28/02/16

Peter Handke, Il peso del mondo & L'ora del vero sentire (1981)



Cosa resta a un artista quando rifiuta una storia e la vede solo come un “asilo per le nullità”, la giustificazione per ogni porcheria, il serbatoio di miti perlopiù decorativi e ormai inutili, nonché il supporto del culto borghese della memoria? Gli resta la propria persona, con la quale non riesce però a convivere e a identificarsi, un passato da respingere esercitando la perdita attiva della memoria, un presente banalizzato e inabitabile, e in definitiva il puro e semplice “peso del mondo”; cioè, forse, un’altra storia che, “attraverso i secoli, seminascosta da quella ufficiale e minacciosa, si è svolta come storia delle passioni (della) gente, nella morte, nell’immeschinimento, la vera storia”, che diventa allora la sua, il suo lavoro, che si tratta dunque di perseguire. Ma non è così semplice quando le parole, il solo luogo per uno scrittore dove cogliere quest’altra storia, anziché facilitarlo diventano la prima difficoltà, in quanto si frappongono tra l’individuo e la realtà offuscandola e falsificandola in ogni direzione, da quella letteraria che ha saturato il mondo con un senso tutto fagocitato dalla storia rifiutata, a quella quotidiana fatta soprattutto di formule e standard che predeterminano anche la più piccola esperienza personale incanalandola verso generalizzazioni anonime e riciclate su modelli passati, quasi ostruendo ogni possibilità di vita.
Certo, si può vivere di questa impossibilità e costruire tutta un’opera sull’assoluta negazione, e non è mancato chi lo ha tentato, salvo spesso finire nella ripetizione o, più coerentemente, nel silenzio; si può fare un’arte di puro gioco o basata su un linguaggio totalmente autocostruito, nel quale però “il contenuto viene consumato, piuttosto che messo in evidenza”; si può fondare il proprio lavoro sulla provocazione, sul sarcasmo e la dissacrazione; oppure infine si può cercare di scoprire, ammesso che ce ne siano, “i luoghi non ancora occupati dal senso”.
Peter Handke ha percorso la terza strada nei suoi primi lavori, specie teatrali, che lo hanno portato, oltre che alla collaborazione tuttora perdurante con alcuni dei più importanti registi del nuovo cinema tedesco (Wenders e Herzog per esempio), alla notorietà ancora giovanissimo in Austria, dove è nato nel 1942, e in Germania poi, e in molti altri paesi, l’Italia tra i primi, dove è stato subito tradotto; e prosegue nella quarta (conseguentemente, se non voleva ricadere nelle prime due) nella fase più recente del suo lavoro, della quale sono già noti anche al nostro pubblico gli ottimi risultati di Infelicità senza desideri e di La donna mancina, cui si aggiungono ora il diario Il peso del mondo, scritto tra il 1975 e il 1977, che ha offerto lo spunto per la considerazioni iniziali, e il romanzo L’ora del vero sentire, immediatamente precedente come data di pubblicazione ma perfettamente sintonico nel discorso.
Gregor Keuschnig, il protagonista di quest’ultimo, è un nipote eterodosso di Kafka, come si deduce tanto dal nome e dall’iniziale del cognome, quanto dal fatto che esca trasformato da un sogno nel quale si scopre omicida a sfondo sessuale. Solo che qui la trasformazione, a differenza di La metamorfosi, non riguarda il suo corpo, bensì il suo rapporto con la realtà esterna. Dopo quel sogno, che Keuschnig esperisce come qualcosa di vitale, vero e reale, ogni sicurezza nella concretezza quotidiana va perduta, ed egli “non si sente più a posto, ma non riesce a immaginare un altro posto dove potrebbe sentirsi a suo agio; non può immaginare di continuare a vivere come ha fatto finora, ma neanche di vivere come vive o ha vissuto chiunque altro”. E tuttavia, mentre gli appaiono estranei e insignificanti il suo lavoro di addetto stampa all’ambasciata austriaca di Parigi, la moglie e la figlioletta e persino l’amante, e giunge a rifiutare ciò stesso che pensa e sente nel suo legame con la memoria e il passato, contemporaneamente comincia ad aprirglisi, violento, doloroso e sconcertante, come l’eventualità di uno spiraglio rivelatore al quale però non sa come accostarsi, lo spazio della quotidianità. Dal momento che ogni cosa, divenuta assurda, ha ormai perso il “suo” significato, quello determinato dal normale sistema di valori e relazioni, , essa appare “strana”, disponibile per un senso diverso che risiede soltanto nella sua intimità specifica. Ma Keuschnig questo ancora non lo sa: in preda a una tensione totale e allucinata dei sensi, non fa che osservare anche il minimo evento nel desiderio di cogliere l’assoluto nel momento stesso in cui lo vive e nella singolarità di ciò che sta vivendo.
E finalmente ha l’esperienza che cercava: tre semplici oggetti che scopre ai suoi piedi nella sabbia, una foglia di ippocastano, il frammento di uno specchietto e un fermaglio da capelli, gli rivelano che non c’è alcun “mistero dell’Universo” da scoprire e di cui avere paura. Scopre che non c’è “alcun mistero personale” per lui, “bensì l’IDEA di un mistero che esiste per tutti!”. L’angoscia non scompare subito per sempre, naturale: deve prima allontanarsi da tutto il precedente sistema di relazioni e affetti, non senza contraddizioni e dolore; deve letteralmente spogliarsi dei vecchi abiti, ma ora, nel distacco, le cose gli vengono generosamente in aiuto e può finalmente “inventarsi una nuova personalità”. Comincia quindi a “osservare pazientemente gli altri”, perché, se “con riluttanza aveva cominciato a percepire”, ora sono “tante le storie che premono su di lui”. “Sto cambiando, in questo momento!”. si accorge, giacché ora, anche se vede “le stesse cose di prima, dallo stesso angolo di visuale, tuttavia sono diventate strane, e quindi esperibili”.
E’ evidente però che, se questa rivelazione nel romanzo resta limitata al solo protagonista come un fatto personale e forse non comunicabile, la possibilità della sua comunicazione si trasferisce nella scrittura del romanzo, nell’estrema tensione, corrispettiva di quella percettiva di Keuschnig, del suo linguaggio che è desunto sì da quello di ogni giorno, ma viene come salvato dalla sua banalità mediante un’assoluta laconicità e concretezza. In Il peso del mondo Handke dice: “il linguaggio d’ogni giorno, ch’è stato finora il mio materiale di lavoro, mi appare nel frattempo così esattamente vero da rendere impossibile ogni metamorfosi delle persone che esso sorprende”, e auspica, pur prospettandosene tutte le difficoltà, “un altro linguaggio di tutti i giorni, che si modifichi al posto di questo linguaggio unico, vero” e sia “sempre nuovo”. Anche a benefico contraltare della riluttanza cronica della nostra letteratura verso il linguaggio quotidiano, possiamo leggere i romanzi di Handke come un tentativo di risposta a questa sfida.
 


11-7-1981

26/02/16

Un San Lorenzo di Jacopo del Sellaio



e c’era, in questa chiesa così insignificante (da quelle parti... perché dalle mie sarebbe un’attrazione turistica) che si poteva entrare gratis, in primo piano in una grande pala di Jacopo del Sellaio, ai piedi di una Crocefissione affollata dai soliti famigliari e da altri santi suoi colleghi, questo San Lorenzo dal bel corpo atletico, perfetto, attraente, mollemente adagiato sulla graticola, di fianco, che si sostiene su un gomito, come un drudo in attesa dell’amante su un letto, o in mostra per qualche estimatore o cliente sul bordo di una piscina, che tiene nella destra la palma come se fosse una penna che sta per intingere nel fuoco sottostante per scrivere una bella storia, forse proprio la sua, mentre con la sinistra indica il vero martirio, quello soprastante, che dà senso anche al suo, del quale, a giudicare dall’espressione del suo volto, poco gli cale, con quel suo sguardo che in un primo tempo mi era sembrato un po’ superficiale, vanesio, forse per influenza della postura,  e a ben vedere è pensoso ma sereno, già proiettato verso un altrove che tutti conoscono e al quale invece lui è vicinissimo, sta quasi per raggiungerlo, se mai c'e.


23/02/16

Silenziare





Silenziare non è chiedere silenzio, o indurvi qualcuno perché posto di fronte a una verità condivisa; no, è il gesto di imporre il silenzio: dove accanto e forse più dell’oggetto dell’imposizione o delle circostanze che la renderebbero necessaria (a teatro, in un’aula…), a importare è il gesto stesso. Perché tutto sta lì: ancora prima dei suoi effetti, tutto sta già nel potere di pensare il gesto, di pensarlo legittimo e doveroso, e poi di effettuarlo. L’uso del verbo mette l’accento sull’azione. Sulla sopraffazione.
Non so se chi adotta il termina silenziare ci pensa (magari è una persona ragionevole, aperta), però io ho come idea che chi lo usa è qualcuno che a fare silenzio invece non è disposto, che il silenzio nemmeno sa cos’è, e che anzi del silenzio ha paura.
Silenziare vorrebbe dire, per costui, ridurre al silenzio chi parla o può parlare al posto suo: non chi parla contro di lui, ma chi con il suo solo aprir bocca sottrae spazio alla sua parola; chi, parlando, chiede ascolto e, così facendo, distrae dall’ascolto del suo discorso, lo interrompe o offusca, se addirittura non lo cancella. Lui invece vuol parlare sempre, non vuole che il silenzio si insinui nelle sue parole e, insieme, insinui il sospetto che il troppo pieno della sua voce galleggi su un vuoto di senso sempre incombente: che il senso delle sue parole non sia quello di ciascuna di esse e del loro insieme, ma quello del puro dire, l’urgenza fàtica di tenere la linea, di tenerla sempre occupata: di accaparrarsene la proprietà. La proprietà esclusiva.
Vuole silenziare, chi è uso ad alzare la voce. Chi grida e non sente ragioni. Chi grida perché ragioni non vuole sentirne. Chi ha la forza dei polmoni (dei microfoni, delle frequenze, del patrimonio, della gerarchia) e non tollera che un inferiore, uno zero, un altro, alzi la mano, chieda: posso?, e apra, con la sua prima, semplice parola, un altro mondo.


Pomarancio,  Basilica di Santo Stefano Rotondo al Celio
Sopra, foto mia non ricordo dove (Parma? Padova?)

22/02/16

Uccello librato in aria





C’era questo uccello sospeso a una quindicina di metri sopra un prato. Sbatteva le ali fermo a mezz’aria, con le remiganti che vibravano velocissime, senza riuscire a spostarsi di un centimetro. Per un attimo ho pensato che fosse un tipo particolare di aquilone, o un falchetto o altro piccolo rapace che veniva addestrato, tanto più che, in fondo alla stradina sterrata, c’erano due figurine che guardavano in quella direzione e si agitavano senza spostarsi loro pure: una che accostava all’occhio una macchina fotografica con un grosso teleobiettivo; l’altra che impugnava qualcosa che poteva anche essere il rocchetto di un filo o un guanto o un cappuccio di pelle, e faceva una specie di balletto intorno alla prima, piegandosi sulle ginocchia con lo sguardo di sott’in su e poi rialzandosi con un braccio teso e la testa rivolta verso il cielo sopra il prato. Intanto l’uccello continuava a aprire e chiudere le ali accelerando sempre più, e sempre inutilmente, con le penne caudali aperte a triangolo, così tese che la luce passava tra l’una e l’altra come se fosse un ventaglio ricamato a maglie larghe o con le asticelle unite da una garza trasparente sottilissima.
Sembrava inchiodato contro il cielo, con le sole ali che potevano ancora muoversi, dispiegate come la colomba dello spirito santo in certe annunciazioni o pentecoste, ma uno spirito santo crocifisso. Non riuscivo a distogliere lo sguardo, se non per sbirciare velocemente, con la coda dell’occhio, la pantomima delle due donne che ora si fotografavano a vicenda disinteressandosi di ogni altra cosa, estasiate dalla reciproca contemplazione.
Dopo non meno di una ventina di secondi, un tempo che mi è parso interminabile, l’uccello ha smesso di librarsi nell’aria e, piegando appena le ali, ha disegnato una piccola curva in discesa. Forse il suo, di balletto, non aveva avuto esito; forse aveva sentito un richiamo che a me era sfuggito; o forse era solo stremato. È sceso per cinque metri e ho pensato che avesse trovato la corrente giusta e la stesse imboccando per ripartire; invece, dopo aver percorso un breve tratto in orizzontale, ha smesso del tutto di sbattere le ali e, senza nemmeno raccoglierle a sé, è caduto a perpendicolo verso il prato. È ferito!, mi sono detto. Ora si sfracella… Ma con mia grande sorpresa, e piccolo sollievo, appena urtato violentemente il suolo erboso con un tonfo che ho avvertito chiaramente, l’uccello, quasi di rimbalzo, come Caco al contatto con la terra madre, è risorto ed è volato via, verso un filare di robinie sul margine di un fosso, dove si è installato sul ramo più alto e sottile di una che sporgeva verso il prato, fissando, di nuovo immobile, ma saldo ora, un punto lontano. Forse niente, ma laggiù, verso l’orizzonte dietro le rare case. Un po’ d’ansia per la sua sorte mi era rimasta, però; mitigata dalle evoluzioni delle danzatrici a cui mi stavo avvicinando. Mentre mi incamminavo verso la macchina, mi sono voltato a guardare, ma l’uccello era sparito. Volato via, passato su un altro ramo, caduto di nuovo, non so. Quando sono arrivato nei pressi delle due donne, hanno recuperato entrambe la postura eretta e si sono date un contegno. Il corteggiamento, se tale era, poteva sopravvivere a una pausa. Ho chiesto se anche loro avevano visto. Sì, ma solo quell’inconsueto dibattersi a mezz’aria. Avete capito che uccello era?, ho chiesto. No, nonostante quel grosso obiettivo non erano riuscite a riconoscerlo. Poi si sono distratte, cioè sono passate a una diversa attenzione, e non hanno seguito più niente. Forse era una ghiandaia, ho detto io vedendone una posarsi sul ciglio della strada a pochi metri da noi. Forse, hanno detto loro. E ci siamo salutati .
No, non credo che fosse una ghiandaia, ho poi commentato tra me e me. La coda non era così lunga. I colori erano diversi. Non era neanche uno dei tanti corvi o colombi di questa zona…
Forse non era niente. Forse niente è successo. E nemmeno quelle donne erano reali.
Forse non ho visto davvero ciò che ho raccontato e me l’ha inscenato solo la mia angoscia, la deriva immaginaria con cui quell’infame crede di rendere più accettabile la sua compagnia. Ma no! Ho visto. Magari ho frainteso cosa avevo visto, ma di aver visto sono certo. Di non avere sognato né inventato.
Lo so. Ma preferirei pensarlo se anche così non fosse.
(Più ancora, però, preferirei il corteggiamento. La danza.)


19/02/16

Politica palmata. 1



1

C’era questo assembramento di anatre vicino alla sponda milanese che si è formato in meno di due minuti, il tempo che mi ci vuole per percorrere il ponte. Un’anatra araldo si era messa a starnazzare a tutto gargarozzo e le altre sono accorse da ogni parte del fiume e canali collegati. Un’assemblea generale! Arrivavano spedite, in silenzio. Qualcuna bisbigliando con la vicina in modo piuttosto insolito. Non è gente che brilla per riservatezza.
Appena si sono trovate tutte assieme, l’usciere o cerimoniere che dir si voglia, ha emesso un richiamo secco e acutissimo, l’equivalente palmato di una scampanellata, e la riunione si è ufficialmente aperta. Vale a dire che si sono messe a discutere animatamente all’unisono tutte insieme, nessuna esclusa. Il capo, o facentefunzione, che nel frattempo si era issato su un ramo sporgente dall’acqua, le ha richiamate all’ordine, ma senza risultati apprezzabili. Hanno alzato la voce per farsi sentire meglio, anzi. Avevano gli animi infiammati ormai, lo starnazzo bellicoso. Qualcosa bolle in pentola… Qualcosa di grosso, mi sa!
A turno alcune hanno preso a guardare verso di me che mi ero chinato oltre la ringhiera a vedere cosa diavolo stavano combinando le mie amate. Loro invece mi guardavano con sospetto, scrutando ogni mia mossa come per controllarmi, pronte a chiamare a raccolta le  guardie reali (sono quasi tutte germani), a difesa o, addirittura, per aggredire. Aggredire me! Come se covassero qualche gesto clamoroso. Una qualche dichiarazione di guerra. Un ultimatum.
Tirava un’aria pesante. Più a monte, uno svasso isolato si stava contorcendo con movenze convulse. Si immergeva sott’acqua e poi usciva scuotendo il lungo collo e il becco che stringeva qualcosa che si dibatteva furiosamente per divincolarsi, lungo e sottile, forse una piccola biscia d’acqua o un’anguillina. Lo svasso però non demordeva, agitava il collo da sinistra a destra con scatti violenti, e poi alzava il becco e allentava la presa quel poco che sperava fosse sufficiente a ingoiare la preda, ma non abbastanza perché questa gli sfuggisse.
Ho fissato lo sguardo nella sua direzione, un po’ perché quella lotta disgustosa aveva attratto la mia discutibile empatia e un po’ per segnalare alle anatre che non ce l’avevo con loro. Quelle tuttavia non avevano smesso un istante di misurare ogni mia mossa e avevano caricato ancora di più la molla della loro aggressività.
Allora, per evitare conseguenze spiacevoli, mi sono tirato su e me ne sono andato con passo circospetto, trattenendo l’impulso a fuggire a gambe levate. Appena uscito dal tornello alla fine del ponte però, invece di proseguire sulla solita stradina sterrata verso il ponte del canale, ho piegato a destra, verso il bosco, e non appena ho raggiunto il folto della vegetazione mi sono messo a correre.
Se proprio vogliono distruggere il mondo, che non comincino da me! Almeno un po’ di spettacolo me lo voglio godere.