12/03/15

Su Antonio Moresco - 4 recensioni (1993- 2013) e una breve nota finale



4 testi su Antonio Moresco e una piccola nota finale
 

1 Clandestinità, Boringhieri, Torino 1993, p.163
il manifesto 7-10-1993

   Ci sono dei libri che rincorrono il lettore, con modi che possono variare dal servilismo alla più nobile seduzione; altri gli vanno incontro come a un eguale con cui discutere e confrontarsi; e altri infine, meno numerosi, che sembrano quasi difendersene e sottrarsi alla sua vicinanza, disseminando difficoltà e facendo perdere le proprie tracce non appena intravisti: se uno vuole rincorrerli, bene; altrimenti poco importa. Una volta raggiunti però, sono quelli che spesso lo accompagnano più a lungo. Libri pazienti. E' presto per dire se anche a Clandestinità, opera d'esordio del quarantaseienne Antonio Moresco, toccherà questa sorte generosa, quel che è certo è che esso rientra di diritto nell'ultima categoria e che ne condivide molti dei meriti.
   Le storie che Moresco racconta di accattivante hanno ben poco al primo approccio, sono dure, senza consolazioni, talvolta sgradevoli, come la realtà che guardano con occhio impassibile e che narrano con voce inflessibile, priva di cedimenti e di modulazioni. A riassumerle sembrerebbero comuni (più si riassume, più tutto lo diventa): la scoperta del sesso in La camera blu, il mondo e le fantasie di un'infanzia orfana in La buca; la fuga continua di un uomo braccato da ossessioni di cui si ignora l'origine  in quello che dà il titolo al libro; ma poi, guardando più da vicino, di comune resta ben poco. E da vicino non si può evitare di guardare non solo perché così esige ogni narrazione, ma perché proprio nella concatenazione di dettagli e nella scomposizione di azioni e eventi, senza psicologia né concettualizzazioni o esplicazioni, le storie di questo libro prendono forma. Fatti e cose sono visti dall'alto e da lontano, da una scala, dagli alberi o dal tetto, o nella vicinanza intoccabile che permette il binocolo, che frammenta il mondo dilatandone la mostruosità ma anche impedendo il contatto, riparo dalla contaminazione ma anche impossibilità di conforto.
    L'effetto è contemporaneamente di aderenza totale e di assoluto distacco: oggettività radicale dello stile, che non esita a seguire fino al limite, senza remissioni ma anche senza compiacimenti, le descrizioni e le vicende più scabrose, riducendo all'osso l'apporto retorico e rifuggendo da ogni simbolismo diretto o estrinseco(che è poi la strategia migliore per far diventare tutto immagine secondo modalità dettate dalla sola narrazione); aderenza dei protagonisti, rispetto ad un mondo in cui si perdono i confini di reale e immaginario e che si manifesta loro solo col volto della singolarità di volta in volta presente. Ad essi, che dall'orrore che nei dettagli traspare cercano in tutti i modi di salvaguardarsi, il distacco non è mai concesso. "La goccia di orina sul punto di cadere"  che brilla "in fondo al cespo di peli" sotto il "ventre gonfio, deformato dall'ernia" della vecchia Signorina cieca che vive nella camera blu; la macchiolina di sangue sul muro della stanza del fratellino o la vita brulicante nell'universo scatologico della latrina in La buca; i brandelli di un palloncino scoppiato nella vagina della signora dell'appartamento di fronte e quelli del cadavere che esplode nella vasca da bagno in Clandestinità, sono rivelazioni e esiti di un mondo, e di soggetti, rispetto ai quali non ci può essere una giusta distanza che permetta almeno l'ombra di una visione complessiva. Non sono nemmeno frammenti di un insieme di cui tentare la ricostruzione, ma appunto brandelli, frattaglie, scaglie, deiezioni, resti e frantumi, nauseabondi come i "tumori, polipi, arti amputati, garze insanguinate e infettate dal pus" che, in La camera blu, il ragazzino vede bruciare dalle suore nel forno del vicino ospedale, o indecifrabili e persecutori come i rumori delle tubature e degli appartamenti contigui e gli sguardi dei numerosi animali che si aggirano per le stanze e i cortili di questo libro.
   Di queste singolarità sconnesse i protagonisti dapprima, come il bambino del primo racconto, subiscono il fascino, che è insieme attrazione e paura,  meraviglia e sgomento; per poi cercare confusamente di interpretarle, come fa, senza averne precisa coscienza, l'adolescente del secondo quando, dai libri che si trova tra le mani, ricopia i brani più disparati su foglietti che  nasconde, assieme alle pagine del diario, nel cavo di una testa in gesso del Parini, la cui apertura verrà infine sigillata, e mimetizzata, con una delle pallottole ritrovate scavando in cortile; finendo tuttavia coll'esserne ossessionati, come l'adulto del terzo, che si vedrà costretto ad una fuga senza fine, nella  vana ricerca di un luogo dove abbia inizio "il silenzio" nel quale "scomparire".
  Clandestinità impossibile, che trova un ostacolo insormontabile già nel corpo: quello degli altri, con le sue manifestazioni spaventose, con le sue deformità e malattie, e in definitiva con l'orrore della morte che lo infetta dall'origine, e il proprio, alle cui trasformazioni e necessità i protagonisti non riescono ad assuefarsi, doppiamente minacciato dall'esterno e dall'interno, perché tutto può e vuole entrare; poco esce, e ancora con fatica e dolore; il resto è come una bomba che si accumula dentro. Ogni contatto con l'esterno, e soprattutto con gli uomini, finisce per rivelarsi doloroso e violento; in ogni caso mortale. Meglio difendersene allora, starne alla larga. Ma non è così facile; a volte ti rifugi nel locale della caldaia, ascolti il suo ronron e ti plachi al suo tepore, ma se ti avvicini ti scotti; un'altra ti trovi a qualche metro di distanza da una donna su una strada solitaria, vai sull'altro marciapiede per segnalarle che non la stai seguendo, poi riattraversi quando ti accorgi che il tuo gesto l'ha impaurita, e quando decidi di sorpassarla per rassicurarla e la vedi bloccarsi contro il muro: "E' come me! E' come me!", ti accorgi all'improvviso.

                           
2 Lettere a nessuno, Bollati Boringhieri, p. 280
il manifesto, la talpa libri, 6-03-1997

Lettere a nessuno, terzo libro di Antonio Moresco che conferma il suo notevole talento manifestato con Clandestinità e La cipolla (Bollati Boringhieri, ‘93 e ‘95), è una sorta di diario scritto tra il 1981 e il ’91. La sua redazione è fitta nei primi e negli ultimi anni, mentre si dirada in quelli tra il 1984 e il 1989, occupati dalla stesura di un grosso romanzo intitolato Gli esordi.
Il diario inizia con queste parole: “Non esisto più per nessuno. Non esiste più nessuno.” Inizia dunque, e finirà poi, in una situazione di isolamento assoluto ed è la narrazione dei reiterati tentavi da parte dell’autore di romperlo: al di fuori, mediante l’invio a varie case editrici dei testi che va scrivendo, e al di dentro, attraverso le lettere che scrive a coloro coi quali ha condiviso, direttamente o idealmente, i momenti più importanti della sua vita, dall’infanzia al seminario, ai due lustri di militanza in “Servire il popolo”. Ma i destinatari di queste lettere non le riceveranno, e quindi non possono rispondere, perché alcuni di essi sono nel frattempo morti e con gli altri Moresco ha ormai troncato ogni rapporto da quando si è allontanato dalla militanza, mentre coloro che ora, scrivendo, cerca come nuovi interlocutori a loro volta non rispondono, perché non lo vogliono.
“Non esiste più nessuno che scriva lettere, non esiste più nessuno che legga lettere e non esistono neppure lettere. Se si vuole scrivere a qualcuno, bisogna per forza scrivere a nessuno.” E lui le scrive e continua a farlo anche quando qualche interlocutore Maria Corti, Fofi, Facchinelli, Raboni...) sembra disposto a prestargli un po’ d’ascolto, che tuttavia viene subito meno. Parla dei suoi libri; si assume “la pena” di “doversi da se stesso lodare” e di “mendicare come un pezzente anche la sola lettura” di essi; si scaglia contro una concezione epigonale della letteratura e contro i signori dell’industria culturale; segue la parabola di tanti suoi famosi ex-compagni che hanno operato più o meno disinvolti cambiamenti di rotta; ricorda il destino di molti anonimi che invece si sono persi per strada, rinsecchiti, malati, chi impazzito, chi suicida e chi diventato comune assassino.
Si tratta insomma di un libro privato, scritto solo per sé con “la mano sinistra” e del quale solo come tale Moresco ha accettato la pubblicazione, senza ritocchi né camuffamenti, nella speranza che possa facilitare quella degli Esordi, senza dover aspettare, come con Clandestinità, dodici anni, quelli che grosso modo coincidono con queste lettere.
Ma una volta pubblicato il suo statuto cambia, si complica e diventa più ambiguo, avvicinandosi di più a quello di un romanzo (e così ho il sospetto che abbia finito per percepirlo anche Moresco stesso). Chi ha conosciuto l’autore in passato o lo conosce ora, così come chi conosce i personaggi pubblici che col compaiono in queste pagine o ha vissuto alcuni degli eventi narrati, farà fatica a districarsi in questa ambiguità, ma è probabile che proprio da essa il libro tragga parte del suo fascino.
La scrittura è in presa diretta, come avviene in ogni testo privato che non finga con se stesso (e questo certo non finge; anzi, la sua sincerità è spesso “scorticata”, dolorosa in primo luogo già per chi sta scrivendo), e tuttavia è sempre quella di uno che non scrive occasionalmente, e che quindi non dimentica mai di star scrivendo (tanto più quando, come Moresco, pensa che le parole, sequestrate dalla “società della dimensione audiovisiva e dello spettacolo” che le ha svuotate di senso o viceversa ridotte a “colto colesterolo” da chi “tiene ferma la distinzione tra «alta» e «bassa» cultura” , “sono un terreno di guerra” e che ormai si deve lavorare “in una lingua che è diventata una fessura”).
E pure la realtà dei fatti riportati è indubitabile, anche se è certo che la ricostruzione degli anni di militanza (l’occupazione di case a Verona, gli scontri di piazza ma anche i contrasti con gli altri gruppi, la Bologna del ’77, un campo di lavoro a Cuba...) e l’immagine di alcuni suoi protagonisti (Leonetti, Brandirali, Bifo, Fiori...) appariranno a qualcuno parziali o distorte, e comunque troppo legate ad una vicenda personale per poter assumere una qualche forma di oggettività, ferma restando la serietà della riflessione di cui sono oggetto.
Ma è appunto qui che la complicazione fornita dallo statuto romanzesco può aiutare a leggere queste Lettere. Credo infatti che la vera storia del libro sia quella di una vocazione che cerca se stessa in maniera cieca e persino furiosa, aderendo in modo totale ad ogni condizione che sembra di volta in volta incarnarla, e che poi, una volta riconosciutasi nella scrittura, affronta l’angoscia di una quotidianità sempre da conquistare, nell’assenza di ogni riscontro oggettivo nonostante la certezza di aver incontrato il proprio destino. La sua materia è molto simile a quella degli Esordi, ma mentre in quello tutto appare trasfigurato e depurato da ogni riferimento realistico o psicologico, qui l’aspetto autobiografico è dominante, come se Moresco avesse dovuto affrontarlo di petto per potersene allontanare e liberare prima di intraprendere il compito che si era assunto per gli anni a venire. Anzi, io credo che abbia dovuto scrivere questo libro per poter scrivere l’altro, anche se poi questo è diventato un libro autonomo e, aggiungo, di grande valore, che niente impedisce di leggere come un romanzo. Chi dice io infatti, pian piano per il lettore acquisisce la fisionomia di un personaggio coerente, dai tratti in qualche modo dostoevskijani, in bilico tra l’uomo del sottosuolo, preda da sempre di un senso do “incolmabile esclusione”, e il rivoluzionario che con candore e fanatismo, anche a costo di qualsiasi sacrificio, segue la strada degli altri perché vuole essere come loro, salvo poi sentirsi “sempre un po’ come un infiltrato” o trovarsi in uno “stato di immensa solitudine” anche al primo congresso del partito di cui è  “membro fondatore”, mistico anche nella politica e impegnato a modo suo nella ricerca dell’assoluto. Tramite le vicende di questo personaggio, indirettamente, una storia privata finisce per coinvolgere, e in certi casi travolgere, anche quelle di altri, fino a diventare per certi aspetti generazionale, ma lo diventa solo in quanto personale, non per la sua esemplarità. Il mondo da esso descritto è conflittuale, l’opposizione in ogni caso inconciliabile: “io mi sento in guerra totale con tutto quanto mi circonda”, scrive, anche se poi aggiunge: “ma lo sono a tal punto da sentirmi, a volte, quasi in pace con esso.” Col mondo, non con gli uomini, perché con loro il rapporto resta sempre interrotto. La sua clandestinità è tanto subita quanto voluta, addirittura cercata a dispetto del dolore che comporta. Solo coi morti e con gli assenti riesce a parlare, e a esprimere una tenerezza che nella realtà fatica a trovare sbocchi, perché sembra aver perso ogni speranza (sembra aver timore) di ogni rapporto coi vivi. Essa deriva sì dalla dissoluzione delle illusioni, per dirla col suo amato Leopardi, a cui si era votato senza risparmio, dalle frustrazioni e dai rifiuti ricevuti, ma anche dalla sua incapacità, preso dal proprio demone, di andare loro incontro, dal suo impulso a fuggire per sottrarsi al confronto diretto: in tal modo anche la durezza con se stesso può diventare la via migliore per evitare il giudizio degli altri, l’isolamento una marca di elezione. Coloro con cui davvero vuole conciliarsi non ci sono più, gli altri non ci sono ancora. E il resto è sopraffazione. Ma scrivere è qualcosa di più che tenere una porta aperta, è “opporre la gentilezza alla sopraffazione”; farsi da persona personaggio e lasciare che un diario si tramuti in romanzo è esporsi senza diritto di risposta: un atto di coraggio e di generosità. Un libro che riesce a compiere questa trasformazione merita di essere letto.


3 - 1998 inedito
scritto per il manifesto che però per un disguido l'aveva già commissionato a un altro (Dario Voltolini: bravissimo, e più veloce del sottocritto)

Gli esordi, quarto libro di Antonio Moresco, è un romanzo che esige dal lettore una grande complicità e direi quasi un abbandono paziente, generoso, proprio mentre esso sembra non concedergli nulla, negando ogni allettamento aneddotico, documentario o biografico: allettamento che poteva invece suscitare, ma si trattava di un falso bersaglio, il precedente Lettere a nessuno, diario degli anni che coprono la prima stesura di questo romanzo, la sua preparazione e le prime reazioni degli editori, e che affronta esplicitamente la materia qui lasciata in sottofondo.
Eppure questa materia sarebbe di quelle che farebbero felici i tanti che spasimano per il vissuto e gli affreschi storici: infatti il libro prima affronta l’adolescenza del narratore, che passa gli anni del boom economico tra il seminario e una villa padronale della bassa padana; poi lo segue nella giovinezza, completamente assorbita dalla militanza politica che sfocia per i suoi compagni nel terrorismo (Moresco fu tra i fondatori di Servire il popolo); e infine si conclude con l’adulto isolato da tutto e da tutti negli anni dello spettacolo, della moda e dell’industria culturale.
Moresco invece non solo si sottrae ad ogni tentazione memorialistica, ma adotta un punto di vista risolutamente romanzesco, cancellando o mascherando ogni riferimento a eventi, luoghi e persone riconoscibili e sgretolando la narrazione in un nugolo di episodi e frammenti che nulla rilevano delle convenzioni realistiche.
Ma è proprio a partire da questo rifiuto, e dalla costellazione concettuale di cui fa parte, che conviene leggere Gli esordi. Silenzio, antagonismo, differenza, separazione, alterità e sottrazione sono esplicitamente già annunciati dalla frase di apertura: “Io invece mi trovavo a mio agio in quel silenzio”. Io è la prima parola, ma sarà anche l’unica volta in cui il pronome viene scritto in tutte le 540 fitte pagine di un libro ricco di personaggi ma tutto focalizzato sulla figura del narratore; invece è la seconda, ma inseparabile dalla prima, un ‘invece’ che sembra essere l’unico elemento che permette di definire questo ‘io’ che nel suo atteggiamento di fondo resta inalterato pur nel mutare di scenari e attività, sempre vissuti, ma meglio si direbbe assunti e insieme subiti, con identica radicale intensità.
Più che un soggetto di, infatti, il narratore appare come soggetto a, preda di tre successive vocazioni (religiosa, politica e letteraria) che corrispondono alle tre scene  (del silenzio, della storia e della festa) in cui il libro è suddiviso, alle quali egli si abbandona a corpo morto, che però abbandona non appena pronunciato il ‘sì’ dell’accettazione. Le prime due, quanto meno.
Tutte e tre le scene si concludono con un ‘sì’, ma è un sì che di fatto è un ‘no’: non per nulla, subito dopo, la scena cambia. Tuttavia, mentre le prime due volte a pronunciare questo sì che nega è il protagonista (singhiozzando nel primo caso, e facendo una smorfia nel secondo), in chiusura, a volerglielo far pronunciare è l’editore, che vorrebbe indurlo nella tentazione di distruggere, “come se niente fosse”, il manoscritto che gli ha sottoposto, e proprio in ragione della sua eccezionalità.
Il libro termina senza la risposta del narratore, e questo silenzio, che fa il pari con quello dell’inizio, suona come un no che stavolta è un sì: non ci sarà cambiamento di scena stavolta, l’ultima vocazione è quella buona. Non c’è bisogno di altre parole perché proprio delle parole egli ora si nutre e perché proprio il modo in cui ha deciso di assumere le parole è la più decisa negazione del ‘come se niente fosse’, della sua logica superficiale e consolatoria che tutti sembrano aver assunto accettando questo o quel sistema rassicurante di interpretazione della realtà da cui sente di egli sente invece di essersi distaccato per sempre.
La presenza solo in filigrana degli eventi non è che una conseguenza di questa negazione, o meglio del riconoscimento del doppio binario su cui si era svolta  la sua vita fino al momento dell’ultima decisiva vocazione: quello pubblico, sociale, fatto di atti di cui spesso non conservava nemmeno la coscienza di averli compiuti, e quello di un mondo interiore che col primo non riusciva a conciliarsi e che quando incontrava la realtà era solo come sorpresa e interrogazione, incanto e sgomento. Quando sente esaurita l’attività politica è per dedicarsi completamente alla riscoperta e alla ricostruzione di questo secondo binario. Nella terza scena il narratore ha già scritto un libro, che produce i suoi effetti nonostante le l’atteggiamento ironico e ostruzionistico dell’editore, e soprattutto il protagonista ha definitivamente accettato ormai di vivere in una dimensione in cui realtà e fantasia, vivi e morti, persone reali e personaggi di invenzione convivono indissolubilmente e si scambiano i ruoli, in un tempo che contiene tutti i tempi, non come bazar di contaminazioni, ma con scarti, dilatazioni e accelerazioni che alla fine tuttavia si traducono in un eterno presente, quello della narrazione.
Allo stesso modo convivono e si ribaltano in continuazione l’una nell’altra la visione ravvicinatissima e quella dall’alto e da lontano, grande e piccolo, infimo e cosmico, repellente e sublime, ma sempre in una raffigurazione di tale immediatezza percettiva da tramutarsi in visionaria. Tutto sta, anche qui, nella tensione: tensione radicale di linguaggio che sola legittima, allontanando ogni patetismo da una parte e ogni ridicolo eroismo dall’altra, la radicalità delle scelte del protagonista. Appunto da questa tensione derivano l’inutilità di ogni discorso teorico o astratto e l’impossibilità di leggere come simboli o allegorie i molti episodi che sembrano alludervi. Narrazione e descrizione non rimandano ad alcuna trascendenza, fosse pure quella di una presunta realtà o di un senso ulteriore, ma si pongono come autosufficienti, chiusi in se stessi. Eppure, se la bellezza di molti passaggi basterebbe a giustificare questa autocentratura, nondimeno il movimento della significazione non accetta di esaurirsi al suo interno e esige un’opposta tensione verso il fuori, anche se destinata come un elastico a tornare al punto in cui è fissata, o a spezzarsi. La posta in gioco di Moresco è questa, e la sua sfida sta nel portarla fino in fondo, anche se lui pure forse sa che è impossibile aderirvi senza mai deviare: atteggiamento a ben vedere mistico, come lo era quello che aveva fatto aderire il suo narratore alla precedenti vocazioni. La differenza è che ora, cancellato il rimando ad una realtà trascendente, religiosa o sociale, la pretesa è quella di non ricorrere più ad alcuna rassicurante ideologia.
L’insensatezza, prima, consisteva proprio nel desiderio ansioso di inquadrare realtà e vissuto in un senso ricollegabile a un sistema interpretativo dotato anche solo di un’apparente coerenza e come tale rassicurante; ma questo finiva per negare qualsiasi senso che non fosse già predeterminato, così che tutto finiva per “sfarinarsi”, dissolversi, preda delle fiamme come nell’incendio dei rifiuti nella villa. Ora si tratta invece, per Moresco, di ricostruire un rapporto col mondo e con se stessi al di qua di ogni assegnazione precostituita di senso per sperimentare cosa ne risulta, in un atteggiamento né cieco (ogni scena del romanzo ne ha uno) né pacificato, ma come “scorticato”, esposto non importa quanto dolorosamente a ogni forma di contatto. Il romanzo è per lui l’unica possibilità di questa ricostruzione. Gli Esordi è la sua risposta a questa sfida.


4   Tavolo
doppiozero, 17-06-2013
 

Il tavolo è spoglio, nudo. E’ un tavolo su cui tutto può essere accaduto, o accadere. Un tavolo su cui qualcuno ha scritto o scriverà. O non farà nulla. Stenderà le braccia ad angolo acuto, e vi appoggerà il capo, come in certi disegni di Kafka. L’idea che vuol dare è nessuna idea. Niente. Un tavolo è un tavolo. Il piano di un tavolo fotografato dall’alto è un piano. Un rettangolo. Di legno. Un po’ usurato, ma lustro, ben tenuto. Un piano vuoto è un piano mai usato, o liberato apposta di ogni cosa. La sua dimensione è il ricordo, ciò che è stato senza quasi lasciare traccia, e l’attesa. Un’attesa senza determinazione. Assoluta. Che si può benissimo confondere col suo semplice essere. Con il puro stare.
La sedia che vi fuoriesce è meno spartana. Il suo schienale è imbottito, a suggerire che è di qualcuno che vi accomoda spesso. Che vi lavora, probabilmente, piegato in avanti, e per questo ogni tanto ha bisogno di appoggiarsi all’indietro, o di stirarsi, e per questo è opportuno che l’appoggio sia morbido. Non troppo: solo un po’. Il colore è rosa carico, o rosso. Non come il sangue. Un po’ meno. E’ un rosso a cui è stato sottratto ogni simbolismo. Esso pure denudato.
Pur essendo in una stanza di piccole dimensioni, quasi una cella monastica, tavolo e sedia non sono addossati, e neppure vicini, a una parete: stanno al centro del suo spazio. Lo occupano. Si stagliano davanti a una porta spalancata, da cui entra un fiotto di luce che invade tutto. Con un bagliore quasi di incendio. Sostano, come una sentinella, o un guardiano, davanti alla soglia. Quella, invisibile, oltre il margine alto dell’immagine, dove i battenti si uniscono agli stipiti. Quella che separa il dentro e il fuori. La fine e l’inizio, verrebbe da dire. Ma non è così. Perché è soprattutto il limite che si oltrepassa, o da cui si passa, verso un fuori che è sempre e comunque un dentro. Quello della casa.


 5 breve nota
la scrivo dopo. Intanto metto queste immagini dell'edizione Bacacay di La cipolla, 1994, fotocopie e cucitura a mano, con immagini originali di Antonio Mottolese, Manuela Sedmach, Marc Fourquet, Lino Gerosa e Luca Pancrazzi, tiratura 1oo copie, fuori commercio (prima che il libro fosse accettato da Bollati Boringhieri)



11/03/15

Thomas Bernhard, Perturbamento e L'italiano (1982)

Thomas Bernhard è un austriaco cinquantenne, autore negli ultimi vent’anni di altrettanti e più libri, tra romanzi, racconti e scritti teatrali e autobiografici, che ne hanno già fatto un classico della letteratura di lingua tedesca del dopoguerra.
Ben noto in tutta Europa, sta per essere tradotto su larga scala anche da noi, si adattano suoi lavori teatrali e si moltiplicano interventi e dibattiti sul suo lavoro. Alcuni dei suoi testi migliori sono comunque già in libreria da qualche mese, e vale davvero la pena di leggerli con la necessaria calma e riflessione. Mi riferisco ai tre notevoli racconti Kulterer, Al limite boschivo e L’italiano, editi da Guanda con il titolo di quest’ultimo, e al più noto dei suoi romanzi, Perturbamento, ottimamente tradotto e presentato presso Adelphi da E. Bernardi.
Sono testi nei quali una trama essenziale, tanto da indurre erroneamente a passarla in sottordine o considerarla pretestuosa (in Perturbamento la lunga giornata di visite di un medico accompagnato dal figlio), fa da campitura al netto stagliarsi di personaggi chiusi in un privato delirio che accumula in maniera apparentemente caotica le recenti rovine di un paesaggio, fisico intellettuale e morale, sconvolto da catastrofi che perennemente si rinnovano.
Altro che Austria Felix: un susseguirsi di miserie, violenze, alienazioni e deformità in un ambiente che ne è il perfetto corrispettivo naturale ed anzi ne costituisce una determinante causale. Paesaggio atroce e sinistro che ben poco rileva della dolcezza turistica di verdi vallate, ma “tollera soltanto un minimo vitale”, tanto che in e per esso niente risulta così naturale che “concepire e perpetrare i delitti più atroci” e un agghiacciante campionario di suicidi, quando poi non sprofondi in “una oscurità tanto grande da escludere addirittura il suicidio” stesso.
I suoi abitanti, e non solo perché il Virgilio del romanzo (dato che chi scrive riportando fedelmente ogni discorso è il figlio non è chiaro cfr manoscritto), sono in gran parte malati, pazzi, selvatici, tarati fisici e mentali, che ci vengono presentati o sull’orlo di una tragedia che sta per esplodere, sovente immotivata, o che perpetra indefinitamente i suoi effetti se già esplosa, in uno spazio dominato da cieche coazioni e impulsi incontrollabili (come denuncia la frequenza di espressioni come: non posso fare a meno di, mi sento obbligato a, non riesco a evitare di... ecc.), nel quale “tutto succede nella morte” anche se, o proprio perché, niente riesce a morire definitivamente.
Come Kulterer, il protagonista dell’omonimo racconto, molti di essi scrivono, suonano o disegnano; quasi in ogni casa ci sono libri, spartiti o quadri (come quello “assolutamente brutto e nello stesso tempo assolutamente bello – “è bello perché è vero” – che si trova nell’allucinante mulino situato nel punto più oscuro della valle, dove ogni rumore è coperto dai gridi ossessionanti di un nugolo di uccelli esotici che i figli del padrone stanno sistematicamente strangolando); ma anche ogni tipo di cultura o di attività artistica non è che la forma che prendono, o l’esito verso cui conducono, il solipsimo e la malattia.
Vivono tutti in famiglie amputate o in connivenze abnormi (l’incesto, che costituisce anche il motore profondo di Al limite boschivo), ovvero in una vedovanza che solo impolvera il ricordo di qualche velatura positiva, sebbene non tanto a causa di un amore o di una felicità effettivamente consumata, quanto piuttosto perché “un essere umano può sentirsi unito a un altro che ama soltanto quando quest’altro è morto, e davvero è entrato a far parte di lui”. Ma più frequente è il caso in cui la consanguineità rivela solo il perpetuarsi dell’orrore o il progredire della degenerazione e aumenta il senso di separazione e la consapevolezza del fallimento, che si esprime al meglio nelle parole del principe in Perturbamento: i membri della mia famiglia “li vedo tutti insieme come se li vedessi attraverso di me, e all’improvviso mi viene in mente una mostruosa costellazione, qualcosa di tremendo, forse la cosa più tremenda che esista: io sono il padre!”.
Del resto è proprio nelle parole del principe, il cui lunghissimo monologo occupa tutta la seconda parte del romanzo e dà luogo ad alcune delle pagine più cupamente folgoranti degli ultimi decenni, che trovano spesso la loro sistemazione e il momento di massimo dispiegamento razionale, ma anche di massima Follia, tutti i discorsi dei personaggi incontrati da padre e figlio lungo la loro catabasi.
Questo non comporta tuttavia l’assunzione del principe a portavoce di un ipotetico messaggio dell’autore: nonostante sia possibile infatti, e forse anche legittimo, estrarre dagli scritti di Bernhard una o più tesi ascrivibili con buona probabilità alle sue idee o opinioni, la sua caratteristica fondamentale è piuttosto la sistematica recensione, ossessiva e lucida, lucida ma ossessiva, di ogni possibile discorso, un accanimento incrollabile a evidenziare le complementari assurdità di chi vuole costruire un edificio accatastando macerie riconosciute nella loro inservibile negatività e di chi prospetta discorsi alternativi aggirando queste macerie, come se fosse possibile biodegradarle o come se ci fossero altri materiali disponibili.
Bernhard muove forse dal rifiuto di ogni dimostrazione e pensa davvero che “l’unico fine didattico raggiungibile è la morte”, ma è comunque evidente che da una prospettiva del genere risulta una visione del futuro come azzeramento e del passato, proprio in quanto passato, come male minore, quasi da rimpiangere, anche se in esso era già attivo qualcosa di più dei semplici germi del luttuoso presente.
Ciò non toglie però che la forza dello scrittore austriaco risieda nella negazione di ogni palliativo o investimento sentimentale: egli si pone di fronte alle cose narrate in un atteggiamento freddo e come scientifico, e il suo stile è sì violento, perché da esse promana violenza, ma privo sia di compiacimento che di rabbia. Ma la passione sottratta all’oggetto e allo sguardo si è riversata tutta nella scrittura, che al pari del principe gela “dall’interno verso l’esterno” rivoltando ogni lato della realtà e dei concetti e presentando così qualcosa di nuovo che non sia automaticamente negativo.
Non si devono dimenticare le valenze positive che appunto la lucida sistematicità recensiva può comportare: come nota giustamente E. Bernardi, è forse infatti il viaggio stesso la risposta implicita alla lettera, contenente “una prima, sia pure prudentissima protesta di un ragazzo contro la brutalità della vita”, che il figlio aveva inviato al dottore sperando invano dirette parole consolatrici o illuminanti.
 19-12-1982



Thomas Bernhard, Perturbamento, Adelphi, Milano, p. 239, £ 10.000
                   L’italiano, Guanda, Milano, p. 55, £ 6.000 



08/03/15

Marco Codebò - Luigi Grazioli, Figura di schiena (ebook, doppiozero, 2014)


 

Già autore di romanzi insidiosi (Lampi orizzontali, Tempesta), in Figura di schiena Luigi Grazioli trasporta la sua scrittura nella saggistica. Figura di schiena è una meditazione sulla presenza di personaggi raffigurati di spalle nella pittura fra il tardo Medio Evo e la prima Età Moderna, con particolare interesse al periodo compreso fra il Quattrocento ed il Seicento nelle aree fiamminga e olandese. Carattere essenziale delle figure analizzate da Grazioli è che nascondano i tratti del volto, in una parola la loro indecifrabilità. La presenza di tale tratto è la ragione per cui la discussione si ferma sulle soglie del Romanticismo escludendo, ad esempio, Friedrich: qui i personaggi, anche se di schiena, vengono però decifrati dal paesaggio che è oggetto della loro contemplazione.
Dal punto di vista della storia del pensiero estetico, la presenza di figure di schiena durante il Rinascimento inserisce una visibile contraddizione nell’allora prevalente teoria albertiana della pittura, che in nome di un approccio scenico allo spazio prescriveva la visibilità di tutti gli oggetti della rappresentazione. Si spiega così la maggior diffusione di figure di schiena nelle opere realizzate da pittori dell’Europa settentrionale, dove il pensiero di Leon Battista Alberti esercitava un influsso minore che nell’area latina.
Grazioli fonda il suo saggio su una notevole erudizione: lo studio prende in esame una vasta gamma di fonti secondarie, fra le quali spiccano per importanza Agamben, Arasse, Stoichita e Todorov, e si sofferma su 92 opere pittoriche, dal Compianto sul Cristo morto di Giotto (1304-06)  a L’enseigne de Gersaint (1720) di Watteau; punti forti della riflessione sono l’analisi della Madonna del cancelliere Rolin (1435) di Van Eyck e soprattutto dell’Atelier (1666 circa) di Vermeer, quadro verso cui confluiscono tutti i fili del discorso di Grazioli.
imageIn estrema sintesi, ciò che attira Grazioli nella figura di schiena e che la rende meritevole di analisi è la sua capacità di perturbare, scombinare, manomettere. Il problema della figura di schiena è che non ti lascia vedere quello che lei guarda. Nel momento in cui ti segnala qualcosa, (ciò che lei sta probabilmente osservando) che potrebbe diventare oggetto del tuo sguardo, gli fa anche da schermo, così da mettere in moto un’esperienza alla Tantalo, con tu spettatore attanagliato da una fame di vedere inestinguibile per definizione. Non contenta, la figura di schiena è anche portatrice di cattivo esempio, in quanto simbolo di ciò che non si deve fare, del comportamento asociale. A lei non importa nulla degli altri: mentre gli sguardi di tutti confluiscono sulla scena comune, la figura di schiena se ne disinteressa completamente e gira le spalle per farsi gli affari propri. In più, sfugge alle categorie con cui tutti classifichiamo e apprendiamo il mondo: non mostra i tratti del volto e così facendo non permette la propria identificazione come individuo. Ma proprio perché è un non-individuo, paradossalmente, finisce per essere più unica di qualsiasi individuo, visto che è la sola a non possedere il tratto comune dell’individualità. In coerenza con tale singolarità, la figura di schiena diventa l’elemento anarchico del dipinto: inserita nell’ordine armonioso della rappresentazione, lo rifiuta e se ne va, con un gesto secessionista che non prevede future riconciliazioni.
I tratti appena delineati fanno sì che la figura di schiena si configuri come promessa di apertura. Irrealizzabile promessa, è chiaro, perché nella sua sfuggevolezza la figura di schiena non ci consentirà mai di raggiungerla e di verificare il passaggio dal promettere al realizzare. L’apertura, insomma, dà inizio a un gioco di rinvii illimitati in cui lo spazio di discorso che si intravvede al di là della schiena si slarga all’infinito senza possibilità di chiusura.  Ma se le cose stanno così, allora, come si fa a parlarne della figura di schiena? Qualsiasi analisi se ne faccia si finirà sempre per intoppare davanti ad un margine oscuro, su cui si potrà tornare quanto si vuole senza mai però venirne a capo. Il che appare perfettamente logico, perché se della figura di schiena si potesse dire tutto, allora sarebbe una figura di fronte.
Da un simile giro vizioso non si può uscire. Ci si può però entrare dentro e sperare di cavarsela se si adotta una scrittura come quella di Grazioli: mobile, sdrucciolevole, avvinghiante. Figura di schiena procede attraverso una serie di spirali discorsive comunicanti che rilanciano la speculazione senza mai arrestarla in un punto. Si tratta, appunto, di una scrittura di schiena, nel senso che a leggerla uno le corre dietro a perdifiato, ma lei gli sta sempre davanti ironica e irraggiungibile.
Non è una presa in giro però. Alcuni punti solidi alla fine emergono. La gigantesca figura di Vermeer, per cominciare: Grazioli lo colloca alla fine di un intero ciclo dell’evoluzione della pittura come attività sociale (da prestazione subordinata di mano d’opera ad arte che innalza i suoi adepti, Rubens, Van Dick, Velázquez, all’altezza dei potenti della terra). Nel contesto della sua epoca Vermeer è l’artista che fa secessione, passa la vita in un angolo della provincia olandese e quando decide di mostrarsi lo fa dando la schiena al mondo. Il doppio ruolo, poi, che la figura di schiena gioca nei confronti della visione dello spettatore e di quella del pittore. Per il primo la figura di schiena rappresenta l’inciampo che segnala il limite dell’interpretazione e gli suggerisce di abbandonarsi all’avventura della speculazione. Per il pittore, infine, la figura di schiena è un antidoto all’orgoglio. È l’indizio di cecità che ogni visione, anche la più acuta e profonda, di necessità contiene: insegnamento che vale anche per l’autore di Figura di schiena nonché, ancor di più, per il suo recensore.

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