La circostanza che le città distrutte furono due, mentre della Bomba si
parla solo, e per antonomasia, al singolare, col solo nome di Hiroshima che
ritorna, nel ricordo e come riferimento indelebile, significa forse che
nient’altro che l’inizio conta, la prima volta, il fatto che un momento, e una
decisione, inaugurale ci sia stato?
Ancora più terribile della prima volta è la seconda, la ripetizione che
sola di Hiroshima ha fatto una prima volta, l’apertura di una serie e non un
errore isolato (come quegli azzardi biologici, i mostri, che sono sempre unici
e infecondi, perché se avessero séguito non sarebbero più tali e la loro
mostruosità sarebbe invece assorbita, dimenticata e poi dopo molto tempo
ricercata con nostalgia, nella normalità di una nuova specie); ed è per questo
che di Nagasaki si tace, o che essa non appare se non come un’appendice si
direbbe vuota, una desinenza duale di cui si è conservato il suono ma del cui
significato si è persa la memoria.
Se Hiroshima – ridotta alla
puntualità di un inizio circoscritto, e dunque tutto sommato asportabile
proprio mediante il suo innalzamento all’abietta dignità di evento assoluto, da
ripetizione che in realtà anch’essa già era –, è la memoria che mentre condanna
si assolve, Nagasaki è, della condanna, il sigillo definitivo, che quindi si
deve dimenticare. Col dopo si cancella anche il prima, e alla fine non resta
più niente.
1990 ca.
(La foto di Yosuke Yamahata)
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