Uscito nella collana di ebook prodotta da Doppiozero,
"Figura di schiena" è un lungo saggio di Luigi Grazioli che
parte dalla fascinazione per una celebre opera del pittore olandese Jan Vermeer,
"L’arte della pittura" (1666), nota anche come "Allegoria della
pittura", o "Atelier del pittore", per compiere un originale e,
in larga parte, inedito periplo della presenza di figure di schiena nella
pittura occidentale dal Trecento al Seicento.
Di spalle è infatti raffigurato il pittore al centro
del dipinto di Vermeer e questa, lungi dall’essere una singolarità come di
solito è stata etichettata, costituisce per Grazioli il punto di partenza per
un’interrogazione sul senso della rappresentazione che spazia attraverso le
trame della semiotica del linguaggio visivo, dell’iconografia e della teoria
estetica.
I limiti cronologici fissati corrispondono a quella che per Grazioli è una parabola di comparsa, specializzazione e risignificazione della figura di schiena.
I limiti cronologici fissati corrispondono a quella che per Grazioli è una parabola di comparsa, specializzazione e risignificazione della figura di schiena.
Rarissima fino al Medioevo, e destinata a comparse
occasionali ai bordi della scena principale, la figura di schiena, quando
appare, è attribuita a una persona con una funzione sociale o mestiere umile,
secondario se non spregevole. Oppure, come nel disegno dell’Hortus
Deliciarum in un manoscritto del XII raffigurante la Ruota della
Fortuna, è adoperata per chi precipita e non ha diritto a una
raffigurazione frontale o del volto, corpo trascinato dalla mala sorte. Di
spalle troviamo la figura del boia che decapita Santa Caterina nel panello di
destra del polittico con Madonna e Santi (1354) di Giovanni da Milano, ora alla
Galleria comunale di Prato, come di spalle troviamo i soldati ai piedi delle
Crocefissioni, in specie Longino, quello che avrebbe trafitto il costato di
Cristo con una lancia, ma anche i pastori addormentati nelle varie versioni del
Sogno di Costantino e nelle Risurrezioni: personaggi abietti,
violenti, o riottosi al proprio dovere, un’umanità non meritevole di una
raffigurazione frontale, ma relegata a darci le spalle sulle quali lo
spettatore può addossare la vergogna, il disprezzo, la condanna, il senso di
morte – poiché un corpo di spalle, privo dell’espressività che noi siamo
abituati a leggere nel volto, è di fatto un corpo affine a quello morto, che ci
rimanda a un’idea di morte – come lascia immaginare la scelta di Pisanello
di raffigurare gli impiccati di schiena nel celebre affresco di San Giorgio
e la principessa, e nei relativi disegni preparatori. Anche quando
quantitativamente le figure di spalle aumentano, ossia nella pittura del
Quattrocento, e riempiono spazi che non sono solo quelli della colpa e della
vergogna. Come, ad esempio, nel San Sebastiano di Antonello da Messina
di Dresda: le due figure intente a una conversazione, sulla destra e tra i due
archi, fungono da distrazione, non essendo coinvolte direttamente con la scena
principale, e in una qualche misura reindirizzano il nostro sguardo, come un
contraltare, proprio a quella, che in questo caso è il martirio del santo. La
tipologia annovera però anche figure con una valenza non così negativa: si
tratta soprattutto di figure di Marie e Maddalene piangenti, discendenti da
quelle giottesche agli Scrovegni e dal Masaccio della Crocefissione di
Capodimonte. Qui la figura di spalle ha una sua espressività legata al dolore
che rappresenta, o meglio indica – e forse proprio perché il dolore, come
fatto individualmente sentito, non si lascia mai del tutto rappresentare, la
figura di schiena se ne addossa letteralmente il peso: ciò che non vediamo, ma
sentiamo per negazione del volto.
Secondo la mappa rintracciata da Grazioli il vero discrimine nella rappresentazione della figura di schiena si riscontra nel paragone con la pittura fiamminga, dove immagini di spalle sono più frequenti e assolvono una funzione diversa. Come ad esempio nella figura di cavaliere di spalle della Preghiera di un principe sulla spiaggia, del distrutto Libro di ore della Biblioteca Nazionale di Torino realizzato nel 1420 da Jan Van Eyck, dove lo sguardo che si nega allo spettatore offrendogli le terga, viene assorbito dal paesaggio. Qui, nota lo studioso, la connotazione negativa della figura di schiena viene piegata a una nuova funzione: essa vede ciò che noi non vediamo, negandosi indica che c’è una porzione di visibile che ci è preclusa e che lei assorbe per noi. Gli esempi nella pittura olandese abbondano e la casistica si complica. Con una traslazione semantica che sarebbe piaciuta a Meyer Shapiro, Grazioli argomenta che la figura di spalle come viene impiegata nella pittura fiamminga è sempre ‘io’, negazione di un individualità specifica, non mostra il volto e dunque invito ad occuparne il posto, a immaginarne il ruolo, i sentimenti, le reazioni. Mentre le figure di spalle nella pittura italiana del Cinquecento aumentano di numero, ma non cambiano di segno, rimanendo appannaggio di malfattori, criminali e violenti, nella pittura fiamminga sono persone comuni, intente a occupazioni quotidiane, a volgerci le spalle.
Gli studi di Victor Stoichita, L’invenzione del quadro. Arte e artefici nella pittura europea (ed. or. 1993, trad. it. 1998) e il saggio di Tzvetan Todorov, Eloge du quotidien, (1993) sono le coordinate entro le quali Grazioli inserisce l’attenzione e la ricorrenza significativa di figure di spalle nell’ambito dell’estetica olandese che si sviluppa fra Cinquecento e Seicento: il fulcro è la prosa degli esseri anonimi, tutti individui degni di osservazione, in una società crescentemente borghese. Non il mito, non i Santi, non la Storia, ma gli individui con le loro occupazioni private che assurgono a significato, a portatori di senso, con un’emergenza di realismo straordinaria, che per esempio in letteratura si manifesterà solo un secolo e mezzo più tardi.
In tale contesto, molto lontano dalla precettistica albertiana circa la gerarchia prospettica del visibile, quanto dalla rigida suddivisione in generi della pittura italiana, la figura di spalle, che incontriamo così di frequente in pittori come Gerard Ter Borch, introduce a un universo privato, in cui l’intimità, inconoscibile per definizione, è tuttavia significata proprio da chi ci preclude lo sguardo. Ci portiamo dunque in prossimità del dipinto di Vermeer da cui era partita la riflessione di Grazioli.
Il pittore raffigura se
stesso di spalle, come a ribadire un annullamento nel quadro, nella propria
arte, nell’atto stesso del dipingere – che è rappresentazione di
un’allegoria – ma si raffigura anche in panni teatrali, di un altro tempo,
consapevole così della messa in scena che ogni rappresentazione pittorica
assolve. E cosa dipinge? La musa della Storia, in un interno dove quanto più la
luce ci dice che è tutto reale, tutto accaduto, palpabile, e visibile, tanto
più il corpo di spalle del pittore ci avverte del carattere fittizio di tutta
l’arte, del margine inconoscibile e invisibile che ogni realtà rivelata e
dipinta porta con sé. Così come la luce ha bisogno di ombra per rivelarsi, la
schiena del pittore è quella che Shakespeare avrebbe definito ‘la nera schiena
del tempo’.
Ha studiato alla Scuola Normale
Superiore di Pisa, laureandosi in storia dell'arte; ha poi svolto un dottorato
di ricerca a Ca' Foscari, Venezia. Ha lavorato alla Fondazione Federico Zeri di
Bologna, occupandosi di catalogazione fotografica. Collabora con vari giornali
e blog culturali. Con Einaudi Stile libero ha pubblicato due romanzi:
Violazione (2012) e L'amore normale (2014).
Questa recensione è uscita il 24 luglio 2014 sul sito La Ricerca delle edizioni Loescher: http://www.laricerca.loescher.it/arte-e-musica/932-figura-di-schiena.html
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