La
franchezza è la prima virtù di un defunto
Machado
de Assis, Memorie postume di Brás Cubas
Michel
Houellebecq ha sempre giocato sullo scandalo, salvo a volte inciampare nella
pietra che lui stesso ha posato, sia sul piano personale delle ripercussioni
che le sue prese di posizione hanno provocato nella sua vita privata, sia nella
ricezione delle opere. Riscontri delle vendite a parte. Sottomissione non ha fatto eccezione; semmai ha accentuato gli effetti.
Certo questo è stato causato anche da tragici eventi imprevisti, almeno nei
tempi e nei modi, ma non certo imprevedibili in assoluto, di cui lo scrittore
non ha nessunissima colpa. Sta di fatto che la coincidenza ha proiettato sull'argomento
del libro una luce diversa da quella preventivata, e che le letture e il
dibattito si siano spostati sull'asse socio-politico, lasciando in secondo
piano, o addirittura oscurando tutto il resto.
Se
è vero infatti che la vicende narrate sono ambientate in un prossimo futuro che
vede un cambiamento di rotta della politica e della società francese sotto la
guida di un visionario leader islamico moderato, con tutto ciò che ne deriva in
merito all'interpretazione del presente transalpino e per estensione
dell'Europa occidentale, è altresì vero che anche Sottomissione, come in genere tutti i romanzi di Houellebecq, è
incentrato su altri temi, esistenziali e persino "metafisici", e
presenta una struttura di fondo di stampo archetipico. Il libro narra infatti
la (solita) storia di una crisi, personale e storica, che prelude a un
cambiamento che pur profilandosi come negativo poi si rivelerà non così gramo.
È la storia di una crisi sociale e religiosa,
e di una tentazione, con il leader islamico Ben Abbes e il rettore della
Sorbona Rediger nel ruolo dei tentatori suadenti e ragionevoli rispettivamente
di parte della società francese e del protagonista, che già dal nome François
ne rappresenta in qualche modo il cittadino tipico (l'uomo normalissimo che
Houellebecq afferma essere il protagonista di tutte la sue opere, a lui tanto
simile e in realtà replica di un “io sperimentale”, per dirla con Kundera,
attraverso le cui ricorrenti caratteristiche filtrare le differenti indagini
sulla realtà che ogni romanzo affronta). La posta in gioco sono il benessere,
la sicurezza e la felicità; la rinuncia, quella all'identità e alla libertà. Il
sospetto è che la tentazione, come capita quasi sempre, non sia poi veramente tale,
cioè un'irruzione imprevista e un turbamento che sconvolge, ma solo l'esito di
una parabola, la conclusione logica di un cambiamento già ampiamente in atto.
Tuttavia il fatto che l'agente del cambiamento sia un politico islamico e il
narratore-protagonista uno studioso di Joris-Karl Huysmans, uno scrittore che dopo un passato dissoluto, sublimato nel
suo capolavoro À
rebours, si è clamorosamente convertito al cattolicesimo (come vuole
la regola, anche letteraria, dalle eroine di Defoe in poi), e che Houellebecq,
oltre alle note posizioni anti-islamiche qui apparentemente (o forse veramente)
ribaltate di segno, si sia sempre mostrato radicalmente critico verso l'attuale
società occidentale che sarebbe prossima al suicidio, o già suicidata di fatto
per aver rinunciato e anzi volontariamente distrutto i capisaldi su cui
poggiava, ha pesantemente condizionato le interpretazioni del libro in
direzione socio-politica più che letteraria con un eccesso di parzialità, se
non di scorrettezza.
La
vicenda narrata è ambientata nell’immediato futuro, secondo una costante comune
ad altri libri di Houellebecq: dalla Francia tornata rurale, deindustrializzata
ma più ancora disneyzzata, meta turistica da cartolina, ripopolata da stranieri
extraeuropei che hanno acquistato case e interi villaggi e ora curano con amore
le sue regioni tradizionali di La
carta e il territorio; all'epoca
in l’uomo sarà completamente modificato dalla biologia molecolare di Le
particelle elementari; alla
presunta imminente “federazione mondiale dominata dagli Stati uniti”, con “la
prospettiva di essere dominati da una massa di cretini” di Lanzarote, che resta uno dei suoi lavori migliori; al mondo popolato
di cloni di La
possibilità di un’isola.
Questa
tendenza a proporre scenari futuri, non sempre cupi o ironici a dire il vero, è
una diretta conseguenza dell’impianto fortemente sociologico della sua visione,
oltre che della convinzione, encomiabile, che un libro o influisce sulla
realtà, o non è niente. La profezia è quindi l’orizzonte naturale di queste
premesse, la loro logica deriva, prima che un vizio del loro autore, che
sarebbe in fondo innocuo come quello di chi si diletta a far previsioni su
questo o quello. E del resto non vale per se stessa, ma è solo un modo,
estremizzato, per leggere il presente, per portarne alla superficie con maggior
efficacia i meccanismi e le deficienze. Se andiamo a cercare negli scrittori
previsioni o, peggio, rassicurazioni, sia pure negative, siamo fritti. Anche
quando a pretenderlo è lo scrittore stesso.
Indubbiamente
però Houellebecq qualcosa da dire ce l’ha: più o meno su tutto. E non si fa
pregare a comunicarlo. I suoi personaggi si possono tacciare di vari difetti ma non di
reticenza, e infatti raramente si esimono dall’esternare ciò che pensano su
questo e quello, o dal diffondersi in analisi, spesso notevoli per acume e
arguzia, del mondo circostante e delle sue prospettive, e soprattutto delle proprie
esistenze e attività, che interessantissime sempre non sono, invece. È la vita.
Gli
elementi fondamentali da cui origina il suo discorso e il nucleo di Sottomissione si
trovano già nei tre
libri con cui ha esordito nel 1991, simultaneamente in poesia narrativa e
saggistica: in particolare la depressione in Estensione
del dominio della lotta e il
connesso rifiuto del mondo e della vita, esplicito anche titolo stesso della monografia su H.P. Lovecraft, e soprattutto il postulato potremmo dire fondativo enunciato
con chiarezza nel
testo di apertura di Restare vivi, non per nulla
intitolato “Metodo”: “se il mondo è composto di sofferenza, questo accade perché
è, essenzialmente, libero. La sofferenza è la conseguenza inevitabile del
libero gioco delle parti del sistema. Dovete saperlo, e dirlo”. Ne consegue che,
pur di evitare o ridurre la sofferenza, i più sono disposti a rinunciare alla
libertà, in parte o in toto. Come si può facilmente dedurre, non è solo
questione di una capitolazione individuale, ma di un problema collettivo: lo dimostrano
i dibattiti degli ultimi anni su libertà e/o sicurezza, e, dopo i recenti fatti,
su rispetto, capacità di regolamentazione e autocensura responsabile, quanto a
sé e per gli altri.
Quasi
tutte le storie narrate da Houellebecq, nient’affatto minimalista (ma è anche
la misura del suo impegno oltre che della sua ambizione) nonostante siano
sempre incentrate su parabole individuali dai tratti costanti, vertono
nientemeno che sul destino del mondo e dell’uomo; come se, alla lunga, già non fosse
noto: una catastrofe dopo l’altra fino all’estinzione definitiva, che vorrà ben
arrivare un giorno o l’altro. Nel far questo però centrano con infallibile
precisione alcuni dei nodi più rilevanti e aggrovigliati della nostra società e
cercano di districarli (riduzione degli individui a particelle elementari, cinismo,
anaffettività, solitudine, turismo sessuale, terrorismo, mercificazione,
ennesimo tramonto dell’occidente, crisi dei legami sociali, clonazione, ritorno
delle religioni o di loro surrogati). In Sottomissione
lo scrittore circoscrive il terreno e focalizza un bersaglio di portata
apparentemente minore, anche se la diagnosi, come non è difficile ipotizzare,
rimane la stessa: stavolta l’estinzione non riguarda più la specie, e nemmeno l’uomo
occidentale, ma più modestamente la Francia, e al suo seguito, implicita ma scontata,
anche quella degli staterelli minori del sud dell’Europa che le gravitano
attorno (almeno nell’idea dei francesi), pianeti o satelliti che siano, che
saranno però redenti, è questa la novità, dall’istituzione di nuovo impero o
organismo sovranazionale che unirà tutto il Mediterraneo, che così tornerà ad
avere un ruolo di capitale importanza, politica ma anche socio-culturale,
civilizzatrice!, nel contesto dei futuri rivolgimenti mondiali. Il sogno di
Alessandro, e poi soprattutto della Roma augustea, e ancora di Napoleone (di
Hitler no, però, sia chiaro: è contro l’avanzata dell’estrema destra e dei
movimenti identitari, infatti, che si forma l’alleanza politica inedita che
porterà al cambiamento). Un sogno concepito e realizzato da chi? Da un leader
islamico (moderato; anzi: moderatissimo), ma pur sempre (o proprio perché)
francese, e che condivide molti dei valori fondamentali in cui si identifica la
civiltà transalpina, o occidentale (illuminismo a parte, la bestia nera di
Houellebecq, irredimibile e esiziale). O viceversa, detto forse meglio: sognato,
concepito, progettato e abilissimamente realizzato da un francese, sia pure
islamico (se no il cambiamento dove starebbe?), erede convinto di una tradizione
che non intende certo rigettare o cancellare, quanto piuttosto
subordinare/integrare, e in tal modo superare e innalzare, in una vera e
propria aufhebung (tedesca!) nel suo universalismo religioso, ragionevole se
non del tutto razionale, certo più del vecchio credo umanistico e liberistico, origine
e causa di tutti i disastri.
Se
le premesse culturali e politiche fanno riferimento a elementi macroscopici in buona
parte condivisibili, la loro generalizzazione e assolutizzazione nonché il modo
in cui vengono tra loro articolati sono ampiamente discutibili: lo sviluppo del
discorso storico-politico è ipotizzabile, certo, dal momento che Houellebecq lo
ha fatto, ma poco plausibile (percentuali delle votazioni, alleanze, reazioni
ai risultati); la transizione viene compressa in qualche scontro sullo sfondo
(poca roba e di rapido assorbimento) e per il resto trascurata; il rivolgimento
è tratteggiato in modo sbrigativo e sommario e la conclusione è a dir poco affrettata e schematica, al
limite del caricaturale (poche settimane e spariscono le minigonne – ma non i
negozi di lingerie sexy, perché la sera le mogli devono accogliere
sensualissime oltre che premurose gli stanchi capifamiglia; la Sorbona viene
comprata dagli arabi e i professori convertiti riccamente compensati senza che
sia poi richiesto loro chissà che tradimenti o distorsioni dei programmi; le
strutture economiche private e di stato sono smontate e ricostruite in modo funzionale
e con gran beneficio di quasi tutti ecc.). Come dire che o siamo in un
pressapochismo dilettantistico (quello delle grandi sintesi che tanto piacciono
a chi deve imbastire un articolo o una battuta sui social in quattro e quattr’otto)
o che, a dispetto delle apparenze e del cancan mediatico, per quanto
tragicamente potenziato dalle stragi recenti, i risvolti profetici non sono poi
così fondamentali. Ma se si toglie questo, si dirà, cosa resta del libro?
Facile: tutto il resto. Che non è poco.
Tutti
questi elementi hanno la credibilità che serve a portare avanti la trama, a
motivare le vicende e illustrare le esistenze del protagonista e di alcuni
comprimari fungendo da occasione di cambiamenti e da reagenti per far meglio
emergere la "vera" condizione loro e, se non di tutta la società, che
resta sullo sfondo, di certe classi e categorie (in questo libro i docenti
universitari, ridotti a opportunisti più o meno cinici, quando non a mentecatti
monomaniaci abbarbicati al loro orticello, alle miserabili piantine ai cui
stenti rami manco riescono a appendersi: ciò che sarà anche corretto, in qualche
misura, ma che equivarrebbe a sparare sulla croce rossa se il vero bersaglio non
fosse una cultura vista come cosa morta già da chi dovrebbe trasmetterla, e di
totale irrilevanza per chi ne dovrebbe essere il destinatario – non si dice il beneficiario, perché suonerebbe irrisorio).
La tecnica (il giochetto) è risaputa (l’ultimo
a parlarne, in modo brillante peraltro, è stato Walter
Siti): si prendono personaggi, luoghi, eventi e contesti con le loro belle
credenziali “reali”, con nomi, sigle e marchi, della cronaca e dell’uso, e li
si introduce in contesti di finzione che sembrano procedere dalle suddette
premesse con il maggior rigore possibile (secondo le procedure della scienza in
Houellebecq, che su di essa si è formato e ne condivide visione e metodi), onde
avvalorarne sviluppi conseguenze e proiezioni, rendendo plausibile anche la
distopia più abborracciata, o generica, con una logica che sembrerà inscalfibile
e, talvolta fino a lettura ultimata, poco o nulla discutibile. La sospensione
dell’incredulità già in atto durante la lettura fa il resto, accentuando l’effetto.
Ciò che viene narrato appare così veritiero (reale) dove non lo è, e meno
simbolico proprio laddove lo è di più. L’impressione di pertinenza e profondità
è accresciuta, assieme alla credibilità di ciò che viene detto o narrato,
proprio grazie alla diffusa tonalità quasi da
esposizione scientifica, come una fedele trascrizione di dati di osservazione
sperimentale, mentre la tensione, anche notevole, che presiede alla scrittura
di molti suoi libri resta sottesa, nascosta (non: stemperata) nel dettato che
adotta i modi della distanza razionale, del totale controllo, almeno nelle
ambizioni. Quanto più l’argomento si riscalda, tanto più la voce si fa ferma e
senza inflessioni emotive. È questo uno dei caratteri salienti di Houellebcq, a dire
il vero. E così, in quest’ultimo romanzo ancor più che nei precedenti, la
lettura procede senza intoppi dall’inizio alla fine. Sin troppo facile, vien da
pensare. Si legge talmente bene da indurre
in sospetto: una volta assorbite le premesse tutto fila liscio, come una elementare
dimostrazione matematica, o l’acqua su un leggero pendio, e non come un destino.
Come molti suoi confratelli
houellebecquiani, anche François, il narratore-protagonista di Sottomissione, vive solo, ha storie
andate a male alle spalle, genitori odiosi o indifferenti, una vita sociale
scarsa o nulla, comportamento sessuale e preferenze in linea con gli standard dello
nostro romanziere (e del maschio eterosessuale politicamente scorretto: cioè
“naturalmente”, inconfessabilmente ma poi manifestamente, egoista: e quindi
represso, scontento e feroce: contro se stesso in mancanza d’altro); mangia cibi
precotti, beve molto ma non si droga (a quello ci pensano i personaggi
secondari, semmai), odia la società, ovvero, se è in buone, non se ne occupa. “L’umanità
non mi interessava, anzi, mi disgustava, gli umani non li reputavo neanche
lontanamente miei fratelli”, dice, in un refrain che si può trovare in quasi
tutti i suoi libri, a scanso di equivoci. La cronaca lo lascia indifferente, e
più ancora la politica: al massimo segue i dibattiti pre-elettorali come puro
spettacolo, pareggiato solo dai mondiali di calcio. La sua cifra è sempre di
segno negativo: disdegno, disgusto, disprezzo, apatia, ecc. Cionondimeno
soffre. (O soffre per questo, se si preferisce: causa o conseguenza che sia;
probabilmente entrambe.)
Il suo tratto principale, come in quasi
tutti gli altri libri, è la depressione, la solitudine (su cui terminano in
modo esplicito vari capitoli), un senso di inutilità che condivide con tutti
gli specialisti del nulla che popolano la sua facoltà (letteratura) e quindi
per estensione con l’intera disciplina, se non con l’intera civiltà che di essi
se ne impipa o si serve solo ai propri fini, per lo più propagandistici (come
la Sorbona per i nuovi sponsor-padroni arabi: un fiore all'occhiello, qualcosa
che non importa in sé ma per significare o alludere ad altro, come quasi tutto).
Il posto di lavoro, se non prestigioso ben retribuito, e il piacere sessuale
garantito sono un surrogato, l’equivalente del panem et circenses: la distrazione,
il non pensare, il bisogno di una pacificazione che Huysmans e i frati dell'abbazia
visitata da François hanno cercato e forse trovato nella vita conventuale – ma
non lui –, e che la sottomissione, a ogni livello, in parte garantisce. Uno
guardo superficiale dovrebbe bastare a dimostrarlo: lo stereotipo e il contagio
mimetico non caratterizzano solo il cosiddetto incolto, il beota televisivo, l’uomo
davvero comune che comunque è sempre il primo e privilegiato destinatario di
tutto il campionario del peggio e delle privazioni, ma anche la miriade di
Charlie e compagnia bella che si trovano tanto bene a stare tutti insieme sotto
questo o quello slogan, facendo aggio, se è il caso, anche sulle tragedie,
oltre che sui trionfi (tutti innocui: sportivi): dove quello che conta non è
tanto la giustezza dell'occasione, come talvolta accade, ma lo stare uniti, il
farsi scudo e coraggio e consolazione reciprocamente. Il senso di identità. La
sua provvisoria figurina.
E certo sì, è vero che tutto ciò che è
solido si dissolve nell’aria ecc., ma poi a quanto sembra tende a ricompattarsi
in un altro modo; e ha un bell’ironizzare l’ateo o l’agnostico sulle religioni
oppio dei popoli, e denunciare i loro danni, la corruzione dei sacerdoti, dalla
base ai vertici, e il connubio con il potere mondano, sia che lo appoggino sia
che vogliano sostituirlo; però, quando uno si trova di fronte a questi
imponenti movimenti, a queste masse che si uniscono e fanno forza a vicenda
alla luce di un ’verbo’, che se ne infischiano dell’illuminismo o della
lucidità vera o presunta di chi esorta a farne a meno, e sono pronti a
travolgerli con tutti i mezzi (dall’assimilazione all’eliminazione con tutte le
sfumature intermedie), allora la voglia di sorridere passa e bisogna pensare e
fare altro. Non è così semplice, sembra dire lo scrittore, pretendere da chi fa
fatica a vivere, la fatica supplementare di trovare un senso e un sentimento di
appartenenza, così necessario anche a chi vuole distanziarsene, al di fuori
delle forme consolidate nel tempo e nelle culture, nelle religioni costituite o
in quelle non dichiarate, a volte persino a chi, come Houellebecq stesso (nonostante
recenti dichiarazioni facciano intravedere anche qui una specie di ravvedimento)
o il protagonista del romanzo, o anche chi qui scrive e forse chi qui legge,
non condivide questi bisogni, ma non potrà mai prescindere dalla fragilità e
dall’isolamento che in alcune circostanze, forse spesso se non proprio sempre, prova
dolorosamente su di sé. E allora ecco affacciarsi “l’idea sconvolgente e
semplice, mai espressa con tanta forza prima di allora, che il culmine della
società umana consista nella sottomissione più assoluta”.
Sottomissione è di queste cose che
parla. L’islam, che come è noto significa appunto sottomissione, conta meno: è
una scusa, acuta e furba (ma furba perché in parte reale, almeno nel sentimento
del buon europeo; ma anche nel senso della furbizia classica: dove c’è sempre
qualcuno o qualcosa che la ribalta in stupidità), ma avrebbe potuto essere
altro (nel progetto originale del romanzo era la conversione al cattolicesimo:
in pratica il ritorno delle religioni provocato dal fallimento della
secolarizzazione e dalla impossibilità per il cosiddetto uomo occidentale
contemporaneo di reggere le tensioni psichiche e emotive e la violenza reale e
potenziale instaurate dal dominio della lotta biologico-evolutiva e dal
capitalismo neoliberista che ha ormai pervaso ogni momento e aspetto dell’esistenza,
rendendola intollerabile ai più), come altro è per tutti ogni giorno,
praticamente ovunque. Nessuno escluso; nemmeno chi qui scrive. La forza del
romanzo, al di là dei suoi limiti, consiste anche, se non soprattutto in
questo. E deriva dalla capacità della sua scrittura di far apparire verosimile,
quasi scontata, l’evoluzione della vicenda personale, ma soprattutto degli
eventi storici e sociali una volta accettata la plausibilità delle premesse.
Tanto che Houellebecq, come già visto, non si cura nemmeno di seguirne le tappe
e meno ancora di affrontare il punto più difficile e delicato: quello del
passaggio (il montaggio, l’ellissi, la reticenza, l’implicito: tutto ciò che
interrompe e disarticola la continuità narrativa fanno anche questo bel
servizio). Autostrade deserte quando il protagonista se ne va da Parigi il
giorno delle votazioni, un paio di aree di servizio devastate, tre o quattro
morti, finché, quando torna in città qualche giorno dopo, tutto è già compiuto
e la routine più o meno tranquilla è ripresa come se niente fosse. Perché di
fatto tutto, o quasi, riprende sempre, presto o tardi, come se niente fosse.
Quello che è, è. Ci si adatta. Ci si sottomette. Si cerca di assicurarsi del
cibo, un riparo, qualche soddisfazione, principalmente la più elementare, il
sesso, nel modo migliore e più abbondante possibile. Quanto alla qualità: solo
per chi può. Per chi ci tiene di più. I più forti, o adatti, come dice la
selezione, nell’“estensione del dominio della lotta”. Gli altri, solo quanto
basta perché ci pensino, se ne facciano un cruccio magari, possibilmente non
radicale (ci sono i surrogati, per questo) e non pensino ad altro. Soprattutto non a se stessi. Soprattutto se si vuole
evitare quelle che ne sarebbero le logiche conseguenze: stress, demotivazione,
depressione, inedia (passività, no invece: quella fa comodo), notoriamente
dannosissime per la macchina sociale, se generalizzate (gli esempi sono sin
troppo facili da trovare). O meglio: soprattutto a se stessi, ma nei modi che la comune sottomissione consiglia e
esige. Tranquillità, sicurezza, speranza; un senso; una direzione. In fondo non
serve molto.
La vera desolazione (la ferocia forse)
del finale del libro, è che è vero.
Al
di là della banalizzazione e della tendenziosità che questa sintesi può
trasmettere, come del resto avviene per ogni semplificazione anche quando essa
è una delle procedure adottate esplicitamente dall’autore (“Per raggiungere lo
scopo decisamente filosofico che mi propongo (...) occorre sfrondare.
Semplificare. Sterminare uno alla volta dettagli infiniti. Ad aiutarmi ci sarà
il semplice gioco del movimento storico”, si legge già in Estensione), Sottomissione
è romanzo ricco di azioni, dialoghi e riflessioni, descrizioni di luoghi e
situazioni, distribuiti con grande equilibrio e dovizia. Houellebecq è uno
scrittore prodigo. La sua abilità di narratore (e sottolineo narratore anche quando
eventi e azioni sono ridotti all’osso e restano dietro le quinte invece di
essere raccontati direttamente) consiste nel non far percepire questa ricchezza
a discapito della fluidità della narrazione e dei dialoghi, nell’evitare di
marcare le salienze, di cui si avverte vagamente la consistenza solo dal senso
di densità che viene dalla lettura, anche se sul momento non si saprebbe
spiegarlo (ammesso che importi). E’ lo stile della dissimulazione nella massima
evidenza.
La
fluidità è data dall’apparente uniformità del tono, dalla temperatura quasi
costantemente fredda che pervade i suoi libri, soprattutto laddove la
tentazione del sussulto (emotivo, ironico, moralista...), e con essa quella
della blandizie e dell’esibizione di virtuosismo, è più allettante. Poco
narcisismo puntuale, insomma, a favore di un narcisismo diffuso, e tanto più
forte, che l’impercettibilità rende “naturale”. E sia pure: l’effetto, alla
lettura, è di sicuro impatto. Certo ci sono cadute, ma espungere qualche
espressione e generalizzare è solo malevolenza. La tenuta complessiva non è al
livello dei libri migliori ma è comunque buona, se non ottima.
Delle
sporgenze, pointes o altro, definizioni e osservazioni fulminanti, spesso ci si
accorge solo dopo, a cose fatte, o a una lettura ravvicinata, rallentando
volontariamente il corso che di suo va veloce. Allora la causticità, l’ironia,
e persino il sarcasmo a volte si danno a vedere.
Ma anche quando sporgono, l’espressione e il paragone
esasperati, estremisti, fanno parte della parte che recita il narratore
Houellebecq: sono una cifra stilistica, l’indice di un punto di vista, di una
scelta prospettica.
Anche in Sottomissione non mancano battute o allusioni non sempre felici (“già
solo la parola umanesimo mi metteva una leggera voglia di vomitare, ma forse
erano le focaccine, avevo esagerato pure con quelle; presi un altro bicchiere
di Meuersault per farmela passare”: dove, oltre alle focaccine, variante
ironica dell'immancabile madeleine proustiana – e va be’ –, c’è anche il
Meursault di Camus, da scolare fino in all’ubriacatura; ma non escluderei
anche, dato il contesto e certe predilezioni dell’autore, il Meurs saoul: muori
ubriaco, se solo fossi più spericolato); del resto non è facile tenere il
livello sempre alto, e in genere Houellebecq ci riesce, con quelle osservazioni
a latere, o incisi pungenti ma senza cambio di tono o ritmo, perfettamente
incastonate nella frase descrittiva o narrativa, più ancora che nelle
riflessioni o nei dialoghi dove uno invece se le aspetta, senza alterare la
planimetria e l’equilibrio della frase, come se vi facessero naturalmente
parte, mentre proprio lì l’intelligenza anche narrativa di Houellebecq si cela,
e si rivela, con maggior perizia. Il sarcasmo è esigente. Non tanto verso i
destinatari, che non sono controllabili: sono quello che sono e non dipendono
da esso; quanto verso colui stesso che lo fa.
Lo so che dire di uno scrittore che è
lucidissimo e molto intelligente può suonare anche come un’offesa (meno che se
dicessi il contrario, però), ma che ci posso fare: Houellebecq è proprio questa
l’idea che dà, fuori di ogni dubbio. E comunque io non la considero un’offesa.
Non varrebbe nemmeno la pena di fare queste osservazioni se lui stesso non
avesse sempre giocato, in modo palese o velato, come a nascondino, con la
propria immagine, recitando apertamente vari ruoli, a volte tanto provocatori e
ributtanti da renderlo persino simpatico, senza contare il suo talento. Sotto questo aspetto si inserisce a pieno titolo, e direi
con passo trionfante, nel glorioso solco della tradizione dei vecchi Léautaud e
Céline, lerci misantropi, ai quali non ha nulla da invidiare nemmeno quanto a
bruttezza, da lui coltivata, da sgamato abitante dell’era dei media, con la
squisita arte dell’abbrutimento volontario, assecondando con snobismo una certa
predisposizione, accentuata dall’età.
A
proposito di Meursault: l’eccesso di allusioni (non di allegorie), così come la
nominazione esplicita di personaggi pubblici, soprattutto politici in Sottomissione, il riferimento giornalistico
e a volte scandalistico a cose e eventi privati e pubblici, come a prendersi
vendette personali, e a solleticare la propensione alla malignità del lettore
(compiacere la meschinità funziona sempre), fanno sospettare che, come per ciò
che troppo brilla e viene messo in primissimo piano, la loro funzione
principale sia quella di nascondere. Cosa? Magari, approfittando della
consuetudine, e persino dell’automatismo al sospetto che l’apparentemente
smaliziato lettore occidentale ha ormai introiettato, proprio la superficie, la
lettera, così palesemente reazionaria (nel senso anche di emotivamente reattiva
al presente; irritata, allergica alla sua insopportabile banalità e stupidità,
specie se ammantata di cultura ecc.: il repertorio è noto). E forse allora sì,
viene spontaneo accostare Houellebecq a quei reazionari che, lamentando la
scomparsa delle illusioni e dei legami del mondo contemporaneo, di fatto
contribuiscono a conoscerne meglio la natura (sociale) e a dubitarne ancora di
più, cioè a dare una mano a smantellarle.
A rendere necessario più che con altri
scrittori il sospetto da parte del lettore è la tonalità prevalentemente
assertiva e descrittiva che viene attribuita alla voce narrante, come se si
limitasse a mostrare un dato di fatto, qualcosa di non problematico,
incontrovertibile (come se il fondo della desolazione favorisse l’oggettività;
o viceversa come se l’oggettività non fosse distinguibile dalla desolazione, la
lucidità dall’assoluto disincanto). Ma, essendo questo un romanzo e non un
saggio o un testo scientifico (e anche qui...), proprio l’aura di fatticità, la
serietà e l'impassibilità quasi minerale che sembrano emanare da ogni frase, si
traducono in indecidibilità, autorizzando, se non addirittura richiedendo, una
lettura ironica, cioè che vi intravede il contrario o qualcosa di molto diverso
da ciò che è enunciato. Io, in ogni caso, forse sbagliando, ho letto in questo
modo più di un passaggio, di questo come dei suoi libri precedenti, e persino,
in una certa misura, anche il senso complessivo (per chi non può fare a meno di
cercarne uno): forse a causa dell’implacabilità della prospettiva, se non della
diagnosi e dell’autore.
Ma certo questa è la deriva di chi è
cresciuto con un piede nel moderno (la scuola del sospetto) e con l’altro nel
postmoderno, in quella che Ricardo Piglia
chiama la “fiction della paranoia, basata sull’idea che la società sia
edificata su un complotto, e che a sua volta sia in atto anche un contro-complotto”;
mentre invece Houellebecq sembra pensare e agire (scrivere), in modo del tutto
opposto, come una ripresa del romanzo-saggio del modernismo (sul versante Musil
e non su quello Joyce) ma dopo il post-moderno, e dice tutto in
modo chiaro: le cose si svolgono sotto gli occhi di tutti, non c’è mistero,
solo una logica implacabile, giuste o errate, anzi: buone o cattive (perché il
male è sempre presente nei suoi libri, centrale), che esse siano: il fatto
indubitabile che la società occidentale, portando alle estreme conseguenze le
sue premesse umanistiche e capitalistiche, si sia ormai suicidata e viva in uno
stato di prolungata postmorte che abbisogna di un rinnovamento che
paradossalmente può venire solo da chi essa percepisce come altri e nemici. In Sottomissione l’islam. Qualcosa non
quadra.
Non è certo da narratore avveduto, come
Houellebecq è di sicuro, imprigionarsi
in tesi o teorie affermate in modo risoluto e tenute ferme come una parola d’ordine,
o di verità (anche se il rischio c’è, e lui non di rado ci marcia). Se nelle dichiarazioni
e interviste ne sbandiera questa o quest’altra versione, mi sembra soprattutto
una posa, una provocazione, mentre nei romanzi mantiene quasi sempre una forte
ambiguità che la sua scrittura senza orpelli, quasi ecfrastica, sia pure meno
di cose che di situazioni e contesti, reali e immaginari come se fossero reali,
accentua. Le opinioni e riflessioni più radicali sono espresse da personaggi a
loro volta ambigui o negativi (cioè i cui lati meno edificanti sono apertamente
mostrati e spesso ribaditi), e ancora più spesso da un narratore-personaggio
che gioca con la somiglianza con l’autore per confondere meglio le acque,
piuttosto che per renderle più cristalline, e risultano quindi di parte, a
volte smaccatamente, e di una tale meschinità, di un cinismo così
spudoratamente esibito (gente che abita metropoli, intellettuali, artisti, figure
popolari dei media, imprenditori, manager: navigati, allegramente depravati e
corrotti, con una bella propensione all’alcol e al sesso mercenario o come
forma e espressione e conferma di un potere; ma anche impiegati, quadri, gente
mediocre, affetta però da disincanto, stressata, tanto ossessivamente razionalista,
più che razionale, da aver bisogno dello stordimento ecc.) da rendere
improbabile una qualsivoglia adesione dell'autore, e del lettore, alle loro
analisi e conclusioni. Soprattutto perché chi è tanto abile a (ri)costruirle e
dar loro una certa coerenza e credibilità, in modo tanto lucido e distaccato, è
piuttosto difficile che vi aderisca con una qualsiasi forma di fede, sia pure
quella, potente, del risentimento, peraltro “necessario a ogni vera creazione
artistica” (come già detto in Estensione).
Sono quindi da prendere in modo critico, in particolare quando, grazie all’intelligenza
e all’efficacia con cui sono espresse, tendono a blandire le propensioni più
oscure del lettore, a portare in superficie i nostri lati meglio custoditi, spesso
celati persino a noi stessi, ma il cui rumore di fondo a volte avvertiamo, per subito
allontanarlo a causa del disagio che suscita, del potere di demolizione
interiore che, se non arginato, o anche rimosso, manifesta. Se abbandonarvisi
conduce all’orrore, meglio arginarle. Persino rimuoverle (le norme ci sono
anche per questo; a meno che, all'orrore, non siano esse a condurre). Meglio
conoscerle comunque. Sapere che ci sono e come sono. In
questo scrittori come Houellebecq sono fondamentali.
Nessun commento:
Posta un commento