28/05/23

Arrivi e partenze

 


Mentre l’involucro esterno, dice con malcelato orgoglio mentre io lo guardo con malcelata ironia (o tenerezza, ancora non so distinguere), sembra trascurato tanto da non tradire gli anni, se non per minimi dettagli rintracciabili unicamente dai pochissimi che hanno la pazienza, o il malanimo, di scrutarmi a fondo, gli apparati interni, tutti, dal primo all’ultimo, dal più nascosto invisibile bastardo ai capibanda più chiassosi e arroganti, sono impegnatissimi a tracciare strategie imbastendo alleanze provvisorie per saggiare metodi e obiettivi e cospirando per sferrare attacchi che finora si sono limitati a punzecchiare con piccoli fastidi trascurabili, e raramente con effetti di qualche peso, ma passeggeri, quasi solo per segnalare la loro esistenza,  come allenamento  in vista degli assalti ben più maligni che non tarderanno ad assestarmi in massa quando meno me li aspetto, feroci, imparabili, irrimediabili e definitivi. Ma io non sono stupido, e li aspetto, pur sapendo che aspettarli non servirà a niente, perché saranno sempre e comunque una sorpresa.

È una sorpresa arrivare nel mondo, dice sorridendo, e una sorpresa lasciarlo. La stessa meraviglia. Uguale e diversa. Inutile e gloriosa. Fine a se stessa. Come l’arte. Che forse proprio lì ha origine. E sempre lì finisce.


27/05/23

Francesco Furini, Ila e le ninfe


La prima cosa che ho pensato davanti a questo quadro magnifico e conturbante, è stata: “a me non è mai capitata un’avventura del genere”. La seconda è stata chiedermi perché il giovanotto sembra così renitente. La terza perché porta quel cappello. Ma poi, vedendo come il giovane cerca di sfuggire, preso più da spavento che da semplice timore, ho anche pensato che chi l’aveva dipinto, dopo aver covato un desiderio simile al mio, si è messo invece nei panni del ragazzo, che prova in ogni modo a divincolarsi dall’abbraccio e dal desiderio di quei giovani corpi meravigliosi, e che è questa sua attrazione e paura che il pittore ha dipinto e che fa la bellezza dell’opera.

Il quadro, di cospicue misure (230 x 261 cm) che favoriscono un forte impatto di presenza, si intitola Ila e le ninfe e il suo autore è Francesco Furini (1603-1646), che l’ha dipinto agli inizi degli anni ‘30. Molto apprezzato alla sua epoca, la sua fama ha in seguito subito una certa eclisse, ben esemplificata dal giudizio di Argan, che a p. 357 del terzo volume della sua Storia dell’arte italiana (Sansoni, 1968) lo liquida così: “Francesco Furini cerca una troppo facile armonia nello sfumato in cui immerge le sue leziose figure nude”, assieme agli altri pittori toscani del ‘600 “che, fidando nella perennità d’un primato perduto, si astengono dall’affrontare i problemi del loro tempo e si chiudono in un isolamento che diventerà ben presto provincialismo”. Ma negli ultimi tempi, specie dopo la grande mostra del 2007 a Palazzo Pitti, delle cui collezioni il nostro quadro fa parte e dove si possono vedere anche due notevoli affreschi, Furini è stato molto rivalutato, tanto da essere ormai ritenuto uno dei massimi del suo tempo, per quanto la sua notorietà non sia mai approdata al grande pubblico.

 

 

Il soggetto del quadro viene dalla mitologia e dalla letteratura greca, in particolare dalle Argonautiche di Apollonio Rodio e dall’idillio XIII di Teocrito, ma curiosamente le uniche testimonianze plastiche, abbastanza numerose però, sono di epoca romana; poi è stato quasi dimenticato, a parte la breve parentesi seicentesca che ha il suo capolavoro nell’opera di Furini. La sua rinascita arriva nell’ottocento, soprattutto nei paesi anglosassoni, quasi sempre come scusa per la rappresentazione di un tripudio di corpi nudi, peraltro di blando erotismo per quanto molto pruriginoso per gli standard del tempo, ma mai in modo così ambiguo e inquietante.

Le versioni migliori, sono quelle di John William Waterhouse, autore predestinato dal suo stesso nome a trattare questo soggetto, che infatti ne dipinse più d’una. In quella più famosa, le ninfe guardano il giovane estatiche, incantate più che prese dal desiderio, in un clima sospeso, mentre quella più vicina più che afferrarlo, lo invita, come con una carezza, che anche un'altra sta abbozzando.

Il dipinto ha un suo lato di misteriosa e delicata poesia, ma in genere le altre opere ottocentesche, che pure intendono rappresentare il travolgimento dei sensi, la sola passione che lasciano trasparire è quella pallida e voyeuristica dello spettatore (prevalentemente maschio) del XIX secolo, in particolare anglosassone. Che è tutto dire, se mi si concede la licenza.

 
 

La storia narrata è semplice e con poche varianti da un autore all’altro. Figlio di Tiodamante e della ninfa Menodice (come dire che le ninfe sono all’inizio e alla fine del suo percorso, inscritte nel suo destino), Ila viene rapito ancora giovinetto da Ercole, invaghitosi di lui, e condotto come scudiero (come eromenos: trascuro il possibile risvolto omosessuale del tema e del quadro, peraltro abbastanza riconoscibile e non osteggiato, sembra, nella corte medicea del tempo) quando decide di partecipare alla spedizione degli Argonauti. Durante una sosta in Misia però, mentre Ercole va a cercare un tronco adatto a sostituire un remo rotto, Ila viene mandato alla ricerca di acqua dolce con una brocca. Trovata una fonte, o uno stagno, in un luogo appartato, mentre si china per attingere l’acqua con la sua brocca, viene notato dalle naiadi che lo abitano, che se ne innamorano e seduta stante fanno a gara per accaparrarselo.

Le ninfe, come è noto, oscillano tra gli estremi di una pudicizia rigorosa, specie quando sono al seguito di qualche dea che ha fatto della verginità, e in genere dell’inviolabilità persino allo sguardo, il proprio vessillo, e quello di una natura molto incline all’accoppiamento. Di solito la loro lascivia non va troppo per il sottile e si accontenta di esseri non proprio attraenti ma dotati di costante disponibilità, e attributi e vigore non indifferenti, come i satiri per esempio, gente peraltro gioiosa e festaiola, ma la loro propensione diventa attrazione irresistibile quando incontrano qualche esemplare umano di spiccata bellezza: pastori, contadini, marinai, guerrieri in un momento di riposo, viaggiatori smarriti e così via, come appunto Ila. I quali però, se ne sono attratti e tendono a cedere volentieri alle loro lusinghe senza frapporre indugio, dappoiché l’impulso erotico non favorisce la riflessione, e anzi meno è presente e più ne trae giovamento, le temono anche, essendo il loro abbraccio spesso mortale, anche se alcuni si dice accedano a qualche forma di immortalità, cosa peraltro leggendaria, improbabile, dal momento che non sono immortali nemmeno quelle che dovrebbero concederla. Di coloro che hanno goduto delle loro attenzioni pochi sono tornati infatti, e forse nessuno. Le versioni in merito divergono, più che altro per contenere le paure che le forze naturali scatenano sempre, per offrire consolazione. La seduzione, l’impero dei sensi, l’abbandono alla passione che esse inducono, sono sempre pericolosi. Sempre mortali, in fondo. Del resto cosa non lo è?

Quando Ila si china sull’acqua per attingerla con il suo vaso, viene visto dalle naiadi di quello stagno che se ne innamorano. È sempre dall’acqua che viene l’innamoramento, ma stavolta, all’opposto di Narciso per la propria immagine che vede riflessa sulla superficie scambiandola per quella di qualcuno che vi è immerso e ricambia il suo sguardo, a esserne preda sono le abitanti delle sue profondità.

Le naiadi, dunque, vedono Ida, emergono dalle acque per impadronirsene e lo trascinano nelle acque profonde. Dopo di che di lui non si saprà più niente, per la disperazione di Ercole, che lo cercherà invano disinteressandosi dei compagni che partiranno senza di lui.

Il quadro di Furini rappresenta il momento in cui il povero ragazzo viene avvinghiato da due di queste bellissime creature che se lo contendono e lo stanno trascinando in acqua, mentre altre indugiano a guardare in attesa forse di subentrare e un paio se ne stanno più in disparte malinconiche per la forzata rinuncia.

 


Il giovane cerca di divincolarsi, e mentre con gli occhi guarda la ninfa che si allunga per afferrarlo alle spalle, con la mano destra tenta di liberarsi dal braccio di quella che l’ha già avvinghiato, e con la sinistra, in un dettaglio splendido che quasi non si nota, ne allontana la testa che forse vorrebbe baciarlo. Lo fa quasi con delicatezza, come se non volesse farle del male, come se qualcosa in lui volesse cedere per quanto un timore nascosto, l’inesperienza e il sospetto di una minaccia sconosciuta e quindi terribile lo spinga a resistere e scappare.


L’ambientazione notturna, il cielo scuro e nuvoloso, la quasi totale assenza di scenografia vegetale, se non per qualche cespuglio o pianta acquatica, favorisce la concentrazione sulla scena che ne esalta tutta la sensualità e insieme crudeltà, un’onda di carne in molle danza rapinosa, con il suo lato sacrificale, non esibito, ma incombente, da cui il protagonista, la vittima, che ne ha il presentimento, vorrebbe essere esentato.

Sull’attrazione prevale il turbamento, lo sgomento quasi, sia di chi ha dipinto, si direbbe, sia di chi ora osserva il dipinto. Il quale all’inizio è attratto dalla voluttuosità del soggetto, da un naturale impulso voyeuristico, di sana lussuria, ma presto, come Ila, avverte un fondo di timore, inquietante, che viene a turbare le acque di un erotismo mai tranquillo, di sensi mai in pace. Quasi che attorno al giovane fossero convocate l’insieme delle forze che usano la voce suadente del piacere in favore della morte, che ammanta l’attrazione per la morte, disdicevole, inconfessabile, con la lusinga dei sensi. Sinuosa, nascosta, lontana, ma che tutto avvolge e trascina in sé con dolcezza irresistibile. Non solo la tentazione del credente (come era Furini, che a trent’anni, e non solo per motivi di sussistenza, si fa prete), la tentazione come morte, ma anche la tentazione della morte, la seduzione dell’inorganico che prende vita nelle ninfe, della divinità della materia, dell’aria, dei monti, dell’acqua; ma anche qualcos’altro per il giovane Ila, che però è in fondo lo stesso, anche se lui si ritrae: l’uscita dalla giovinezza, l’ingresso nel tempo irreversibile, della perdita dell’innocenza, della maturità, della vecchiaia, che è poi ancora quello della morte, della sua consapevolezza e accettazione, volente o nolente, la caduta fuori dell’illusione dell’immobilità, dell’eterna sospensione fuori dal tempo della perfezione che egli incarna, perché ancora incorrotto, intatto.

Per quanto intatto egli non sia, se non nella sua illusione, in quanto eromenos di Ercole, che comunque lo proietta, finché la relazione dura, finché è sotto la tutela (qui alquanto possessiva e passionale, più che formativa o educativa) del semidio, in un’età sottratta al mutamento e al tempo. Ma qui Ila si è allontanato da Ercole, sia pure per andare a cercare dell’acqua per lui. In un certo senso questo potrebbe significare che la sua formazione è terminata. Forse nessuno, né lui né Ercole, ne è ancora consapevole, ma il destino sì. E la danza è lui che la conduce. Ila entra nella selva alla ricerca dell’acqua, della vita, e la trova. Ma insieme trova anche altro. Lo stesso, a ben guardare nelle sue trasparenze. L’acqua, la morte.

 


 

 


25/05/23

Invece niente

 

Ho questo perverso pudore (ma perverso è dire troppo) di parlare sempre di me, dice quasi arrossendo (o è orgoglio?). Di fare sembiante di non parlare mai d'altro, o di parlarne riconducendolo (riducendolo) a me. Di parlare sempre d'altro rispetto a ciò che invece dovrei dire. A ciò che dovrebbe essere detto. E di dire tutto direttamente (come sembra), tutto schiacciato lì, come se non ci fossero altri modi. Altre vie. Altri sguardi.

E invece...

Invece niente.

24/05/23

Accarezzo i petali

 

 

Mentre passeggiavo per il quartiere dopo cena, ho visto due cespugli di rose sporgere da una recinzione. Con il gesto automatico che di solito riservo alle foglie, ho staccato alcuni petali e li ho accarezzati con i polpastrelli. L'aria era asciutta, i polpastrelli sensibili, i petali lisci e morbidi, freschi. Erano sottili ma resistenti allo sfregamento: si incurvavano senza rompersi né restare piegati, elastici. Molto piacevole. Nell'eseguire queste losche operazioni, sono passato davanti a un glicine con alcuni grappoli residui nascosti tra le foglie: mi è venuta voglia di fare un confronto e ho strappato qualche petalo anche da esso. Non c'era molta differenza con le rose, a parte che i petali erano più piccoli e un po' più sottili, e quindi meno adatti alla palpazione delle mie dita grossolane. Li ho annusati senza sentire niente; ho ripetuto l'operazione con i petali di rosa che avevo conservato nella sinistra, con l'identico risultato. Forse ne avevo abusato al tatto, li avevo strizzati e spremuti troppo e non era rimasto nulla per l'olfatto. Senza gettarli, ho annusato i polpastrelli: mi è parso di sentire qualcosa, ma forse era solo suggestione, effetto della voglia di sentire. Al successivo cespuglio ho strappato qualche nuovo petalo, e prima di sciuparlo l'ho annusato: risultati scarsi. Forse i petali non sono profumati, o lo sono solo quelli vicini ai pistilli e agli stami che ne vengono un po' impregnati, mentre quelli periferici non godono di questo beneficio, o lo perdono subito: meno protetti, disperdono i residui di profumo per la continua aggressione dell’aria. O forse è solo generosità. La periferia è sempre la prima a subire gli effetti negativi e l'ultima a godere di quelli positivi. (Ma non sempre. Mi sa che in qualche modo, da qualche parte e da qualche tempo, qualcosa è già cambiato. Alla fine del medioevo il cambiamento è partito da lì. Per dire...) Poi non ho più incontrato rose per un po', ma in compenso mi sono dedicato a tutti i cespugli e le piante che sporgevano sul marciapiede, perché ormai mi aveva preso la smania della collezione e del confronto. In cuffia avevo una musica soffice, come i petali, e la testa, una volta tanto, era leggera come loro, o forse per merito loro. E' lo stesso. Ho incontrato oleandri (quelli che ho preferito alla fine, insieme alle rose); ortensie, dai petali leggermente rugosi ma troppo piccoli per un giudizio ponderato (allora li ho strappati a manciate e li ho palpati, e giudicati, all’ingrosso); gelsomini: ingiudicabili perché troppo piccoli ma i preferiti per il profumo; margherite giganti, di morbida seta, con rugosità delicate, quasi impercettibili al tatto; campanule (convolvoli) di vario tipo: viola, lisce all'interno ma venate fuori; e arancioni, dai petali rugosi ma carnosi, morbidi. Poiché ero uscito senza biro e taccuino, mi sono messo i petali nel taschino, poi ho strappato fiori interi, per ricordarmi.

Li ho tenuti tra le dita fino a casa con la delicatezza e l'impaccio di un neopapà. Qui li ho mostrati a Angela, chiedendole se sapeva il loro nome. Lei li ha guardati, e senza rispondermi li ha subito disposti in un portauovo e me l'ha messo sul tavolo, accanto al pc. 

 

Opera di Amedeo Martegani, primi anni '90. Sul muro di casa mia

22/05/23

Alla canna del gas


Con questi scritterelli mi sto riducendo alla canna del gas. O a quella fumaria.
La canna fumaria che ricordo con maggiore intensità è quella che fuoriusciva dalla stufa che riscaldava il locale principale della prima vera officina di mio papà. D'inverno, il pomeriggio, quando cominciava a fare buio, scendevo in officina (noi abitavamo al piano rialzato della palazzina a due piani adiacente) e con i miei fumetti o un libro di avventure, mi sedevo lì accanto a leggere. C'era l'odore di acqua chimica, di limatura di ferro e di segatura, i macchinari producevano un ronzio che pian piano mi entrava sottopelle e mi faceva trasalire, e con la loro monotonia mi isolavano dal mondo intero, e io, allora, da bambino ipercinetico, mi bloccavo una specie di morbida estasi e leggevo.
 

Sì, se sono arrivato a scrivere queste cose, sono proprio alla canna del gas.
Un'altra che ricordo era nella cucina dei miei nonni paterni, qualche anno prima, con la stufa che si apriva per metterci la legna e un piccolo vano per tenere calde le vivande. Quando era prossima a spegnersi, mi piaceva abbassare l'usciolo, e infilarci i piedini a scaldare. E' una consuetudine che mi è rimasta per molto tempo, fino a pochi anni fa: rivolgere la sedia o la poltroncina e appoggiare i piedi sopra il termosifone, con la lampada snodabile alle spalle diretta verso la pagina aperta. Però è un altro tipo di caldo, inodore, molto meno buono.
Ne deduco, ora, che ho sempre avuto la tendenza ad avere i piedi freddi e quindi che la mia circolazione ha sempre funzionato male. Potrei continuare così: sono parecchie le cose in me che circolano male. Dopo magari lo faccio, tanto per vedere dove va anche questo treno.
Magari un'altra volta. Prima una precisazione però: io mica ho i piedi sempre freddi. Perché diavolo mi sto calunniando da solo? Eh eh, suscito un po' di empatia e di compassione, e intanto mi tiro vicino qualche lettore, lo abbraccio e mi strofino. Furbissimo!
In realtà scrivo tutte queste cose per non pensare ad altro. O per non pensare e basta. Mi alleggerisco: sì, come una pisciatina al momento opportuno. L'umore cambia. Lo so: in fondo mi disprezzo per queste trovatine; non era questo che mi aspettavo da me, ma intanto che mi concentro su una parola dopo l'altra, va abbastanza bene. Dimenticandomi di me, anche quando di me parlo, mi sopporto di più. Un risultato non da poco.
E intanto il proiettile fila, non rettilineo, angolare; deviato, ma fila lo stesso, imprevedibile. Dove, lo scopro man mano. Anche adesso ho la stufetta ad aria accesa sotto il tavolo. Piedi caldi! Ora è diverso. Invecchio e la circolazione fatica a raggiungere le estremità (fatica ma ci arriva), ma soprattutto la tengo accesa perché, dopo la sigaretta, devo far uscire il fumo dallo studio, che ha una portafinestra che dà su un balconcino, e l'aere maligno si insinua sempre dal basso a gelarmi i piedi.
L'espressione aere maligno mai e poi mai avrei pensato di usarla. E invece eccotela qui! I miei ossequi alla signora.
(Se continuerò con queste pseudoprose, potrei chiamarle "scritti alla canna del gas"; anche perché dovrebbe essere alla canna del gas anche uno a cui interessassero e che li leggesse con il po' di gusto che ci metto io a scriverle. Ma anche "Treni e altri proiettili che attraversano la testa" potrebbe andare bene: in fondo l'idea è la stessa.)
(Avanti! A volte non riesco a capire se sono più gli idioti o i disperati, e in quale categoria rientro io. Sempre che i primi non siano che dei disperati così assoluti, irrimediabili, da non rendersene neppure conto.
O che la disperazione non sia che una forma di idiozia. La peggiore magari.)