Sono giorni di perdite. Di perdite così
grandi, che si accumulano come macerie alle nostre spalle, e come macerie
ingombrano anche il nostro sguardo sul futuro, tanto che ci sembra di non poter
vedere o pensare nient’altro. Ciascuno è impegnato a contare le proprie e
quelle dei propri cari, della propria comunità, e solo con difficoltà riesce ad
alzare lo sguardo, a pensare a orizzonti più ampi, e quasi solo con spavento.
Eppure dovremmo essere abituati alla perdita. Viviamo da sempre di cose
perdute, di quelle che sono state nostre o ci hanno solo sfiorato, e di quelle
che nemmeno immaginiamo che siano andate perse. Ancora macerie. Montagne di
macerie, e di storie. Interi continenti che galleggiano come isole in oceani
sconosciuti.
In giorni come quelli che stiamo
vivendo ne ritornano a ondate, a volte con strazio o nostalgia, altre, poche,
con un sorriso. Molte sono cose e momenti che avevamo cancellato come di poco conto,
niente su cui valesse la pena soffermarsi, anche solo fantasie, progetti
istantanei caduti immediatamente e che ora, taglienti, ne trascinano con sé
altri nel varco aperto, a seguirli, tanti, e di tutt’altra natura. E poi si
pensa anche ai luoghi dove avremmo voluto andare, o che solo hanno attirato la
nostra curiosità per un attimo, a tutto quello che è andato perso senza che ne
avessimo mai sospettato l’esistenza. Ai mondi scomparsi di cui niente abbiamo
mai saputo.
È anche a questo che serve la
letteratura. Ed è a momenti come quelli che stiamo vivendo che si rivolgeva,
certo senza un’intenzione consapevole (ma è appunto a questi momenti che la
letteratura si rivolge: parole affacciate sull’imprevedibile; parole che
vengano buone per tempi e luoghi a cui non erano dirette), la tedesca Judith
Schalansky, classe 1980, scrivendo e progettando persino nella grafica,
elegante quanto funzionale al loro senso, i suoi libri, in particolare gli
ultimi due tradotti, Atlante delle isole remote, del 2009 (trad. it. di
Francesca Gabelli, Bompiani, 2013: che in realtà è il suo secondo, preceduto
l’anno prima da Fraktur mon Amour, un saggio sui
caratteri gotici che ha vinto diversi premi dedicati al design)
e Inventario di alcune cose perdute (2018, trad. it. Flavia Pantanella,
Nottetempo, 2020).

Ma già nel primo premiatissimo libro
tradotto in italiano, Lo splendore casuale delle meduse (titolo
originale Der Hals der Giraffe, “Il collo
della giraffa”, 2011, trad. it. Flavia Pantanella,
Nottetempo, 2013), aveva una forte incidenza la perdita, la cancellazione
quasi, come se non fosse mai esistita (e come verrà più esplicitamente detto in
Inventario) della DDR, vista attraverso lo sguardo di un’insegnante di biologia
in una scuola superiore dell’estrema provincia del nord-est, che sta perdendo
classi e studenti (la stessa provincia che viene dettagliatamente descritta in
“Il porto di Greifswald”, il nono racconto di Inventario, che la
narratrice, che vi è nata, ripercorre passo dopo passo alla ricerca non della
propria origine ma del suo riconoscimento, perché “La difficoltà non risiede
nel trovare l’origine, ma piuttosto nel riconoscerla”). L’insegnante registra i
cambiamenti nella sua scuola, e nella sua vita, con sguardo distante,
anaffettivo, che si commuove a suo modo, asciutto, solo davanti alla natura,
alle sue forme e alle sue leggi, dure, eleganti nella loro necessità, amorali,
ma oggettive: così sono e non c’è nient’altro da dire. Vede il mondo sotto una
rigida prospettiva di darwinismo sociale, ultramaterialistico, senza nessuna
concessione al sentimento o alle debolezze, ma come per difendersi da esse, per
dimenticare o dare un senso accettabile anche alle proprie perdite personali,
agli abbandoni di cui è stata vittima o che lei stessa ha favorito se non
proprio provocato, una corazza che però alla fine si incrina.
Nelle Meduse,
la sintassi è ridotta all’osso; nominale, appena possibile. Sincopata. Ritmica,
immagino, in tedesco; anche nella traduzione italiana, però. Che mi sembra
ottima: nel senso che è ottimo l’italiano – che è quanto di meglio chiedere a
un traduttore. La focalizzazione è spesso, non sempre, interna, come una specie
di monologo interiore, non a flusso, ma come discorso indiretto libero, di
solito, analitico come è la mente della protagonista, di tono spregiudicato,
quello che usa dire disincantato, lucido (la scienza lo permette: anzi, lo
esige!); sprezzante, di fatto. Quasi crudele.
La storia e la vita umana sono lette
attraverso quella naturale e biologica, in chiave rigorosamente
evoluzionistica, con ovvio ridimensionamento della scala di importanza
antropocentrica e dei nostri valori, quali che siano, che da questa prospettiva
telescopica tendono ad assomigliarsi, anche se non proprio del tutto, visto che
il recente passato, proprio e della propria ex nazione, la DDR, spesso affiora
dolorosamente, nonostante ogni strategia difensiva, e come metro di paragone
rispetto al presente, migliorato solo in apparenza, e di fatto peggiorato. La
strategia difensiva la porta a chiudersi in se stessa e si traduce in
sostanziale assenza di empatia, a parte un episodio rivelatore verso una
giovane allieva nel finale, ma non insensibile nei confronti della bellezza,
purché sia quella della natura e delle sue leggi (la simmetria delle meduse)
, e
non chieda di essere ricambiata, perché essa stessa in se stessa chiusa e
appagata, e che quindi non si traduce nella dialettica credito/debito. Un libro
di impatto pari al suo rigore, di grande intensità.

Già il libro precedente, Atlante,
parlava di isole che ci sono e non ci sono, che sono state cercate e
abbandonate, o abitate e abbandonate a se stesse. Remote, nel senso non solo di
lontane geograficamente, ma soprattutto in quello di lontane, e a volte
escluse, dalla memoria collettiva e persino dalle fantasie, che magari hanno
abitato per un po’, prima di sparire in apparenza per sempre. Perdute anch’esse
insomma, ma che Schalansky – innamorata delle cartine, degli atlanti e dei
mappamondi, come tanti bambini del passato che sognavano davanti alle illustrazioni
e zone bianche, agli spazi vuoti e senza nomi o con nomi esotici e sconosciuti
di cui erano costellati –, scopre e nomina e studia, raccontandone poi la storia
e le peculiarità, magari integrate con dati di fantasia. Infatti anche per chi
scrive, come per navigatori e scopritori, l’attribuzione del nome è già
l’inizio di una storia, e a volte di un mito, come se i luoghi non fossero solo
trovati, ma, appunto, inventati. “La cartografia dovrebbe essere annoverata
finalmente tra i generi poetici e l’atlante tra la bella letteratura.”
Guardando la cartina di un’isola in cui
non c’erano né nome né scala né scritte, scrive l’autrice, “improvvisamente mi
fu chiaro che le isole altro non sono che piccoli continenti e che i
continenti, a loro volta, non sono altro che isole, molto, molto grandi”. Così
per ognuna di quelle scelte redige una breve scheda, di lunghezza che sia
contenuta nella griglia di una singola pagina, se non proprio uguale, come lo
saranno i racconti di Inventario (16 pagine l’uno) che sintetizza una
geografia e una storia che possono essere sviluppate in epopee e monografie, e
lette di seguito formano un’enciclopedia di mondi lontani e sognati, e a volte
tragicamente trovati. Come in un racconto di Borges, a cui i due libri della
scrittrice tedesca devono non poco, oltre che a Benjamin, Calvino, Perec,
Sebald: niente di nuovo come riferimenti, ma rielaborati in modo molto
originale, come lo è il timbro della voce dell’autrice.
E storie smarrite, mondi alternativi,
memorie ritrovate o inventate sono i racconti di Inventario.
Le isole si rivelano luoghi perfetti
“di proiezione per esperimenti utopici e paradisi terrestri”, ma allo stesso
tempo anche prigioni naturali, reclusioni, condanne all’esclusione e distopie
reali, regimi efferati, tirannie, consuetudini orribili, ritorni a stati ferini
che l’umanità forse non ha mai conosciuto... e quindi come involontari ideali
esperimenti sulle dinamiche delle relazioni degli umani tra di loro e di tutti
con l’ambiente, con tutti i crismi della scienza prerelativistica, che separava
nettamente esperimento e osservatore (chi ne subiva gli effetti sulla propria
pelle o se ne faceva promotore per la scienza contava zero). La fuga,
l’isolamento cercato, l’attrattiva per il “bel niente” di isole deserte, senza
attrattiva o di quelle delle zone artiche dove nemmeno i virus si direbbe che
possano arrivare... “Può darsi che il paradiso sia un’isola. Lo è anche
l’inferno.” Ben poco però è attraente quanto l’inferno, perché “sono proprio
gli avvenimenti terribili a possedere il più grande potenziale narrativo e le
isole sono il luogo perfetto dove ambientarli... È tipico di questi racconti
che verità e fantasia non siano più separabili: la realtà diventa finzione e la
finzione si realizza”.
Negli
atlanti e nelle carte degli stati nazionali, queste isole sono “sospinte ai
margini, con una scala tutta loro, ma senza alcuna informazione sulla loro
reale posizione. Queste isole diventano così le note a piè pagina della
terraferma, in un certo senso superflue, ma infinitamente più interessanti del
poderoso corpus continentale”. In fin dei conti sono come gli umili, gli
sconfitti, i dimenticati, di cui la letteratura degli ultimi due secoli si è
fatta un dovere di recuperare e raccontare le storie, talvolta inventandole con
una maggiore verosimiglianza e verità di eventuali modelli e riferimenti reali.
Vengono “salvate”. E salvati sono anche gli oggetti dell’ultimo libro
dell’autrice. Ogni isola e ogni oggetto diventano il centro del mondo, come lo
è ciascun punto della superficie di una sfera, e come lo è, o dovrebbe esserlo,
per Canetti, ogni uomo, nessuno escluso.

Il discorso di Atlante sembra
chiuso, come circoscritte sono le isole. Invece il primo racconto di Inventario
di alcune cose perdute inizia riprendendone il filo. Vi si parla infatti di
Tuanaki, che diventa così la 51esima isola, quella che non c’è più, un piccolo
atollo una volta abitato e visitato da vari esploratori, che un bel giorno
sparisce inghiottito dall’oceano, forse per un maremoto che nessuno ha
avvertito (come sta per essere inghiottito il minuscolo atollo Takuu dell’Atlante,
che gli abitanti non vogliono comunque abbandonare). Dei missionari che lo
cercano per la loro opera pia di conversione al vero dio non riescono a
trovarlo, e nessuno più lo cerca dopo di loro e presto viene dimenticato.
Restano pochissimi documenti a loro volta persi in qualche memoria o archivio.
La scrittrice cerca di ricostruirne, e immaginarne, tracce e storia, per
concludere infine: “il mondo piange solo ciò che conosce e non immagina cosa
abbia perduto con quella minuscola isola, nonostante la forma sferica pari a
quella della terra avrebbe permesso a quel luogo sperduto di esserne
l’ombelico, pur non essendo legato a essa dalle robuste scotte del commercio e
delle guerre, bensì dal filo sottilissimo e regolare di un sogno.” A cui
aggiunge poi questa postilla, ancora con un’eco borgesiana: “Perché il mito è
la più alta di tutte le realtà, e la biblioteca, pensai per un momento, il vero
teatro di ciò che accade nel mondo.”
Il mito è, in un certo senso, la
scienza delle lacune, il filo che cuce gli strappi e le slabbrature delle
storie e delle testimonianze, o gli orli di assenze solo accennate; e la
biblioteca è il luogo dove di ogni cosa si può trovare traccia, incluse le lacune
e le cancellazioni che solo lì si palesano.
Di cosa parlavano le decine e decine di
libri scritti dal profeta Mani, tradotti in molte lingue e della gran parte dei
quali non ci è rimasto che il titolo? Che cosa resta dell’opera di Armand Schulthess,
che un giorno si ritira nella sua proprietà in montagna e dissemina casa alberi
e muri di tabelle e libri e repertori della sua personale reinterpretazione del
mondo e del sapere? Che ne è dell’opera di Saffo che non ci è pervenuta? In che
poesia, in che contesto e quale senso avevano i versi sparsi e i frammenti
affiorati nei luoghi più disparati, citati da eruditi che non ne dicono altro?
Che impatto hanno sulla fantasia e sulla vita della narratrice e come la
aiutano a parlare dei valori morali o della sessualità, la propria e di tutte coloro
che nel cosiddetto saffismo vengono classificate e imprigionate?
Che ne è di opere e figure di cui si è
perso quasi tutto, se non il nome dubbio di uno studio sulla luna e l’omaggio
di un cratere che poi è finito per essere attribuito a un omonimo? E dei luoghi
dell’infanzia, della nazione in cui si è cresciuti, la DDR per Schalanski, con
la sua organizzazione e i suoi modelli vita, che poi da un giorno all’altro
scompare e di cui pian piano vengono cancellate anche le tracce più
significative, in una guerra di distruzione, costruzione, nuova distruzione e altre
ricostruzioni di simboli i cui significati trasmigrano capovolti da un decennio
all’altro? Come accade, per esempio per il suo Palazzo della Repubblica di
Berlino est, simbolo della nuova realtà della DDR, di cui parla il penultimo
racconto, abbattuto per ricostruire il precedente castello degli Hohenzollern, a sua volta abbattuto come simbolo detestato
di ciò che la nuova repubblica voleva cancellare per costruire il suo mondo
nuovo, a cui si intreccia anche la storia personale della narratrice, il
momento in cui anche la sua famiglia, per il tradimento del padre, si spezza e
viene demolita, come per molte cose della storia recente della Germania. Quanto
incide questo sulla vita di una bambina? Cosa resta dei luoghi e dei ricordi,
forse falsi, dell’infanzia? È così importante decifrare la verità,
demistificare le illusioni? “In fin dei conti la demistificazione del mondo è
una balla colossale. Il pensiero magico di un bambino è più potente di ogni
statistica, di ogni fatto empirico [...] Contro il mito non si può che perdere.
... Che cos’è il desiderio, cosa la volontà, e cos’è solo una funzione
fisiologica? Prendere o lasciare? Diventare un contenitore. Rinunciare alle
congetture, riconoscere l’esistenza di qualcosa di più grande. Come la pietà.
Come l’umiltà. Un’umiliazione assoluta.”
Sono tanti i fili che si intrecciano in
questi dodici racconti, come le loro forme, i linguaggi usati e la rete delle
immagini costruita per ciascuno con grande coerenza, con quelle di derivazione
scientifico-naturalistica a prevalere, come in Lo splendore casuale delle
meduse.
Mentre i precedenti libri si
caratterizzavano per una spiccata e molto rigorosa unitarietà di stile, questo
lo varia da un racconto all’altro, trovando nel tono complessivo del discorso,
distaccato ma mai cinico, e spesso anzi ironico, più tra le righe che in modo
esplicito, la sua coerenza e compattezza, la cui cura è segnalata anche
dall’uguale lunghezza di ciascuno, 16 pagine, come la descrizione delle isole
nel precedente libro era contenuta sempre in una pagina. Per ogni racconto
l’autrice trova la voce più “naturalmente” adeguata (anche se a volte con un
po’ di manierismo compiaciuto della propria bravura) e soprattutto una forma
che si rifà a modelli canonici ma sempre riprendendoli con sottili innovazioni
e spesso passando senza soluzione di continuità dall’uno all’altro all’interno
di ogni singolo testo: dal racconto realistico a quello fantastico, dal
resoconto quasi documentaristico al saggio storico o artistico, alle memorie
personali e famigliari.
L’inventario del titolo è anche quello
delle immagini, degli stili, delle forme culturali, come i disegni delle forme
naturali scandivano la narrazione nel romanzo delle meduse. Nella parola
inventario c’è invenzione, inventare. La radice è la stessa, in fondo anche il
significato e le azioni che essa comporta: trovare, assegnare un luogo, dare
una collocazione, colmare le lacune, cucire gli strappi, creare una serie, una
storia in cui inserire ciò che si è trovato, un senso per la cosa e per la
ricerca e il ritrovamento che ne è conseguito. Più o meno quello che ci tocca
fare quotidianamente e che ci toccherà ancora di più, quando sarà alla vita che
dovremo assegnare nuovi termini, in nuove mappe e storie da raccontare che
sperabilmente non siano ancora le stesse di prima, tutte uguali, dette allo
stesso modo, con le identiche parole prosciugate, come prima, come ora. Libri
come questi mi sembrano un ottimo aiuto per aiutarci a farlo.