26/08/16

Chiamate


Foto di Marcello Buffa con F. Lauretta e F. De Grandi (dett)


Scende i tre gradini davanti alla casa come se sbarcasse da un elicottero, in fretta, con la mano sul cappello perché non voli via e le braccia che trattengono l’impermeabile già chiuso, la testa china meno a ripararsi dall’aria mossa dalle pale che per la paura che, nonostante siano alte e ben fisse, possano mozzargliela via di netto. Per strada la gente è esattamente quella che deve esserci, né più né meno, e fa esattamente ciò che deve fare nel modo in cui deve essere fatto: con naturalezza. Né si stupisce che per molte ore nella camera non sia penetrato il benché minimo rumore, come di non aver incontrato nessuno, per i corridoi e sulle scale, sia al suo arrivo che poco fa, uscendo. Uscendo dalla camera non si chiedeva più niente, fossero solo domande sul passato o previsioni sul futuro: esattamente il contrario di ieri notte al telefono e lungo tutto il tragitto in macchina. Esattamente la stessa cosa cioè. La macchina è ancora là, sull’altro lato della carreggiata, cento metri più indietro, senza multe, intatta.
Non si rimprovera più di aver aderito senza esitazioni, sorpreso di se stesso, a tutte le richieste di quello sconosciuto che per caso aveva fatto il suo numero nel cuore della notte; neppure se ne compiace, se è per questo: non avrebbe potuto fare altro. Che sia veramente morto non cambia niente: è morto, ed è come se non lo fosse. Morto per niente e per nessuno, nemmeno per lui che ad assistere alla sua morte era stato espressamente chiamato. Non poteva rimproverarsi di non aver chiesto aiuto prima né avvisato nessuno poi: era stata una delle condizioni poste dallo sconosciuto, altrimenti non gli avrebbe dato l’indirizzo. Chissà se l’aveva già rifiutato a qualcuno, o se proprio il suo numero era stato il primo ad uscire dalla pressione casuale delle dita sui tasti del telefono; chissà se qualcuno, chiamato prima di lui, non aveva riposto la cornetta immediatamente, seccato, o subito dopo, spaventato. Lui aveva risposto subito, di corsa come sempre non appena il telefono inizia a squillare; era stato a sentire, aveva abbozzato qualche obiezione ma infine aveva dovuto giurare, e aveva dovuto ripetere il giuramento ogni volta, ad ogni nuova condizione. (“Lo giuri!” “Come può essere certo che manterrò il mio giuramento?” “Lo giuri su ciò che ha di più caro.” “...” “Lo giuri! Lo giuri e basta.” “Sì, lo giuro.”) Aveva giurato come avrebbe fatto chiunque, e lo aveva fatto per primo semplicemente perché, adesso ne era certo, era capitato a lui di essere chiamato per primo: come avrebbe potuto rifiutarsi, qualsiasi uomo, ad una richiesta come quella? “Sto morendo, non c’è più niente da fare... Venga da me, non deve fare niente, non la infastidirò con lamenti, non le chiederò nemmeno un bicchiere d’acqua... Non dovrà consolarmi... nessuna parola. Ho solo bisogno che qualcuno mi veda morire.” Ho bisogno!
“Va bene, mi dia l’indirizzo, farò ciò che vorrà senza discutere, starò seduto sulla sedia e la guarderò senza chiedere niente... L’indirizzo! Vengo subito, ma la prego, non faccia sciocchezze. Mi aspetti, ci vorrà almeno mezz’ora, abito in periferia.” “Che sciocchezze vuole che faccia? Non ho deciso io di morire. Sto morendo e basta. Non mi faccia parlare oltre, per favore, non ce la faccio più... Ma venga, si sbrighi”, e aveva riposto la cornetta. Le ultime parole un comando, più che una preghiera, e l’ultimo gesto, quello che forse sarebbe stato l’ultimo gesto volontario, un gesto minimo, dispendioso quanto inutile in un certo senso, ma glorioso, anche per questo: di tutti gli interrogativi che aveva suscitato la telefonata, e che di nuovo lo avrebbero afflitto nel traffico intenso anche di notte in città, non era rimasta, mentre prima di uscire si recava in bagno e quindi si lavava e asciugava con cura, come a calmarsi, le mani, che quella duplice evidenza. “Ordine!”: solo questo riusciva a pensare, sorridendo spaventato.
Sebbene non fosse pratico del quartiere, aveva trovato la via con imprevista facilità: un senso unico con poche vetture a cavallo del marciapiede sinistro, tra le quali aveva subito parcheggiato anche la sua. Il numero era uno dei tanti di un lungo caseggiato che occupava mezza via, intervallato ogni venti metri da tre gradini sormontati da porte identiche che davano in un piccolo atrio privo di portineria, dalla quale partivano scale che conducevano ai piccoli appartamenti dei primi piani o alle singole stanze divise da brevi corridoi degli ultimi, come quella che doveva cercare lui. Le indicazioni erano state chiare, per fortuna, perché altrimenti, non avendo incontrato anima viva per tutte e cinque le doppie rampe di scale, avrebbe dovuto bussare, necessità alla cui sola ipotesi si era sentito in forte imbarazzo, a qualcuna delle molte porte dalle quali filtravano quasi esclusivamente voci televisive, allegre in genere, sovreccitate.
La camera, come preannunciato, era aperta e la lampada sul comodino accesa. Lo sconosciuto, accuratamente quanto semplicemente vestito, eccetto le scarpe nere disposte sull’angolo destro dello scendiletto, era sdraiato sopra la trapunta nella posizione dei cadaveri già composti, la testa rivolta al soffitto, le braccia allineate lungo i fianchi e le gambe distese. Solo i piedi erano leggermente divaricati. Entrando, la prima impressione, colpevole, era stata di essere giunto troppo tardi; non solo, ma che qualcuno lo avesse preceduto, qualcuno che forse, aveva pensato con subitaneo rancore, era ancora nella stanza e stava osservando la sua sorpresa, a propria volta meravigliato del nuovo venuto. Non c’era nessuno, naturalmente: constatò, subito rivolgendo il rancore contro se stesso, vergognandosi. Aveva allora accennato ad accostarsi al letto, ma l’altro, aprendo gli occhi senza piegarsi a guardarlo, gli aveva ricordato i patti. “I patti!”, aveva pensato come ad annullarli, tra l’ira e la pietà, o l’angoscia; ma si era fermato.
L’uomo non era vecchio, quindici-vent’anni più di lui al massimo, e i suoi lineamenti, come il suo corpo, non presentavano i segni di nessuna visibile malattia: un volto liscio, sbarbato da poco, al massimo nel pomeriggio, le guance non smunte, le labbra non deformate da nessuna smorfia. La sua stessa immobilità, quieta e non rigida a ben vedere, sembrava quella di uno che stesse riposando in una posizione un po’ cerimoniosa, ma non scomoda. Il respiro era regolare, anche se lieve e come separato dai polmoni, senza ripercussioni sul torace. Gli occhi erano chiusi, e non sarebbero più stati riaperti, nemmeno per rincuorarlo o per controllare che fosse ancora lì e sveglio.
Lui si era quindi seduto sull’unica sedia della stanza, una sedia di metallo e fòrmica verde alquanto scomoda, collocata già rivolta verso il letto accanto ad uno scrittoio addossato alla parete di fondo, sul quale era poggiato un piccolo posacenere di plastica, vuoto e pulito. Esattamente di fronte alla porta che lui aveva subito chiuso a chiave, c’era una finestra sprovvista di tendine oltre i cui vetri, che dalla sua prospettiva del letto incorniciavano solo il capezzale con la testa come decollata dello sconosciuto, gli avvolgibili sembravano più sigillati che chiusi. Non osando fissare direttamente quel corpo refrattario fin nella sua stessa posizione, per un po’ ne aveva sbirciato soltanto il parziale riflesso nella finestra, la cui sfocata mediazione lo rassicurava. Poi i tratti di quel profilo, forse a causa del loro isolamento, si erano sempre più precisati acquisendo una nitidezza, e quasi una lucentezza, che avevano finito con l’aumentare la sua inquietudine, tanto da sentirsene perseguitato.
Si era perciò deciso ad affrontare quello che credeva il suo vero compito, ma per tutta la notte quell’assenza di sguardo stampata sul vetro aveva gravato su di lui, attraendolo con la forza della sua totale estraneità quanto più si sforzava di abolirla fissandone la fonte, che continuava a giacere impassibile sul letto; ma quando periodicamente, non riuscendo più a resistere a quella duplice esclusione, tornava a guardare verso la finestra, quei tentativi di instaurare con l’immagine il rapporto che il moribondo, con evidente paradosso, aveva già rifiutato a priori al telefono (“Non dica niente, non mi tocchi, non si avvicini nemmeno... Ciò che le chiedo è solo di essere presente, per il resto faccia ciò che le pare, purché non mi concerna...”), lo lasciavano ancor più frustrato, accrescendo in tal modo la sua inquietudine che, per essersene l’origine resa inaccessibile, si dilatava progressivamente a tutto ciò che i suoi sensi e il suo pensiero potevano raggiungere alla ricerca di un po’ di pace.
Dell’uomo sul letto cominciava allora a curarsi sempre meno; il disagio e la paura che all’inizio lo avevano spinto a cercare nella camera qualche indizio da cui dedurre notizie sulla sua persona, sulla verità della sua condizione e sulle motivazioni della sia richiesta (ma naturalmente non aveva trovato nulla: nessun foglio sul comodino, sul tavolo che lui continuava a chiamare scrittoio o nel portarifiuti; nessun oggetto sugli scaffali e sul ripiano del lavandino; un’anta dell’armadio era stata lasciata apposta socchiusa per segnalare che non c’erano valigie né indumenti, e certo neppure nelle tasche del vestito si sarebbe trovato qualcosa, men che meno documenti), si erano lentamente affievoliti, ma se non aveva più bisogno di rassicurarsi con quelle banali curiosità, non per questo si sentiva più capace di sostenere la situazione in modo appropriato con la dovuta continuità. Ma c’era un modo appropriato di sostenerla? Le istruzioni ricevute, anche se non le avrebbe mai violate, erano solo un insieme di divieti che delimitavano uno spazio vuoto, bordi che tuttavia, mentre gli fornivano un appiglio, qualora avesse insistito a farvi ricorso lo avrebbero trattenuto per sempre al di qua dell’esperienza che credeva gli fosse destinata. E invece la sua meta, se mai una ce n’era, non poteva che trovarsi in qualche punto di quello spazio non segnato da alcuna direzione ed ora anche privo di quello che supponeva il suo nucleo buio di gravità, il suolo contro il quale, quando avesse trovato il coraggio di lasciarsi cadere, avrebbe potuto infine posarsi, anche a costo di infrangersi, cioè la sua stessa convinzione di essere seduto di fronte ad un uomo che stava per morire, o meglio: che stava morendo.
Non che in esso ravvisasse un simulatore, come aveva per un attimo sospettato non appena, entrando, lo aveva visto sdraiato tutto ben composto sopra la trapunta, quasi che qualcuno avesse inscenato una truce pagliacciata al solo scopo di coprirlo, chissà perché proprio lui, di ridicolo: era la sua situazione ad apparirgli sempre meno tragica e ad assumere anzi un che di patetico. Era stato chiamato in questa camera, lui che per caso o per inconfessata volontà era sempre giunto tardi anche alla morte dei suoi cari, non per vedere una storia compiersi, la fine di qualcosa che aveva avuto un inizio o che fosse situabile in un contesto di qualsiasi genere, bensì semplicemente il morire di un uomo che per lui esisteva e sarebbe poi esistito solo per il morire al quale era stato chiamato ad assistere, il morire in sé, se qualcosa del genere è possibile, nella sua purezza riluttante ad ogni sentimento (“E soprattutto, le ripeto, non cerchi di aiutarmi o di consolarmi... Non mi compatisca, non cerchi di capire, non si identifichi... Guardi e basta.”), come un animale ne vede morire un altro di un’altra specie, ma con la consapevolezza dell’uomo, che si presume differente, e invece si ritrovava spettatore del povero tentativo di un povero essere che si sforzava di raggiungere qualcosa dalla quale sarebbe stato per sempre escluso, qualcosa che la sua stessa messinscena probabilmente gli avrebbe rivelato, se solo avesse potuto vedere il proprio profilo nel vetro senza distruggerlo nell’atto di guardare. Ciò che credeva di star per raggiungere morendo era già là, ed egli si stava solo dibattendo a cercare una soglia che era condannato a mancare per sempre per il semplice motivo che, anche ammesso che esistesse, una strada che potesse condurvi non c’era, o che comunque a lui, e forse a lui solo, era preclusa.
Ma forse era proprio a questa eventualità che aveva pensato telefonandogli: se quella strada non poteva percorrerla lui, non era escluso che fosse invece accessibile a qualcuno che, non avendo con lui rapporti che ne turbassero l’attenzione, del suo scacco fosse testimone. In questo caso l’appello non era stato una richiesta, il richiamo ad una responsabilità o in qualunque altro modo si volesse poi specificarla, , né l’ammissione di una mancanza, bensì l’effetto di una sovrabbondanza estorta al più essenziale venir meno, uno dono. Una vocazione.
Questo però gli viene in mente solo adesso, adesso che sta guardando compiaciuto all’imbottigliamento della corsia che porta in centro mentre lui scivola tranquillamente verso casa; si abbatte su di lui come una lama che gli toglie il respiro e quasi lo fa sbandare. Nella camera invece la percezione dell’inutilità di quel dibattersi gli aveva ridato l’abituale senso di sicurezza che già mentre rispondeva al telefono aveva perduto. Si era quindi finalmente rivolto allo sconosciuto col distacco che supponeva gli fosse stato richiesto e lo aveva visto, per la prima volta, libero dall’ansia e da qualsiasi pensiero, come quel sereno moribondo che era: un uomo che, semplicemente, trapassava. Tutti i sensi di quella che fino a quel momento aveva ritenuto, più che un eufemismo, un’ignobile menzogna, si erano allora materializzati davanti a lui ed egli aveva infine capito, con indicibile sollievo, che ciò a cui stava assistendo non era che la conferma della possibilità di quello che, ora lo sapeva, era sempre stato il suo sogno più grande, taciuto persino a se stesso; meglio ancora: che stava assistendo non ad una morte qualsiasi, e nemmeno ad una morte simile a quella che egli aveva sempre auspicato per sé, ma precisamente alla propria morte desiderata.
Mentre indugiava su questa rivelazione, con gesto automatico, si era tolto le sigarette di tasca e ne aveva accesa una, ma il piacere della prima boccata si era immediatamente convertito nella consapevolezza della propria irredimibile indegnità. Aveva spento in fretta la sigaretta e, biascicando una specie di preghiera di cui dopo si sarebbe sgradevolmente sorpreso, era tornato a guardare verso il letto, ma subito si era accorto che lo sconosciuto nel frattempo era morto. Era morto veramente, ed egli, proprio quando seguendo alla lettera le sue istruzioni si era convinto di aver conseguito la meta che gli era stata indicata, o quanto meno di essere giunto alla sua soglia, non aveva assolto invece quell’unico compito per il quale era stato chiamato. Vedendo non solo la propria morte, ma la possibilità di una morte ideale in quella dell’altro, l’aveva mancata, mancando contemporaneamente anche la propria, e di entrambe era rimasta la realtà di una totale, ingiustificabile desolazione.
Che fosse veramente morto, non aveva nemmeno avuto bisogno di verificarlo da vicino; gli era bastato scorgere la testa leggermente inclinata, la bocca socchiusa e gli occhi finalmente spalancati verso la propria immagine, in una duplice assenza di sguardo che il vetro restituiva solo all’estraneo che lo fissava attonito per evitare un’ultima volta l’ingombro del corpo: non lo avrebbe toccato, avrebbe lasciato tutto com’era al suo arrivo. Si era quindi vuotato il posacenere in un fazzoletto, lo aveva ripulito e se n’era andato.
Ora, mentre passa tra i primi campi della periferia, pensando a quella testa, la immagina rivolta verso Oriente, come secondo tradizione chi è pronto per l’ultima chiamata, ma di poco, come chi sa che non verrà, eppure le lascia uno spiraglio aperto. Scuote il capo, lo ruota sul collo indolenzito e guarda gli arbusti che costeggiano la strada. Sul bordo di un’ampia curva sopraelevata, e poi ancora per un centinaio di metri, colonne e colonne di moscerini, immobili e vibranti, scandiscono l’architettura invisibile dell’aria. A casa prepara un caffè; quindi va in camera, si sdraia sul letto e accende una sigaretta. Tra una fumata e l’altra, ogni tanto l'occhio scivola sulla propria testa ritagliata dal vetro della finestra.


19/08/16

Fara Gera d'Adda




Pur essendo di origine antica (longobarda per la precisione, come suggerisce il nome), fino a poco tempo fa Fara sembra avere vissuto fuori dalla storia. Ora ci è entrata, ma dalla porta sbagliata. In compenso ne sta di nuovo uscendo il fiume, grazie  all'intervento del Parco Adda Nord, che ne protegge le sponde e i suoi boschi restituiti allo stato selvaggio e agli animali.
È l'unica cosa bella che c'è, ma quella è bella davvero.
Per il resto del passato, a parte i resti dell'abside della basilica voluta da re Autari nel VI secolo, non è rimasto nulla. I signori che l'hanno dominata non hanno lasciato tracce, se non di sconcertante modestia. Il vecchio nucleo del paese, fatto di piccole cascine e di case a ringhiera dai cortili ampi e luminosi, è stato in buona parte sventrato negli anni '70-80 per far posto a palazzine squallide e cupe quanto pretenziose e a un paio di parcheggi. Le altre sono quasi tutte in abbandono o stipate degli abitanti più anziani e soprattutto dei nuovi faresi di provenienza extracomunitaria, che non possono permettersi i nuovi appartamenti, costruiti a ritmo forsennato anche ora che nessuno compra più. Infatti il numero di quelli rimasti vuoti è sorprendente. Però si continua a costruire. Per impiegare i capitali, dare lavoro, usare il credito, non stare con le mani in mano, nella speranza di rientrare. Di tempo ce n'è.
 La crescita del paese, che, dopo un secolo di stabilità sui 4000 abitanti, in poco tempo alla fine del secolo scorso li ha visti raddoppiare, è stata solo in cubatura. I servizi invece, già scarsi, sono diminuiti.
Nessuno degli abitanti recenti sente di appartenere al paese, che anzi spesso disprezza. Eppure molti, di provenienza dai paradisi dell'hinterland milanese, ci sono venuti per loro scelta. Ma in questo, anche se non lo sanno, non fanno che conformarsi ad esso.
La caratteristica fondamentale di Fara infatti, è, mi pare, la non appartenenza. Fa parte della bassa Bergamasca, ma i bergamaschi faticano a riconoscerla dei loro; dei milanesi, che stanno al di là del fiume, è lei a non voler sentir parlare. Il vescovo è quello di Milano, ma il rito è romano. Il dialetto è bergamasco ma senza le aspirate, e ha molti prestiti milanesi, ma senza le desinenze e la cadenza sbruffona. I faresi sono solo faresi. Alcuni faticano a essere pure questo. Il campanilismo è quasi assente. Stanno qui e tanti saluti. L'idea che siano gli altri a non volerli non li sfiora nemmeno. (Persino l'Adda sembra non appartenere in tutto e per tutto al genere dei fiumi: infatti il nome è femminile.)
Forse questo è dovuto anche al lungo isolamento, o a incontri e incroci solo tangenziali, mordi e fuggi. Lo stesso isolamento che l'ha tagliata fuori dalla storia. A parte l'onore di essere distrutta da Federico Barbarossa e in seguito da un altro paio di scalzacani, le cronache non riportano niente di significativo. I grandi macelli avvenivano ai suoi margini, gli eserciti e le ricchezze transitavano a pochi chilometri, attraverso i ponti dei paesi vicini, come oggi la ferrovia e le statali che uniscono Milano a Bergamo e Brescia. Di noi non importava niente a nessuno. Una bella fortuna.
L'unica traccia veramente significativa è la magnifica carcassa dello stabilimento che ha segnato la vita del paese per gran parte del secolo scorso, il Linificio e Canapificio Nazionale, che ha impiegato fino a 2000 operai e soprattutto operaie, spesso provenienti da fuori. Se si eccettua il fatto che ha tolto dai campi molte famiglie assicurando loro il minimo per la sopravvivenza anche nei tempi più neri, e una discreta attività a osterie e trattorie, la grande fabbrica non ha creato ricchezza. Le merci arrivavano e partivano trasformate senza fermarsi. Indotto zero.
Nel dopoguerra invece le cose sono cambiate e è stato tutto un fiorire di attività artigianali e di piccole industrie, molte delle quali attive ancora oggi. Fino a pochi anni fa, un disoccupato a Fara era una specie di eroe della resistenza (all'omologazione). Ora anche qui ce ne sono un po', non tanti, specie tra i giovani, che però si danno quasi tutti da fare con lavoretti precari. Spesso li cercano anche gli studenti universitari che potrebbero farne a meno, giusto per guadagnare qualcosa da soli.
I contadini, o sono spariti o sono cresciuti. Chi possedeva piccoli appezzamenti ai confini del paese, se non si è fatto incantare dagli spiccioli offerti negli anni '60, ha tratto beneficio dall'espansione. Con il ricavato delle vendite, alcuni si sono riciclati come imprenditori, con buon successo pure; altri si godono giustamente un minimo di agiatezza dopo generazioni e generazioni di miseria, in attesa che ci pensino i figli a prosciugarla in sciocchezze. Le premesse ci sono tutte. Si vive una volta sola, dicono. Così pare. Il cristianesimo è evaporato, come le nebbie che non ci sono quasi più.
Sarà per questo recente benessere che, dopo essere stati sempre ospitali, ora prevalgono quelli che vedono di mal'occhio ogni nuovo venuto. Hanno paura di essere troppo aiutati nell'opera di demolizione.
A parte questo i faresi sono gente pacifica, modesta, ordinata. Asciutta ma disponibile, appena cedono un po' le difese. Con un certo senso dell'umorismo persino, sia pure stringato. Gente solida, concreta. Niente più e niente meno. Sogni, pochi; ambizioni, diffuse ma tiepide, non abbastanza da dannarsi l'anima. Nessun farese si è mai distinto in qualche campo, nemmeno nel male. Non è poco. Anche se, ultimamente, astio e arroganza stanno crescendo come un po' ovunque. L'odio al momento è confinato alla sfera privata.
Di ragioni per stare qui non ce ne sono molte. Eppure sono pochissimi quelli che se ne vanno. Sarà perché ora tutti si possono allontanare quando vogliono e la metropoli è a mezz'ora di strada, traffico permettendo. Ma solo per un po'. Come quel mio amico a cui piace viaggiare e ha tempo e mezzi per farlo, ma resiste al massimo un paio di giorni e poi torna di corsa a casa, a dormire.



05/08/16

Federico De Leonardis - Racconti immobili




Mi scrive Federico De Leonardis:
Caro Luigi, non ti sembri piaggeria, sono fermamente convito di quanto scrivo. So che, com'è tua natura, ritirerai le tue corna dentro la chiocciola, ma fai lo sforzo di accettare il fatto che qualcuno abbia capito che la tua Cosa ti è vitale. F

Non gli credo. Cioè, sono sicuro che è convinto di quanto scrive, mentre lo sono meno di ciò che scrive, anche se mi piacerebbe. Pubblico sotto la sua responsabilità.
GRAZIE FEDERICO!



Racconti immobili 1

Sto fermo, immobile (almeno cerco di riuscirci), mentre leggo questa trentina di racconti.
Racconti? Improprio. Non sono racconti nel senso usuale della parola. Il titolo, forse per ragioni editoriali, fuorvia. Questo libro non è una raccolta di storie, in un certo senso è un romanzo, ma non nel significato usuale del termine, non c'è nessuna fiction, nessun personaggio a cui succeda questo o quello in una trama, e se qualcosa procede in avanti, alla fine ritorna indietro come attirata da una calamita e riacquista la sua immobilità. Il caput mortuum depositato sul fondo di questo libro raro e mosso appena dal magnetismo della nostra lettura, sale in superficie. Ma lentamente e opacamente, e presto torna a ridepositarsi sul fondo per riapparire in superficie in modo diverso in una lettura successiva: un libro che vale va sempre letto più volte ed ogni volta ne scopriamo qualcosa che non avevamo notato e ci dà la certezza che protegga ben nascosto il suo mistero.
Non sono giochi di parole questi, è proprio quanto succede alla lettura di questo densissimo romanzo. Chiamiamolo col suo vero nome infatti. Già, perché oggi, dopo Beckett, Musil, Kafka, Proust e pochi altri (non sto a far l'elenco, non mi piacciono le classificazioni, ma vogliamo citare David Foster Wallace almeno?), secondo me questo, se non l'unico, è un modo nuovo per non scrivere un romanzo. Scrivendolo. Se mettiamo in fila questi capitoli a volte brevissimi, ci accorgiamo che esiste un filo molto sottile che li lega tutti, come in una collana di perle, alle quali non puoi cambiare posto senza rovinarne la bellezza, un filo che si chiama Luigi Grazioli.
Un'autobiografia allora? Nient'affatto: l'io parlante a volte è al centro della perla, ma non ne è mai il protagonista e quando l'autore usa la terza persona non ci si nasconde dietro. I gioielli di questa strana collana sono di grossezza diversa: apologhi, flash, schizzi letterari, semplici comunicazioni da cartolina (una volta esisteva una letteratura da cartolina e non è un caso che lui vi si cimenti: saluti dalla Cina, da Parigi, da Praga) si alternano a sproloqui lunghissimi dove il punto è una rarità e noi ansiosi lo cerchiamo fra le righe senza successo. Tutto, assolutamente tutto, trova il suo posto preciso nella sequenza. Si pensa a una composizione musicale dove non puoi spostare nemmeno una nota: qui neanche una virgola. E non è un romanzo allora? Bisognerebbe rifondare il termine. Grazioli ci dice che è ora.
Una scrittura faticosa e densissima, orale, ma di un'oralità veramente contorta, piena di riflessioni e autoriflessioni, un avanti e indietro intellettualmente impeccabile che richiede molta attenzione, ma non ti lascia mai a boccasciutta. E non ti lascia a boccasciutta proprio perché ti costringe a un'attenzione assoluta per non perdere la parte di fondo che viene a galla in quel punto. Nel tipo si indovina un certo cinismo: volete leggermi? Bene, son qui per questo, ma alla larga i pigri, la letteratura seria non è per quelli che cercano storie in cui alla fine esci come ci sei entrato: qui si costruisce una specie di pugno nello stomaco che non lascia indifferenti e agisce sulla tua memoria. Lentamente il libro si avvicina allo chevet e ci resta, immobile.
Ma il panegirico non finisce qui, perché se questo scritto avrà avuto (il Futuro anteriore tanto amato dall'autore) un'effettualità, sarà perché sarà riuscito a dare al lettore qualche dritta perché parta nella direzione giusta e non pensi di trovarsi davanti a frammenti di un discorso che non abbia un ordine preciso: ripeto non sono racconti che si possano leggere separatamente dal tutto. La sequenza è importante quanto lo è ciascuno di essi separatamente.
Quindi, per essere precisi, Grazioli ha già fatto un errore, nel titolo: il libro dovrebbe chiamarsi Racconto immobile. E ne sta facendo un secondo: pubblicare sul suo blog  i “racconti” separatamente. Popolo del web, non fatevi fregare, dovete comprare il libro e se proprio siete così sicuri che i tempi debbano far tramontare i libri, almeno un suo e-book (affari vostri se poi lo schermo rimarrà immobile su una pagina e non potrete piegargli un angolo o aggiungere una glossa). Ma noi, l'autore ed io, siamo degli inguaribili passatisti, si sa.
Devo entrare nel merito? Quel minimo per mettere in guardia su come è articolata la sequenza. Attenti: dopo quell'originale introduzione al tutto e a se stesso che è l' apologo dell'Autoentomologo (10 righe! sfido a trovarne nella letteratura una più breve), segue una prima sezione, che va dalla nascita, Genesi, alla morte, Chiamate, con al centro naturalmente la vita, Il raccordo anulare, tre pezzi che come nelle opere antiche (Grazioli ha un'ottima memoria letteraria) riassumono, non tanto brevemente, il contenuto del tutto (viene in mente il Tristram Shandy di Sterne). Le quattro sezioni successive (adesso non starò a tediare il mio lettore entrando nel merito) sono articolate allo stesso modo, dalla nascita alla morte, simmetricamente, come è dell'equilibrio dell'immobilità, per quanto dinamica sia: in qual modo il barocco, del quale la cultura italiana è orgogliosamente pregna (Borromini non sferra spadate solo contro se stesso!), ha tenuto ferma la simmetria rinascimentale? Per quanto balli, lo spazio del grande architetto non ti cade in testa: è immobile (anche lui, anzi prima il suo di quello di Grazioli).
Potrei entrare nel merito di ciascun pezzo,  e sono tentato dalla sua densità, dal fatto di poter estrarre aforismi, epigrafi a molte situazioni, lampi (Orizzontali) di intuizione straordinaria, ma dopo aver suonato questo campanello d'allarme, mi fermo: sarebbe invadere l'autonomia del lettore. Un ultimo consiglio: vada piano, pianissimo: anche leggendo un libro di prosa, e non solo nella poesia, occorre trovare il suo ritmo e adeguarcisi. Non è facile. L'ultimo degli errori che deve fare costui è di darsi alla velocità: il libro ha un suo ritmo, una sua lentezza. Anzi é immobile.


Racconti immobili 2

Racconti immobili è rimasto un'intera giornata sulla mia scrivania (per quelli che amano ancora la nostra lingua, si dovrebbe parlare di compiuteria, se il termine non comportasse una qualche allusione alla compiutezza, che l'aggeggio che ha sostituito la penna o la matita, per sua natura solo loico, non ha: certo Dante non sarebbe contento e la poesia, ancora oggi, gira solo sul legno o in barchetta sull'inchiostro): si muoveva tutto, si apriva a caso qui e là, sembrava volermi dire qualcosa: hai parlato di simmetria, di errori, come se il Grazioli non avesse pensato e ripensato mille volte il titolo da dare a questo suo capolavoro e alla distribuzione a-simmetrica dei pezzi.
Non sono così ingenuo da non averci pensato e ripensato anch'io, di non aver pensato a quella che ritengo una virtù di qualsiasi opera d'arte, il depistaggio del fruitore. Che costui non creda che le cose siano così semplici: ti dico “racconti” per farti credere che il libro ne sia veramente una raccolta, come infatti è, ma è un'altra cosa, una cosa compatta e lo devi scoprire da solo (ma non lo hanno scoperto nemmeno i vari critici e editori [censuro io i nomi L.G.] rifiutandolo perché non era un romanzo, e oggi si sa, vanno solo i romanzi!).
Ma ecco che arriva il De Leonardis a darti una mano lettore e io non sono affatto contento. Non hai letto Una cosa? E ti sembra che oltretutto sia al centro della triade nascita, vita, morte che quello forzatamente inserisce nelle ultime tre sezioni (nella prima, lo ammetto, è evidente)?
Sì caro Grazioli, lo è proprio simmetrica. Te ne darò una prova senza entrare nel merito, come ho già promesso. E' forse possibile invertire la posizione di Telemilù e Quelli che restano, oppure quella de La misura dei passi e di Azione! ? Dimenticare Nagasaki (adesso hai cambiato nome, Luigi?) non è sostituibile con Una cosa e, insieme con Azione, si trova proprio al centro della seconda sezione. Solo che Una Cosa, il vero centro della tua poetica, sempre per la questione del depistaggio, al centro sarebbe stata troppo evidente, troppo banalmente albertiana. Il libro, malgrado il titolo, si muove tutto, borrominianamente appunto. Ecc ecc.
Non  voglio star qui a spaccare ancora il capello in quattro, perché in effetti il libro è molto altro rispetto a una sia pur complessa costruzione architettonica, come deve ogni opera che si rispetti, e se vogliamo dirla tutta, è anche un coacervo di lenti puntate, autopuntate, sullo stesso Grazioli e le mille sfaccettature della sua … ritirata. Dice Moresco, nella quarta di copertina, “tenace, invisibile, irriducibile e mite”, ma fa due errori. Il primo, quello di essersi dimenticato il più importante aggettivo che si attaglia al tipo: cinico, anzi autocinico (ma uno scrittore come lui non si poteva permettere un neologismo così contraddittorio e dopo “mite” oltretutto! Poco prima non parla anche lui di “delicato rancore”?); il secondo è più grave, non accenna alla ritirata. Grazioli è un riccio, più che una chiocciola, si ritira in se stesso tirando fuori gli aculei (non ho parlato di cinismo a caso) e ce li punta addosso se vogliamo toccarlo. E la sua ritirata è secondo me la vera genialata di questo scrittore. Sembra dire, andate avanti voi, ma non nel senso del và su tu che se' valente, come Belacqua. Non si tratta della sottile pigrizia beckettiana o della modestia carteriana o più semplicemente di stanchezza e rinuncia: la sua ritirata è cosciente, l'esatto opposto di quanto oggi succede dentro lo strumento sul quale si scalda Milù, del tuttinprimopiano, è una ritirata faticosa, un lavoro che tiene accese le luci de Le banche del centro fino a tardi, di Attenzioni eccessive verso spazi che non esistono, ma si possono attraversare (e non si trovano dietro l'angolo!). Non è facile sostenere questa ritirata; c'è qualcuno oggi che possa apprezzare il valore di questa forza, di questo coraggio? Dico oggi, proprio oggi?
Grazioli se ne frega e ci volta la schiena. E' proprio, vuole esserlo, una sua Figura.
Purtroppo volta la schiena anche a me che gli ho fatto un cattivo servizio perché l'ho messo un po' in piazza. Ma dimmi, Luigi, come avrei potuto altrimenti se volevo aiutare il lettore? Non mi portar rancore, sia pur delicato, sopporta un attimo e sii ben certo che chi sa leggere, ha ben altro di cui pascersi nel tuo libro: l'ho solo avvertito.



26/07/16

Non voglio essere qui



Il becchino se la prende comoda. È un uomo allegro e paradossale che per stupire i visitatori, se sta facendo uno spuntino, non disdegna di catturare qualche insetto di stagione e di alloggiarlo tra la pancetta e il panino, che poi morde e mastica con gusto spropositato, condendo con amenità cloacali l’esibizione, gratuita peraltro. In privato pare che sia peggio: si sforza di fare il buon padre di famiglia. Infatti i suoi figli, per far dimenticare di chi lo sono, sono tutti i primi della classe. Adesso, mentre lavora col suo assistente, un succubo giulivo raccattato dalla pubblica amministrazione nel parentado di qualche consigliere comunale, fatica a reprimere una canzonetta i cui resti affiorano di tanto in tanto alle sue labbra contornate di sudore. Poco discosto l’ufficiale sanitario discute dell’ennesima figuraccia della nazionale di basket col maresciallo dei carabinieri, che continua a togliersi e a rimettersi il cappello sotto il sole, mattutino sì, ma di luglio. Inutile dire che non capiscono un’acca. Per questo, e perché non possono alzare la voce e azzuffarsi, infarciscono le loro scempiaggini di termini tecnici in ragione inversa all’effettiva comprensione: è l’ultima risorsa dei cretini. Di quelli educati, beninteso.
Qua e là i rari visitatori (il solito gruppetto di vedove che, eleganti, splendenti di una seconda, ben più felice giovinezza, si danno appuntamento al cimitero, a due a due o a tre a tre, per poi chiudere la mattinata in qualche bar; un ragazzo che smette di piangere non appena ci vede; due gemelli adulti che stanno portando dei fiori appassiti all’angolo della spazzatura) ci squadrano da lontano, indecisi se far prevalere la curiosità o la discrezione. L’oggetto della curiosità sono io, che vivo in città da più di vent’anni e, pur tornando spesso a casa di mia madre, non mi faccio vedere molto in giro. Forse qualcuno mi riconosce, o deduce chi io sia dalla tomba davanti a cui mi trovo.
Io non voglio essere qui. Mi hanno detto che la mia presenza era necessaria, che almeno un famigliare doveva assistere all’esumazione, e dietro le insistenze adeguatamente spruzzate di lacrime e preghiere di mia madre e mia sorella, che adoro, preferibilmente da lontano, sono venuto io; ma non volevo venire, e adesso che sono qui, ancora non voglio. Mia madre e mia sorella sovrintendono alla tomba chiusa, io all’apertura; loro alla normalità, al rito attossicato dal vizio pressoché quotidiano di mezzo secolo ormai, io all’effrazione. Così è stabilito, e io mi adeguo come meglio posso, costante nell’incostanza, schiacciato dalla leggerezza dell’assenza di vincoli evidenti che ha finito per appesantire anche i miei lineamenti una volta belli e questo corpo, che porto in giro come un pacco postale lasciatomi in deposito da qualcuno che poi non si è fatto più vedere, un povero corpo che non ha mai danzato.
Mentre becchino e aiutante si godono un po’ di fresco nella tomba della mia famiglia prima di estrarre la cassa dal suo alloggiamento e di metterla su due cavalletti previamente calati fino al pavimento, penso alla donna che avrei dovuto incontrare questa sera se non avessi rinviato l’appuntamento, e penso anche che avrei potuto rispettarlo, se avessi voluto, tanto le pratiche non dureranno a lungo; ma adesso non vorrei essere nemmeno con lei. Non voglio essere da nessuna parte. Mi sento, come mi capita spesso, ma con più forza, quasi che tutto (tutto cosa?) si fosse concentrato nelle mie membra aumentandone la densità senza lasciare spazio a pensieri o emozioni, come uno che si muove incessantemente tra nessun posto e nessun altro e non fa assolutamente nulla se non non essere da nessuna parte, o quanto meno volerlo.
Sto in silenzio e guardo il sudore tra i peli che coprono persino le spalle al becchino, che adesso si è tolto la maglietta e sfoggia una canottiera traforata di un bel colore arancione: sta passando due cavi sotto la bara e nelle quattro maniglie laterali e ne getta le cime all’aiutante che è già risalito. Poi con un salto si aggrappa al bordo marmoreo della tomba e risale anche lui tirandosi su a forza di braccia senza usare la scaletta appoggiata alla parete. Qualche vedova e i gemelli hanno fatto alcuni passi nella nostra direzione ma si tengono ancora a prudente distanza. Allungano colli da fenicotteri e ne assumono con disinvoltura le espressioni. Si vede che ci sono portati. Meglio guardare il collo dei due uomini che stanno estraendo la bara con movimenti rallentati e sincronizzati, per non farla cadere e scoperchiare prima del tempo.
Scommetto che al becchino non dispiacerebbe (e forse nemmeno a me, dal momento che me n’è venuto il pensiero), ma la professionalità prima di tutto. Si volge verso di me come a chiedermi di dare una mano nel momento decisivo, quello del passaggio dal vuoto della tomba al cemento antistante, ma io fingo di non accorgermene e sto a guardare come se la cava. Voglio proprio vedere se ti viene ancora da canterellare, adesso. La bara si piega di lato, ma prima che scivoli giù i due uomini riescono ad afferrare le maniglie alle estremità e la issano con delicatezza, nonostante il peso, fino al carrello che aspetta sul vialetto, evitando la sosta sul cemento. Il becchino mi lancia un’occhiata, ma io mi sono già voltato verso il medico e il maresciallo che hanno da poco deciso di concedere una pausa alle rispettive intelligenze. I curiosi hanno preso coraggio e ora sono a una decina di metri. I loro grugni stanno cercando espressioni più consone alla circostanza. Ci riescono benissimo: ora sono passati alla classe degli scifozoi. Posso vedere i muri del cimitero attraverso di loro, pur ammirandone la forma cardinalizia, decorativa come la danza macabra sul muro d’ingresso. Più si avvicinano allo stato minerale, meno gli uomini sono repellenti.
 

Seguo la bara fino alla camera mortuaria, dove verranno tolte le viti e il coperchio verrà alzato. Non credo che ci saranno saldature da dissigillare; non ho chiesto, non voglio sapere. Devo riconoscere la salma di mio padre che non ho conosciuto. Io almeno una scusa buona ce l’ho: è morto che ero ancora in fasce. Un sollievo, in fondo; col tornaconto di un periodico rimpianto che mi fa sentire più buono. Lo posso amare da lontano, senza lo scoglio della realtà, anche se a volte ascrivo la mia debolezza al fatto di non aver dovuto lottare con lui. Ma no! Non faccio altro da tutta la vita, come se fosse mia la colpa che lui si è tolto di mezzo prima. Non c’è scampo. Penso ai figli del becchino. Mi rifiuto di pensare a quelli dei due ufficiali.
Di mio padre ho visto solo qualche fotografia, e per lo più di sfuggita, perché le mie due donne, quando le sorprendevo assorte nel loro passatempo preferito, sfogliare l’album di famiglia, si sono sempre affrettate a nasconderlo per evitare i miei sarcasmi, quando non le mie sfuriate. Sono cattivo. Meno di quanto vorrei tuttavia. Adoro la perfidia, ma poiché sono affetto dalla terzana di una coscienza che inclina a imbrattarsi quando meno dovrebbe (press’a poco sempre), ne faccio un uso strettamente privato, riservandola quasi con tenerezza ai miei famigliari, come un privilegio di cui purtroppo di rado si dimostrano all’altezza. A scanso di equivoci, quindi, ho sempre interrotto le loro storie. Non sopporto l’elegia, disprezzo il tormento; e se della sua assenza, di mio padre intendo, mi sono cibato per tutti i miei cinquant’anni, ho almeno la consolazione che è stata totale. E adesso dovrei vedere quel che resta di lui, come una vendetta postuma e l’incarnazione, si fa per dire, dei rimproveri taciuti di mia madre e di quella poverina di mia sorella. Anche per me è venuto il momento di pagare il fio (loro parlano così; non rinunciano al tono, loro; non si sminuiscono come faccio io, che nascondo persino i miei titoli). Dovrei specchiarmi nella sua polvere, raccogliere commosso i brandelli del suo vestito funebre, misurare i frammenti delle sue ossa, al più qualche ciocca di peluria, fibre di cartilagini, centimetri quadri di pelle rinsecchita. Infine di mio padre non avrò conosciuto nemmeno il cadavere che per tutta la vita, secondo le regole, mi avrebbe abitato e eroso. Di questa giornata non potrò ricordare che i volti delle persone che mi accompagnano, i loro gesti, il sudore dei loro crani e le loro parole senza sordina. Ben mi sta.
Si sta bene nella fresca penombra della camera ardente, anche se preferirei che accendessero la luce, perché già che ci sono, quello che c’è da vedere lo voglio vedere chiaro. Senza accorgermi accendo una sigaretta: è un miracolo che abbia resistito tanto. Gli altri, incapaci di imitarmi, mi guardano storto, ma io non la spengo. Essendo la camera spoglia, deposito la cenere nella mia sinistra piegata a coppa, quasi rattrappita, come quelle che popolano, come un marchio troppo evidente, infinite foto di guerra. Giunto al filtro, apro la porta e la getto assieme alla cicca ancora accesa tra i sassi. Il capannello dei curiosi mi spia da lontano. Alzo la testa nella loro direzione anch’io, quel tanto che basta per sostenere la loro riprovazione ma non per decifrare eventuali nuove metamorfosi. Non li voglio vedere. Voglio che si sappiano visti mentre mi guardano, ma non voglio vederli. Penso alle ascelle delle vedove, alle ascelle senza le vedove, poi all’odore senza le ascelle. E poi ancora all’odore che esalerà dalla bara aperta.
Ma quando rientro il coperchio è già stato tolto e di odore non ce n’è. Non c’è nemmeno profumo, per fortuna. Sento esclamazioni di meraviglia che sfuggono dalle bocche aperte dei tre uomini e dello scimunito (o dell’uomo e dei tre scimuniti; o dei quattro scimuniti e basta). Li vedo agitarsi, e l’aiutante che quasi mi travolge correndo verso la porta. Mi volto e chiudo a chiave. Quindi mi dirigo alla bara, mentre i tre rimasti, ora in un silenzio assoluto, mi fissano con sguardo sospeso, in attesa delle mie reazioni. Non ne vedranno, non voglio dargli nessuna soddisfazione.
 

Il cadavere dell’uomo nella bara è intatto. Ha i capelli, i baffi e il pizzetto ben pettinati, i vestiti senza una piega, le scarpe lucide sui piedi ben allineati. Due anelli gli stringono leggermente gli anulari delle mani intrecciate sul ventre. Solo la pelle ha una sfumatura grigia di troppo, ma forse è colpa della penombra. È un uomo di trent’anni, ma come gli uomini di trent’anni di una volta, che sembravano un po’ più vecchi della loro età. Potrebbe essere mio figlio; ed è come tale che lo guardo. Mio padre è mio figlio, l’ipotetico figlio che non ho voluto, e per questo non mi interessa. Sono meno curioso che se lo avessi trovato sbriciolato. Mi irrita questo suo fare il fenomeno anche da morto, secondo l’esecrabile abitudine dei padri morti giovani. Ma io non voglio irritarmi.
Piego la testa e chiudo gli occhi per respingere l’ira. Gli altri lo interpretano come una richiesta di restare solo e scivolano via ansiosi di non arrivare secondi a divulgare il portento. Hanno per lo meno l’accortezza di accostare la porta. Mi giro e la richiudo a chiave. Il movimento improvviso mi distoglie per un attimo dal controllo dell’ira, che ne approfitta per imboccare qualche scappatoia laterale e farmi perdere le sue tracce. La ritrovo troppo tardi, quando ormai ha potuto defluire in vasi secondari sconosciuti e da lì diffondersi fino a quelli periferici, nutrendosi per strada con tutto quello che incrociava e trasformandosi in furore. Sento il furore strisciare e corrodermi come una cancrena che mi fa marcire dall’interno; i vestiti si afflosciano su di me impregnati del liquame che mi abbandona, le ossa si sfarinano, i tendini si sfilacciano, i denti cadono e il cervello trova infine la sua esatta dimensione: esattamente niente.
Intanto fuori si devono essere radunati tutti i visitatori del cimitero, forse se ne sono aggiunti altri, senza dubbio avranno già telefonato a mia madre e mia sorella. Li sento vociare, chiamarmi. Qualcuno batte i pugni sulla porta. Scorgo in un angolo un tavolino con tutti i documenti da compilare, senza accendere la lampada individuo lo spazio per le mie firme, cerco una biro nella tasca interna della giacca, ne esce una rossa, va bene lo stesso, firmo diligentemente tutte le copie. Per me, possono scrivere quel che gli pare. Firmare mi fa bene. Quando ho finito, posso dirigermi verso la porta e andarmene.
La apro con uno scatto secco e senza dire una parola mi fermo davanti alla folla che si accalca fuori. Guardo quelli più vicini, non rispondo a domande né a saluti, aspetto che mi facciano spazio per passare. Le voci si abbassano, ma non cessano; qualcuno comincia a spostarsi, poi altri, finché si apre un varco sufficientemente ampio. Non voglio sfiorare nessuno. Aspetto ancora e infine mi dirigo verso la mia macchina. Non passerò da casa, non aspetterò le mie donne. Ne intravedo da lontano le sagome in fondo al viale d’ingresso, ma il motore ha già preso velocità. Passo loro accanto, le saluto e faccio segno con la mano che telefonerò. Ma non voglio farlo. Telefonerò invece per tentare di ricombinare l’appuntamento. E perché non dovrei riuscirci? Cosa vuoi che abbia da fare quella là? E comunque ho un sacco di cose da fare anch’io.
 

23/07/16

Dormire sotto le stelle (ricordi di copertura 19, con compilation e appendice)


Da giovane ho dormito tante volte sotto le stelle. Erano gli anni in cui si poteva ancora fare l’autostop o girare con qualche macchinino, il sacco a pelo e la canadese, sopravvivendo con poco o niente e fermandosi dove si voleva, in campeggio libero o semplicemente gettando il sacco a pelo per terra senza nemmeno montare la tenda. In riva al mare o al Danubio, sul Gargano o nella Foresta nera, tra le vigne del Reno o gli uliveti della Puglia, in un campo di grano appena tagliato (giusto per provare: altamente sconsigliabile), o ovunque ci fosse uno spazio aperto, con la nuda terra sotto e l’universo sopra, per dirla con una canzone di Cat Stevens, a guardar le stelle. 
Il cielo notturno che ricordo con maggiore vivezza è quello che ho visto sulla Sila, o comunque nella Calabria interna, nell’agosto del 1969. Avevo diciott’anni e stavo girando il Sud Italia senza patente, solo con il foglio rosa, con la mia Bianchina: un gruppo di amici e amiche con tre-quattro utilitarie, decidendo soste e percorso man mano che ce ne veniva l’estro, senza discutere (andava bene tutto: c’era tutto da scoprire; l’anno dopo avremmo litigato quasi ogni giorno; poi non ci saremmo visti più: ma proprio più, senza astio né rimpianti).
La sera prima ci eravamo fermati a dormire in quello che poi si sarebbe rivelato il greto di un torrente in secca in Lucania, poco accosto a una strada ampia, appena asfaltata, percorsa da nessuno (tanto che potevamo lanciarci un pallone da un finestrino all’altro stando in due auto una accanto all’altra anche sulla corsia opposta), che correva parallela al litorale, ma non sapevamo quanto prossimo: lo avremmo scoperto il mattino dopo, quando, appena svegli, qualcuno aveva attraversato un boschetto vicino e si era ritrovato su una lunghissima spiaggia sulla quale, sembra inventato, sarebbe passato solo un tizio a cavallo un’ora dopo e poi, fino alla nostra partenza, più nessuno. Poi ci eravamo inoltrati tra i monti della Lucania, fermandoci in un posto dove c’era una fonte di pietra alla quale ci avrebbe poi raggiunto un contadino, il padrone del terreno, che si sarebbe fermato a chiacchierare a lungo con noi, come con una specie aliena, offrendoci della frutta; e infine ce n’eravamo andati verso la Calabria, sempre avanti, fatto il pieno nel tardo pomeriggio, salendo tra strade di montagna senza illuminazione, sperando di incontrare una trattoria o una pizzeria (sì, pensavamo proprio a una pizzeria), senza trovarne nessuna, e anzi a un certo punto senza incrociare più nemmeno un paesino, o un agglomerato di case, qualche segno umano... e decidendo di fermarci in mezzo a quel deserto non abbiamo mai saputo dove, su un prato curvo fuori da un bosco, qualcosa che ci parve la cima spelacchiata di una collinetta, e di mangiare lì quello che avevamo di scorta, scatolette, frutta, e forse, ma non lo posso giurare, facendo la pastasciutta con un fornelletto da campo.
Qualcuno intanto montava le tende, anche se la notte nonostante l’altezza era tiepida; poi, mentre si mangiava, con attorno tutto quel buio e quel silenzio interrotto da qualche verso o rumore ogni tanto, o fruscii e lamenti che sembravano ululati, di lupi, come no?, qualcuno ha cominciato a raccontare storie di paura prese dai libri che aveva letto o da qualche film, o abborracciate lì sul momento. E così abbiamo continuato dopo cena, spente le pile, non ricordo se con qualche sigaretta accesa ma direi di no, perché mi pare che nessuno di noi fumasse (possibile?), fino a notte inoltrata, sdraiati sui sacchi a pelo fuori dalle tende, o direttamente sull’erba, con tutto quel cielo infinito sopra e nient’altro.
Le ragazze fingevano di avere paura e si stringevano al loro vicino, casuale o preventivamente scelto, con femminile sagacia; alcune forse avevano paura davvero (erano un po’ sceme) e qualcun altro continuava a raccontare, a inventare, spinto dalle reazioni degli ascoltatori, con accanto nessuno. Finché tutto non è finito, alcuni sono entrati in tenda, altri si sono inoltrati nel buio e qualcuno è rimasto lì a guardare le ombre nere degli alberi e delle montagne attorno, e tutte quelle stelle, tantissime, come raramente ne avrebbe viste poi nella sua vita, lontanissime e vicinissime, che sembravano davvero pioverti addosso, avvolgerti con la loro luce, come a trasfigurarti nel buio, incantevoli, meravigliose, come le stelle sono sempre, anche quando sono nascoste, invisibili, ritratte nel loro pudore, che a noi spesso manca.

(Colonna sonora di quel periodo, con qualche apporto successivo)

 

Jefferson Starship - Have you seen the stars tonight

https://www.youtube.com/watch?v=WaRlmClmEy8

 

Pink Floyd - Interstellar overdrive

https://www.youtube.com/watch?v=4o2sA0vpA-4

 

Rolling Stones - 2000 Light Years From Home

https://www.youtube.com/watch?v=U6o2ZpHZWos

 

Cat Stevens - The boy with the moon and star on his head

https://www.youtube.com/watch?v=Bdua9Vj1LZA

 

Paul Simon - The boy in the bubble https://www.youtube.com/watch?v=Uy5T6s25XK4

 

Neil Young – Natural beauty

https://www.youtube.com/watch?v=-Y1IF8A9XN4

 

Van Morrison – In the garden

https://www.youtube.com/watch?v=Ku5gd8Gv3Bs

 

Nick Drake – Pink moon

https://www.youtube.com/watch?v=aXnfhnCoOyo

 

Pierre Akendengue – Silence

https://www.youtube.com/watch?v=32RU0TTIH5s

 

Alexi Murdoch – Crinian wood

https://www.youtube.com/watch?v=FAYJc0zSTtE

 

 

L’esperienza dell’immensità inimmaginabile dell’universo stordisce, la percezione che la trasmette, il cielo stellato sopra di noi, incanta, disorienta e appaga. La terra sotto di noi, la natura, impaura e rasserena. Nessuna sensazione è pura. Le proviamo insieme. Tutto ci avvolge e accoglie. Ci piomba addosso e ci protegge. Ci mostra il nostro niente e che questo niente è nel tutto, è tutto. È questa la loro forza.

Raramente si capisce, ma quasi sempre, se si presta attenzione, se si libera la testa, se si guarda e basta, si avverte. Senza dubbio alcuno. È l’evidenza stessa.