analizza. Anatomizza. Classifica. Riconosce e confronta. Diagnostica volti, cose, paesaggi. Diagnosticherebbe anche le nuvole, se ci fossero. Invece splende il sole, qui. Il cielo è perfettamente sereno, come il nostro umore. Il suo più di tutti. E il traffico è scorrevole. La meta già in vista, nessun errore possibile. Guida senza incertezze. Qui sì che le segnalazioni sono chiare!, proclama. E non sa una parola di tedesco.



 simpatici, eh? e hanno pure la sfrontatezza di volermi bene (ricambiati)

02/04/14

Quello che ho imparato dalla visita alla Cappella Scrovegni (attenzione: dalla visita, non dalla Cappella)


Sono stato a Padova per presentare il mio romanzo Tempesta (10 persone, tutte incantevoli e, mi sembra, incantate: molto bene!) e ne ho approfittato per tornare a vedere Giotto e Musei.
Alla Cappella Scrovegni era la quarta volta che andavo: due in epoche antiche (anni '80 e '90) e una lo scorso anno.
Sono arrivato alla biglietteria degli Eremitani a un quarto alle 10: ho fatto il biglietto per Cappella Scrovegni e Musei (13 euro) e poi pagato i 3 euro di supplemento per le mostre su "Guariento e la Padova Carrarese" sparse in città. Il bigliettaio mi ha detto di correre subito agli Scrovegni perché mi aveva inserito nel turno delle 10. Sapevo dall'ultima volta com'è la trafila e mi sono affrettato per non saltare il turno. Nonostante questo, sono arrivato che avevano appena chiuso la porta. Ho fatto segno, ma non c'è stato verso di entrare. Per fortuna non si era ancora messo a piovere, così mi sono seduto su una panchina lì fuori a leggere. Quando attraverso le vetrate ho visto che la gente all'interno si stava muovendo, mi sono portato all'ingresso  e  sono entrato nel locale di quarantena davanti a un televisore che trasmetteva in loop un documentario sugli affreschi e spiegava anche il restauro giustificando tutto il cerimoniale dell'attesa e della visita. Essendomi già pappato il filmato l'anno scorso, mi sono rincantucciato su una poltroncina dell'ultima fila e ho continuato a leggere con la musica negli auricolari x non farmi distrarre. Dopo un po' i nostri predecessori sono sbucati dal corridoio che introduce alla Cappella e in un paio di minuti è entrato il mio gruppo, una dozzina di persone.
Conosco bene la Cappella, anche per aver letto dei libri e visto filmati dettagliati e riproduzioni molto accurate, però l'impatto è sempre un colpo! Per non parlare dello starci dentro! Infatti non ne parlerò.
Appena entrato sono stato attratto dall'Ultima Cena, alla mia sinistra: ho guardato per un po' la disposizione degli apostoli attorno al tavolo e nello spazio architettonico, poi mi sono voltato e mi sono accorto, per la prima volta, che la Pentecoste era proprio di fronte, e che gli apostoli nel frattempo non si erano cambiati d'abito (50 giorni! Chissà se lo avevano lavato? Magari era l'unico che avevano... o era l'abito della festa, come si diceva dalle mie parti una volta, quando in genere uno aveva solo un abito bello che doveva durare più o meno tutta la vita) e che persino la diposizione attorno al tavolo era variata di poco, in particolare quella che mi interessava (non dirò quale né perché). L'architettura del Cenacolo invece un poco aveva subito delle modificazioni: un giorno o l'altro qualcuno me ne chiarirà il motivo. Sempre che il Cenacolo dell'arrivo dello Spirito Santo sia stato lo stesso dell'Ultima Cena. Certo che uno potrebbe anche dire che dopo l'Ultima Cena niente resta esattamente lo stesso, e figuriamoci poi all'arrivo fiammeggiante dello Spirito Santo in persona! Ho preso un veloce appunto di quello che ho notato (senza queste ultime sciocchezze) e sono andato dritto filato verso il Giudizio Universale sulla parete di fondo per verificare una cosa. Sì, era come pensavo. Non ho fatto in tempo a appuntarmi anche questo (3 righe) che il custode ci ha pregati di uscire. Come uscire?
Bisogna lasciare il posto alla prossima infornata. Posso restare anche per il prossimo giro?, chiedo al custode. Non sono tanti, uno in più non cambia. Niente, non posso, mi fa rammaricato. Gli spiace ma le disposizioni sono queste. Sembra sincero (il che non cambia nulla ai fatti però). Non sono l'unico a lamentarsi. Mi consiglia di scrivere all'autorità preposta. Un consiglio che mi daranno anche più tardi, per una circostanza diversa. Ne parlerò altrove.
Guardo l'orologio: la visita è durata 13 minuti (come gli euro del biglietto). In questo frangente ho osservato due scene (e solo per quei particolari che mi interessavano) e dei dettagli di un'altra. Non ho visto come si sono comportati gli altri turisti. L'ultima volta c'era una ragazza che spiegava un po' a chi lo desiderava, o quantomeno dava alcune informazioni storiche e iconografiche: stavolta niente. Non so, forse è un bene; io non ero stato ad ascoltarla, ma mica tutti i visitatori si sono studiati gli affreschi per i fatti loro. Cosa avranno visto gli altri? In 13 minuti uno al massimo guarda un paio di cose e, se è ricettivo, per il resto si lascia impregnare dall'ambiente. Dai colori dominanti, da un vago senso spaziale. Nella cappella hanno ristretto anche lo spazio deambulatorio, così che uno non può avvicinarsi più di tanto alle pareti. Deve stare attento a come si muove, camminare al centro, con un occhio al flusso degli altri visitatori. Se vuole alzare la testa senza intralciare chi invece si sta spostando, deve accostarsi alle transenne e starsene lì immobile, roteando collo e sguardo secondo le capacità. Le mie per esempio sono scarse (è da un po' che non vado dal fisioterapista). Tenendo conto del percorso e degli sguardi panoramici complessivi, del tempo perso per adocchiare dettagli o figure minori, come le allegorie o gli scorci prospettici, per ogni scena restano in media 15 secondi al massimo. Alla fine non hai visto un fico secco; se va bene te ne esci imbevuto di una vaga atmosfera a cui per comodità (e per non sentirti un cretino, o per non incazzarti), dai il nome di Giotto. Nemmeno imbevuto: una leggera spolveratina, una vaporizzazione che si dissolve ancora prima di essere uscito.
Arrivato all'aperto ti guardi attorno un po' confuso. Cosa mi è successo?, ti chiedi con la testa che gira. I tuoi compagni di avventura si stanno disperdendo nel parco. Ti siedi sulla prima panchina disponibile e hai la certezza che tutta la tua vita è andata esattamente così.

26/03/14

L'ignoranza è generosa. (Storiella con curve. E una retta.)




Pensavo, durante la passeggiata, che quest'anno, senza cambiare di una virgola i miei percorsi, mi piacerebbe cominciare a esplorare un altro universo. Quale, ancora non so, ma non dovrebbe essere difficile trovarne uno nuovo. L'ignoranza è generosa.

Mi guardavo attorno, come a cercare uno spunto, ma senza fretta e con scarsa convinzione, per scaldare i muscoli (sarebbe il cervello; o i sensi, non si sa mai...), quando ho visto due papere nel canale: si muovevano di traverso, abbandonate alla corrente che, dopo una curva, le spingeva verso riva. Sembravano divertite da quell'attraversamento dolce. Si godevano la diagonale. O forse erano solo indifferenti, e la passività comoda, naturale.
Di sicuro non erano allarmate, in sospetto: nemmeno verso di me, che le aspettavo più in alto, sull'argine, guardando di sbieco, lo sguardo curvato  incontro alla corrente che sulle prime non avevo percepito, con la pretesa di decifrarla. Ecco.

Sullo sfondo, tra le canne secche, ingobbite, ma appena appena, verso la strada, un vecchio palo della luce in disuso, dritto come un fuso. O come un palo della luce. Non ci sono che loro, qui che vanno su dritti dritti. Muoiono in piedi, persino loro.
(A me invece non dispiacerebbe stendermi lì, sul ciglio, tra l'erba, e aspettare. Stare un po' a vedere...)

(Poi ho fischiettato tutta la strada, da perfetto scervellato.)


(Ps. Sottofondo, stavolta, Robyn Hitchcock. Lo dico per Giacomo, nel caso passi di qui.)

20/03/14

Casa di riposo


 

 22 sett. 2006 17,00-17,40
Ho accompagnato mia moglie a una visita specialistica da un dottore che lavora in una cosiddetta casa di riposo, un gerontocomio cioè. E’ una serie di palazzine molto decorose collegate tra loro in mezzo a un bel parco. Siamo arrivati presto e ci siamo seduti su una panchina per fumare (io) una sigaretta. Un anziano signore a venti metri da noi avanzava tra gli alberi aiutandosi con un carrello alle cui sbarre mediane si appoggiava con le mani, mentre su quelle più alte si abbandonava sorreggendosi con le ascelle quando non ce la faceva più. Ho terminato la sigaretta prima che percorresse metà della strada.
Siamo entrati nell’edificio principale. In un corridoio poco illuminato una signora molto magra, in carrozzella, quando le siamo passati accanto ci ha salutato agitando piano la mano. Ho risposto buonasera invece di buongiorno. In ritardo per giunta.
Infine abbiamo raggiunto il punto in cui il corridoio curva aprendosi in uno slargo dove sono situate le poltroncine per chi aspetta di essere visitato. Davanti, sulla sinistra, avevo un ufficio chiuso; sulla destra, in fondo alla parete, la porta aperta di una sala comune, dentro cui si potevano vedere alcuni degenti e infermiere. Ho aperto il Genji monogatari, di cui avevo già letto buona parte molti anni fa, e mi sono messo a leggere di buona lena. E’ un libro meraviglioso, spesso leggero, sempre poetico, intriso di grazia in ogni pagina; il punto a cui sono arrivato però è piuttosto triste, direi cupo. Lo leggo con adesione totale, senza accorgermi di ciò che avviene attorno. Arriva il dottore e mia moglie lo segue nel suo studio. A un certo punto sento, da dietro l’angolo, la voce tonante di un’infermiera che dice “Lei parla molto bene, ha mai pensato di scrivere le sue memorie?”. Alzo la testa e dopo un po’ vedo spuntare un ometto dalla lunga barba metà bianca e metà nera, la figura fragilissima, che si sposta molto lentamente aiutandosi con un carrello basso, in silenzio, a passettini, con l’aria stremata. L’infermiera invece è un donnone di mezz’età (più giovane di me). Entrano nella sala comune e spariscono dalla mia vista. Subito dopo sento una donna che dice: “Più a sinistra, Berto. Ecco, adesso dritto”. E’ un’infermiera alla cui spalla è appoggiato un uomo robusto, con una piccola borsa a tracolla. Cieco. Lo guardo: è Bertino, nipote della mia balia, che abitava nel cortile di fronte al suo. Ho giocato con lui da bambino.
Ho il ricordo netto di alcuni pomeriggi nei due cortili (il suo molto buio) e di altri in campagna, d’estate, tra i covoni di fieno, in compagnia del marito della mia balia. Era il tempo dell’asilo (delle materne come si dice ora) e delle prime due classi delle elementari. Bertino ci vedeva ancora un po’, ma si sapeva che era condannato a perdere la vista. Io non capivo. Non capivo che certe cose lui non le capisse, che non ci arrivasse, che fosse lento nell’eseguirle. Ma non mi spazientivo, mi pare, continuavo a giocare con lui. Poi sono cresciuto, andavo a trovare la balia meno spesso e lui l’ho visto sempre meno. Credo che l’abbiano mandato in una scuola per ciechi, chissà dove. Molto più tardi ho ripreso a vederlo ogni tanto in giro per il paese, prima con la mamma e poi appoggiato alla spalla di qualche cugino o zia o assistente comunale. Ed ora eccolo qui. Ha un anno più di me e sembra più vecchio di almeno dieci.
Prendo un appunto su uno dei foglietti che tengo sempre nei libri. Due cosucce veloci, come promemoria. Quando alzo la testa vedo un’infermiera sui 35-40 che mi guarda sorridendo e se ne va. Seguo la sua figura di media altezza, dalle spalle larghe, fianchi con un po’ di ciccia, un culone ampio ma non esagerato che si allontana. Sovrappeso di una dozzina di chili perlomeno. Non so come né perché (anche se forse dipende dalle avventure amorose di Genji che non se ne lascia scappare una e a cui tutte, belle e brutte, cedono più che volentieri), all’improvviso mi viene da pensare: “si può scopare con tutti”. Che razza di frase è?, mi chiedo subito. Ci penso. Non c’è disprezzo. Tenerezza, anzi. Meglio: simpatia. Penso a come sarebbe fare l’amore con lei. Gradevole, immagino, forse gioioso. Tranquillo, senza stress, entrambi attenti solo a farci del bene. Bello. Perché no? Chi sono io per fare lo schizzinoso, l’ipercritico? Mica sono bello e splendente come Genji; mica solo gli adoni fanno l’amore. Cosa pretendo? Corpi perfetti e giovani? (E chi pretende qualcosa? Faccio delle ipotesi, seguo delle idee, vado a vedere cosa c’è dentro quello che a volte viene da pensare. Pura accademia.) Non sono male, certo: lo deduco (lo immagino) dagli sguardi di alcune donne che ogni tanto mi guardano come io (credo: perché non mi vedo) guardo altre donne, quasi sempre diverse da quelle che guardano me (a volte anche le stesse, però; ma più di rado). Lo verificherò poco dopo, mentre fumo da solo fuori da un grande negozio di abbigliamento. (Sì, proprio così.) (Ma non pretendo niente. Probabilmente sbaglio.)
Ma adesso sono qui, ancora sulla poltroncina nel corridoio della casa di riposo. Sto prendendo un appunto anche sull’infermiera paciosa. Mentre scrivo ne percepisco la grazia e penso a ciò che ho appena scritto qui, a ciò che avrei forse sviluppato qui o forse no. Quando alzo la testa, due metri davanti a me, su una carrozzella, c’è un uomo molto anziano, dal viso emaciato, che mi fissa con gli occhi e la bocca spalancati. Occhi sbarrati, come di chi ti osserva da un altro mondo, dall’aldilà forse (e non capisce). Per un attimo lo guardo anch’io, ma non riesco a mettere a fuoco quasi nulla, perché subito arriva un’infermiera e lo porta via.
Subito dopo arriva mia moglie e porta via me.