Mi
piace Emmanuel Carrère, gli ho dedicato anche un piccolo ebook edito da
doppiozero, ma quando è uscito Il Regno e ho letto
alcune delle reazioni che ha suscitato in Francia, mi sono chiesto cosa diavolo
gli era venuto in mente. Un libro sulle origini del cristianesimo, Paolo di
Tarso e Luca, l'autore di uno dei Vangeli era proprio necessario? Reduce da
un'educazione cattolica che mi ha marchiato dall'asilo al liceo dai salesiani
passando per dieci anni di oratorio, mi sono detto che forse non era il caso di
tornare su cose che conosco piuttosto bene. Poi l'ho letto e, pensando anche a
un analogo disorientamento dei suoi lettori abituali, ho cercato di riformulare
alcune delle domande più frequenti sentite al suo proposito: che tipo di libro
è? è un romanzo o cos'altro? come è fatto? si
tratta davvero solo dell'ennesimo libro sul cristianesimo e sul conclamato
ritorno della religione di tanti movimenti identitari? vale la pena leggerlo? Poi,
nel tentare di rispondere, me ne sono nate altre.
****
"Le
leggi del Regno non sono, non sono mai, leggi morali. Sono leggi della vita,
leggi karmiche", afferma Emmanuel Carrère
nel suo ultimo libro; eppure non si sbaglierebbe di molto sostenendo che
il suo intento, non nuovissimo ma sempre attuale, è quello di vedere cosa si
può salvare del messaggio cristiano una volta constatata la sua eclisse forse
inarrestabile come religione nelle moderne società europee, e se in esso si
possono rinvenire dei principi utili anche per una morale laica non solo
individuale, come Carrère sembra pensare per se stesso, ma collettiva. Anche se,
a quanto pare, ogni tentativo di raggiungere qualcosa del genere si è finora
risolto o in un fallimento o nella sua, è il caso di usare questa parola,
conversione in una nuova forma di religione, con la sua sacralità, i suoi riti,
e i suoi pregiudizi e dogmatismi.
Carrère
torna alle origini del cristianesimo e alle figure che ne hanno favorito la
diffusione dopo la morte di Gesù, per raccontarle a un pubblico che sembra
ignorare ormai quasi tutto di quella che è stata la visione dominante della
civiltà occidentale, e per cercare di capire come possa credere ancora alle
storie inverosimili a proposito del suo fondatore un uomo moderno ormai
secolarizzato e disincantato in tutti gli altri aspetti della sua vita.
E
lo fa dopo essere passato lui stesso per una conversione che ha segnato
profondamente tre anni della sua vita in età già matura, poi rimossi, e come a
recuperarli mediante la scrittura di questo libro, pur senza riscattarli, con un'operazione
simile a quella che ha dettato tutti i suoi libri recenti, dall'Avversario in poi, dei quali condivide
molti temi e approfondisce la riflessione.
Tanto
che può scrivere, ora: "Ciò che io chiamo essere cristiano", che è lo
stesso "in senso stretto, che essere agnostico", è riconoscere, anche
davanti a quello che appare il male o la menzogna assoluta "che non si può
sapere" e (quindi...) che ci può essere un'altra possibilità... "Questa
possibilità è ciò che si chiama il Cristo e non è per diplomazia che ho detto
[a Romand] che ci credevo, o cercavo di crederci. Se il Cristo è questo, posso
anche dire che ci credo ancora".
L'obiettivo
era anche di capire come era cambiata la sua vita con la conversione e poi con
l'abbandono definitivo della fede, e come continuano ad agire in lui le parole
di Cristo nonostante questo abbandono. Carrère scrive per capire come delle
parole hanno potuto ribaltare la sua vita e come ancora improntino il suo
agire. Scrive per cambiare la propria vita, e per agire su quella di chi legge.
La
funzione performativa, che appartiene a ogni forma linguistica, in genere non
ha un ruolo primario nei romanzi. In quelli di Carrère tuttavia è possibile
trovare vari momenti in cui è molto marcata (per es. l'episodio del racconto
erotico che la fidanzata deve leggere in treno di La
vita come un romanzo russo) e ancor di più lo è in quest'ultimo. La
volontà di agire sull'esistenza è peraltro caratteristica del discorso
profetico e religioso, che sul linguaggio fonda gran parte della sua efficacia.
Carrère, che non rinuncia mai a guardare qualsiasi cosa con lo sguardo dello
scrittore, fa anzi derivare la dirompenza delle parole di Cristo dalla loro
novità anche espressiva: è per questo che molte di esse continuano ad avere
un'importanza fondamentale per lui nonostante non creda più che "rabbi
Gesù di Nazareth, il più sovversivo mai vissuto sulla terra" sia figlio di
Dio. Del resto erano state proprio delle parole a innescare la sua conversione.
Scrive infatti:
"Dietro
ogni conversione al cristo, penso che ci sia una frase e che ognuno ha la sua,
fatta apposta per lui, che lo aspetta. La mia è stata questa (...): ciò a cui
ti abbandoni – Colui a cui ti abbandoni – ti condurrà dove non volevi andare.
(...) E io, ciò che volevo più di ogni altra cosa al mondo era proprio questo:
essere condotto dove non volevo andare".
Ciò
che vale per l'esistenza non è mai disgiunto in Carrère dalla scrittura, che ne
è il fulcro, e quindi quanto ne dice dell'una può essere letto anche nella
prospettiva dell'altra. Oltre che per la propria esistenza, o per certi
particolari suoi momenti, quanto detto in quei versetti non è anche l'auspicio,
la molla se non il programma, di chi si mette a scrivere? Non è una possibile
definizione della scrittura, e in genere di ogni agire artistico? Non solo, e
non tanto, andare dove non si sapeva (questo è facile, quasi automatico), ma
proprio dove non si voleva, per quanto doloroso possa rivelarsi.
Non
si sa a chi ci si abbandona: possono essere le voci silenziose, presenti e
dimenticate, di tutti coloro che abbiamo sentito o letto, di tutto ciò che
abbiamo visto o fatto e che si è in qualche modo abbarbicato o mescolato o
camuffato nelle lingue da cui siamo circondati, nutriti e perseguitati. Non si
sa mai dove si arriva quando si comincia a scrivere, e a volte il dolore è la
faccia nascosta dello scoperta, il lato in ombra dello stupore che ci coglie
mentre camminiamo e, alla fine del percorso, il suggello che non è stato
inutile, della sua necessità fino a un momento prima ignorata.
Vale
anche per il lettore? Meno di quanto di sarebbe aspettato. Il regno infatti è stata una lettura di volta in volta
affascinante, profonda, curiosa, istruttiva e persino, a tratti, divertente, ma
mai, duole dirlo, entusiasmante: mai, leggendo, mi è venuto di pensare
"Ah!" o di alzare la testa, o appoggiare il libro sul tavolo o le
ginocchia per guardarmi attorno spaesato, con l’occhio che non vede niente
perché tutto è annebbiato dallo stupore, che poi lentamente si dirada e, prima
di indurre a tornare alla lettura, lascia vedere le cose attorno uguali e, sia
pure di un grado, fuori asse, scontornate, e spostate in diverse costellazioni.
E nemmeno è stata una lettura respingente o che ha suscitato intenso disagio,
che sarebbe un altro indizio che era stato toccato qualche punto vivo, come era
accaduto con i libri precedenti (praticamente tutti da La settimana bianca
a Vite
che non sono la mia): piuttosto a volte un po' fiacca, e a tratti
indisponente per la facilità di alcuni passaggi e per tutto il ventaglio di
blandizie lanciate in ogni direzione per blandire (meglio: affascinare, perché
non sono quasi mai troppo scoperte o volgari) quanti più lettori: il che, mi dicono,
è sintomo di una certa ansia.
La
ricchezza della materia, la varietà dei modi e delle prospettive in cui è
organizzata e il grande mestiere (sia detto senza alcuna sfumatura restrittiva)
che traspare in ogni pagina del libro, rendono comunque la lettura sempre
profittevole, se non sempre coinvolgente. I temi affrontati sono di notevole
peso e proprio questo induce a concentrare l'attenzione su di essi, verso i
quali infatti convergono la maggior parte delle critiche, vuoi sotto forma di accuse
di errori o superficialità, o per avanzare integrazioni e sfumature e tutto il
repertorio di chi vuole togliere a ciò che gli altri lodano, o aggiungere a ciò
che non ci si può esimere dal lodare. Va bene. Però così si evidenziano i temi
toccati, ma non si vede il toccare.
Religione,
teologia, ricostruzione storica, riflessioni morali e politiche, scavo
interiore, confessione, biografia immaginaria, profondità e banalità, erudizione e
approssimazione sono tutti elementi di una certa rilevanza, la cui numerosa e
non episodica presenza già dice delle ambizioni del libro, anche se da sola
ovviamente non basta a determinarne le qualità. La sua peculiarità infatti è
data dalla molteplicità e varietà dei modi in cui sono combinati e intrecciati tra
di loro, tanto da determinare le reciproche modalità di porsi influendo a vario
titolo sugli sviluppi e le direzioni di ciascuna delle linee, curvandole, interrompendole
o sfilacciandole ovvero sovrapponendole e confondendole. E' forse utile,
allora, cercare di districare le principali componenti del libro e i loro
livelli, sia pure a rischio di semplificazione:
1
– Storia (documentaria, congetturale e romanzata: né peplum, né romanzo storico
però) delle origini del cristianesimo: in particolare della figura e
dell'apostolato di Paolo, - delle prime
comunità da lui fondate e dei contrasti con quelle legate a Gerusalemme e agli
apostoli, più tradizionaliste -, e di Luca, visto come autore di buona parte
degli Atti degli apostoli e di alcune
delle invenzioni narrative e morali più alte del Vangelo che porta il suo nome.
2
– a) Storia della scrittura del libro; metanarrazione; saggismo; riflessione
sulla scrittura nel suo farsi e come chiave per interpretare quella di Luca e dargli
forma coerente di personaggio e autore (narratore: collega), avventurandosi nei
dettagli degli eventi a cui avrebbe assistito o di cui avrebbe avuto notizia da
testimoni diretti, dei loro protagonisti e della cronaca della loro
quotidianità (vera e presunta) rapportandoli alla "grande" e
"documentata" Storia, quella della Roma imperiale del primo secolo.
3
– Storia personale di Emmanuel Carrère, uno e trino: giovinezza inquieta ma
anche, all'esterno, spavalda, anticonformista e cinica; crisi famigliare e
artistica, conversione e fase acuta della fede (durata tre anni, dal 1990 al
1993, come la predicazione di Cristo, in cui ha quotidianamente commentato il
Vangelo di Giovanni riempiendo una ventina di quaderni, ha assistito alla messa
comunicandosi quotidianamente, si è sposato e ha fatto battezzare i figli con
nomi che gli rinfacciano tuttora, ecc.); rimozione del periodo, morte della
memoria e resurrezione alla vita del narratore (del personaggio-autore),
4
– che approda infine al recupero di quella porzione di memoria che era stata
rimossa e infine a questo libro che, nell’andirivieni temporale tra l'allora
delle fede e l'oggi della scrittura, include la narrazione della sua esistenza
attuale e il dialogo con il lettore (implicito e esplicito).
5
– Rimescolamento di tutti questi ingredienti attraverso continui raffronti e
esemplificazioni e i continui ribaltamenti dei piani temporali: storici (20
secoli fa, passato recente – in particolare XX secolo con la sua storia
politica, con riferimento privilegiato a quella russa, già oggetto altri suoi
libri, oltre che di quelli di sua madre, storica e accademica di Francia – e
oggi) e personali (dal 1990 al presente: amori, figli e vita privata in genere;
ma più di tutto l'amicizia con lo studioso del buddismo Hervé, lui pure figlioccio
della madrina Jacqueline che aveva favorito la conversione dello scrittore: due
delle figure di maggio impatto di tutto il libro).
Il regno si presenta quindi come
un testo ibrido, ma meno nel senso che mette insieme materiali e forme di
diversa provenienza, che per il fatto di muoversi ai limiti di queste
eterogeneità, di percorrerne i confini, passando senza soluzione di continuità
da una parte all'altra, sino a cancellarli, ma senza indulgere a facili
confusioni. E' infatti costruito con estrema perizia grazie ad alcune procedure
stilistiche e tematiche che ne assicurano l'unitarietà e la coerenza.
Oltre
a quella determinata dal tono del discorso, variato e modulato quanto si vuole
ma piuttosto omogeneo, e dal filo rosso della riflessione sullo scrivere e
sulla letteratura (come vengono presentati gli Atti degli apostoli e gli stessi Vangeli), il principale dei collanti che tengono assieme tutto e gli
conferiscono unità è l'insistenza del tema della verità: la verità (e la
necessità) dell'impulso che ha spinto Carrère a scrivere di questi argomenti;
la veridicità della ricostruzione dei fatti narrati, o almeno la loro grande
plausibilità, dichiarata e motivata esplicitamente in assenza di documentazione;
e la completa, quasi spudorata, sincerità quanto alla propria esperienza, dai
sentimenti alle relazioni personali più intime.
Thomas Bernhard ha scritto
che "ogni volontà di verità è [...] la via più rapida per la
falsificazione e per la contraffazione di un fatto", "ciò che è reale è sempre in realtà
diverso, è il contrario che in realtà è sempre reale [...] alla fine quello che
importa è soltanto il contenuto di verità di una menzogna". Parole condivise
da molti, ma che immagino Carrère rifiuterebbe di sottoscrivere, almeno quanto
ai suoi ultimi libri: il suo discorso tende sempre infatti a convincere il
lettore della verità passo per passo di ciò che dice, di cui dichiara ogni
volta lo statuto: che creda che è vero quando dice che è vero, e che lo è anche
quando dice che non è vero alla lettera, ma in qualche altro modo: che lui pure
"senta" la verità dell'accento anche nell'invenzione e riconosca le
marche stilistiche che le conferisco flagranza, o adotti lui pure come guida il
"criterio dell'imbarazzo", secondo il quale quando una cosa dovrebbe
essere imbarazzante per chi la scrive, è molto probabile che sia vera, ecc. La verità è nel linguaggio: nel suo modo
di darsi, nella sua novità e in un certo suo tono che si impone fuor di ogni
dubbio.
Per
esempio, della parola di Cristo Carrère scrive: "anche senza credere [alla
resurrezione] se esiste una bussola per sapere in qualsiasi momento della vita
se si è sulla strada giusta o sbagliata, è questa". "Ciò che dice
Gesù è il contrario [degli scrittori e degli storici del tempo, del loro modo
di dire e di far parlare i personaggi]: naturale, lapidari, completamente
imprevedibile e allo stesso tempo completamente identificabile. Quel modo di
maneggiare il linguaggio non ha equivalenti storici" e proprio da questo
scaturisce la sua intatta efficacia.
Carrère
insomma, da scrittore, trova l'accento di verità, la capacità di colpire e di
andare a fondo, nella straordinaria novità del linguaggio di Gesù. Per dire le
cose inaudite che ha detto, Gesù ha dovuto dare una inaudita torsione al
linguaggio che era in uso nel suo tempo. Così forte che ancora oggi, per quanto
soprattutto la cultura occidentale sembri averci fatto l'orecchio, non ha
cessato la sua carica sconvolgente: cioè non ha esaurito la sua novità.
L’altro,
e più fondamentale legante è dato da “Emmanuel Carrère”
autore-narratore-personaggio, cioè da colui che dissemina di “io” tutte le
pagine, dalla prima all’ultima, con gran dispitto di tutti coloro che non
perdono occasione per gridare al narcisismo e scagliarsi contro il calderone
dell’autofiction. Personalmente, a me non dà fastidio la ricorrenza del pronome
di prima persona singolare (molto più fitta in francese dal momento che nei verbi
è obbligatoria: il che forse aiuta a spiegare un po’ della vera o presunta prosopopea
transalpina) che a volte alcuni, oltre a trovarla eccessiva, hanno la bella
idea di ritorcere persino contro l’aspirazione, scettico-ma-possibilista quanto
si vuole ma comunque sacrosanta, all’ingresso nel Regno (dei cieli), ricordando
che chi si innalza sarà abbassato, e peggio ancora chi di abbassarsi fa solo le
mosse.
La
sua onnipresenza invece è il perno della strategia di Carrère: il soggetto
dell’enunciazione (e dell’enunciato) è il filtro e la pietra di paragone a cui
tutto si rapporta. Tutto qui. Se qualcosa c’è di sgradevole non è nella figura
complessiva che il soggetto viene a comporre, ma in certe sue sfaccettature,
che nelle persone reali diremmo del loro carattere, mentre nel testo, sono
relative all'uso e agli obiettivi presi di mira (inclusa l’idea implicita di coloro
che da queste strategie sono presi di mira; cioè i lettori).
Del
resto lo afferma esplicitamente (polemicamente, quindi) lui stesso: non solo di
vivere nel "culto e nella cura perpetua della (propria) persona", ma di
crederci “dur comme fer". "Non conosco nient'altro che
"io", e credo che questo "io" esiste", dice in
contrapposizione a Hervé, che, con pacata saggezza, fa da controcanto alle
supponenze e certezze a cui Carrère a volte approda faticosamente e altre
indulge un po' superficialmente, recitando la parte dell'avvocato del diavolo
dei credenti senza esserlo lui stesso, e proprio per questo, agli occhi di
Carrère e ai nostri, in modo credibile.
Ma
poiché questo io non è un dato originario della nostra coscienza, ma solo
"un'eco, diretta o indiretta, continua o intermittente, delle nostre
percezioni passate nelle nostre percezioni presenti" (come diceva già un
filosofo dell'800 citato da Nathalie
Tresch in un suo saggio) Carrère, che ritiene interrotta questa catena dei
ricordi quanto a sé, "tenta di ricostituirla attraverso i suoi romanzi"
(ibidem), affrontando in ciascuno di essi uno dei momenti dove si interrompe, o
riempiendo i vuoti che la crivellano, in particolare i segreti personali e di
famiglia che sono incriptati al loro fondo, con tutto il carico di colpa e
vergogna ma anche con tutta l'assunzione di responsabilità che questo comporta.
Anche se, nonostante forse Carrère lo creda, la divulgazione e la presa in
carico di questo segreto, invece di approdare a qualche verità definitiva, non
fa che spostarlo, ricoprendo di un altro strato di detto ciò che resta, al suo
centro, nella cripta o ancora sotto di essa, di indicibile e destinato al
silenzio. (L'immagine della cripta è tratta dallo splendido libro di N. Abraham
e M. Torok L'écorce
et le noyau, ma l'interpretazione del segreto è da attribuirsi solo al
sottoscritto, via Derrida). Una volta giunti alla cripta e terminato il lavoro
di sgombero, il risultato sarebbe sempre provvisorio, quindi; alla fine ci si
accorgerebbe di non avere svuotato un bel niente e di avere invece eretto un
nuovo edificio con i materiali della rimozione: materiali che si riveleranno
poi inesauribili, mentre lo stesso lavoro di scavo e svuotamento finirà per nascondere
una cripta e un segreto ulteriori, che esso stesso avrà contribuito a
modificare, se non addirittura a creare.
Se
si guarda all'argomento Il regno può
apparire come un peplum, genere tornato di moda grazie al cinema e alle serie
televisive, o un romanzo storico, ma non lo è, non solo perché anziché fare del
racconto e quindi del coinvolgimento del lettore la sua priorità, si ingegna in
modi sempre diversi a spezzare la storia e spiazzare il lettore, con cui
peraltro è in dialogo continuo, ma soprattutto perché con il "il romanzo
storico, e a fortiori il peplum" Carrère dice di avere "immediatamente
l'impressione di essere dentro Asterix".
Infatti confessa di non essere mai riuscito a finire di leggere nemmeno un
libro così distante dalle creazioni di Goscinny e Uderzo come le Memorie
di Adriano. Il motivo è piuttosto semplice: Marguerite Yourcenar era
convinta che in un romanzo storico non deve trasparire neppure la minima ombra
proiettata dell'autore; Carrère al contrario crede che sia impossibile
evitarlo, e che comunque poi si vedrebbero "le astuzie con cui si cerca di
cancellarla e allora tanto vale accettarla e metterla in scena... ".
"Gli sguardi nella cinepresa non mi danno nessun fastidio: al contrario li
conservo e attiro pure l'attenzione su di essi". Ma allora perché insiste
tanto sulla "verità" della masturbazione nelle pagine che dedica al
video in cui una giovane donna si dedica a questa pratica encomiabile? Sono
certo che Carrère direbbe che non c'è contraddizione: nei porno lo sguardo in
camera è sicuro indizio di falsità, di recitazione proprio nel momento in cui
l'eccitazione dovrebbe vincerla sul controllo e sull'intenzione: viceversa, quando
inventa, lui guarda il lettore negli occhi e gli dice cosa e come inventa: cioè
la verità di ciò che sta facendo; non finge di fare altro, come non lo finge la
ragazza davanti alla cinepresa piazzata con immagine fissa davanti al suo letto:
proprio questa assenza sarebbe, per lui, la certificazione che ciò che viene
mostrato non è inscenato né recitato: che sarebbe una vera masturbazione, cioè:
la sua verità.
Si
torna sempre a questo punto. Come in molti altri suoi libri (Limonov, Philip Dick
nella biografia
a lui dedicata, Romand, il protagonista di L’avversario, persino
il bambino della Settimana bianca),
anche i personaggi principali del Regno
(Luca, Paolo, Giovanni, Seneca, Flavio Giuseppe, Hervé) sono quasi tutti
narratori: scrittori, poeti, storici, raccontatori di storie vere o menzognere,
ma per Carrère, pur affascinato dall’invenzione, il problema che ricorre sempre
è dove e come riconoscere la verità del dettato, la sincerità della
confessione, l’evidenza della realtà dei fatti: dalle marche che forse
involontariamente Luca dissemina negli Atti
e nel Vangelo, ai video porno,
appunto. Da cosa si riconosce l’accento di verità rispetto alla finzione che
scimmiotta la realtà; dove l’esibizione delle pieghe e delle piaghe più
nascoste dell’anima e la sincerità rispetto all’oggetto non bastano, e il
rischio è che davvero tutto diventi più pornografico del video “amatoriale”
fatto per il presunto piacere personale dalla giovane donna che vi si ritrae,
di cui Carrère indaga i segni della verità come un filologo della masturbazione
(o come la masturbazione di un filologo), salvo poi capire, noi, che, al di là
della volontà di provocazione (in particolare quando poi fa riferimento a
Maria) di fatto proprio lì il narratore, nascondendolo, rivela meglio che
altrove il proprio metodo, le procedure e gli obiettivi del suo operare.
“Quando
mi raccontano una storia, mi piace sapere chi me la racconta. È per questo che
mi piacciono in racconti in prima persona, e io stesso ne scrivo, e non sarei
capace di scrivere niente in un altro modo”. Una delle domande rituali del '68
era: "Da dove parli, tu?". Io la trovo sempre pertinente. Per essere
toccato da un pensiero, io ho bisogno che sia portato da una voce, che emani da
un uomo, che io sappia che percorso essa si è tracciato dentro di lui. (...)
Paolo faceva parte degli uomini che non si fanno pregare per dire da dove
parlano, cioè per parlare di se stessi, e Luca non ha tardato a conoscere la
sua storia, spiazzante quanto i suoi discorsi".
Naturalmente
questo continuo ritorno su se stesso e sulla propria scrittura ha anche altre
valenze, non ultima quella di agire come apparato difensivo, paranoico la sua
parte.
Dopo
avergli parlato della raccomandazione di Paolo di non credergli se in futuro
avesse rinnegato ciò che aveva sostenuto fino allora (lettera ai Galati), e
aver segnalato questo passaggio come qualcosa di assolutamente inedito per
l’antichità, e piuttosto simile nella sua perfetta paranoia a Dick e Stalin,
Carrère riporta questa osservazione di Hervé: “È di te che stai parlando... La
cosa che più di tutto temevi quando eri cristiano, era di diventare lo scettico
che sei contentissimo di essere oggi”. Ed è risaputo: è soprattutto quando si
parla degli altri che si rivela qualcosa di sé; ma Carrère non resiste a farlo
notare, come se un difetto di autocoscienza fosse automaticamente un difetto di
scrittore, ma soprattutto di uomo: l’esposizione di una debolezza (una vera,
non di quelle che sono esibite a vanteria e scandalo degli altri), e dunque di
risultare un facile bersaglio per eventuali nemici: automatico perché sarebbe
automatico per lui nei loro confronti. Se c’è un punto debole, è scontato che
mi attacchino proprio lì; e quindi non solo io li prevengo, ma ne faccio un
metodo e un merito: un punto di forza del mio modo di vedere le cose e della
scrittura.
Ma
questa è anche la grande bravura di Carrère: riportare ogni cosa alla sua vita
e/o ad altri aspetti e momenti del libro, alla sua vita come tema del libro e
insieme come possibile aggancio all’esperienza e alla vita del lettore, che
tende a identificarsi. Così, quando parla delle Lettere a Lucilio, dice: “mi
ricorda la mia amicizia con Hervé” e al lettore, tramite Seneca: “parlo con te
del male di cui entrambi soffriamo, ti passo le mie ricette, per quel che
possono valere”.
La
notte dopo l'incontro con Filippo, Carrère, che ha inventato sia il personaggio
che la scena, immagina l'esaltazione di Luca per avere conosciuto un uomo che
aveva incontrato di persona Gesù. "Ciò che mi permette di immaginarla,
sono i momenti in cui un libro mi è stato dato. (...) impressione di evidenza
assoluta. Ero stato testimone di qualcosa che doveva essere raccontato,
spettava a me, e a nessun altro, il compito di raccontarlo".
È
il meccanismo della proiezione, che gli permette di certificare la legittimità
dell'invenzione, la verità di un'ipotesi anche non dimostrata o la realtà di un
fatto anche non documentato: lo so perché mi è capitato qualcosa di analogo,
ovvero, è lo stesso, perché una stessa forza mi ha afferrato, una stessa
evidenza mi si è imposta. Qualcosa di non molto lontano dalla fede, insomma;
qualcosa che permette di compiere salti logici con l'innocenza della buonafede
(appunto). Qualcosa che farebbe acqua da ogni parte, non fosse che anche il
lettore, una volta o l'altra, ha fatto esperienze analoghe (niente di teorico o
astratto: di molto concreto, anzi, una percezione, un'emozione, una situazione,
un fatto...): il che gli permette di non fare resistenza alla versione di
Carrère e quindi, tramite questa doppia immedesimazione, di accettare la
plausibilità di ciò che dice, di adottarla e farla propria: cioè di credere
alla sua verità e di abbandonarsi a quanto di buono e consolatorio il suo libro
possa contenere. Di non rifiutarsi alla forza delle parole di Paolo e alle
verità sconvolgente di quelle di Cristo, figlio di dio o "semplice"
profeta, di cui però senza Paolo si sarebbe forse persa la memoria come è
avvenuto per i tanti altri che popolavano il medioriente in quel periodo, e di
lasciare uno spiraglio aperto alla profezia del Regno, perché è vero che, come
sostiene Carrère, non è tanto dell'altro mondo quanto di questo, della vita e
non di dopo la morte, però, insomma, magari... Perché si fa sempre fatica a
pensare alla propria morte come a una scomparsa davvero definitiva, come il
passaggio, che non saremo noi a compiere ma avverrà da sé, a un prosaico nulla,
un nulla totale, senza residui, nemmeno quello patetico della dispersione dei
nostri atomi nell'aria, in un fiume o in una foglia di cicoria. Qualsiasi
alternativa, per quanto ipotetica, irreale, è più consolante, più poetica. E
chi se ne vorrà mai privare? Pensarci così, in un modo piano, senza drammi, è
facile solo da lontano. O anche da vicinissimo (come se non lo fossimo sempre),
eccetto quando se ne percepisce, in un lampo di consapevolezza, l'imminenza.
Ma
prima, i classici esempi, nobili e disillusi, di Seneca che convoca gli amici
dopo essersi tagliato le vene (con un rituale piuttosto atroce, in realtà, dal
momento che la morte ha fatto le bizze e necessitato di ferite supplementari e
di una lunga e penosa attesa di cui Carrère, che ama smitizzare, non risparmia
al lettore nemmeno un passaggio, inclusa l'ironia sul fallimento dell'analogo
tentativo della moglie: perché alle donne piace giusto inscenarli, i suicidi,
tanto che l'errore è solo quando vanno in porto...), e di tanti filosofi e eroi
antichi e moderni, consolano, e fanno invidia; al pari di quelle morti serene,
capolavori del futuro anteriore – dell'immagine che si vuole sia ricordata: il
nobilissimo monito ai sopravvissuti più forti o inclini a dimenticare; per i
più deboli, il precedente agghiacciante invece –, circondati da figli e nipoti,
chi li ha, o circonfusi di qualche speranza, avvolti dalla sua tenue radianza,
sbirciando la fessura della porta che, in fondo, non si è voluto chiudere del
tutto, anche quando si credeva di averla piombata e sigillata, caso mai filtri
una lucina, un barbaglio... be', a tutti costoro, e anche alla miriade di altri
meno saggi o fortunati, Il Regno quella
porticina la tiene socchiusa mentre si esibisce nel gesto, più volte ribadito,
di chiuderla: e anche i lettori fanno propri i suoi dubbi mentre li respingono,
e viceversa dubitano delle sue certezza nell'atto stesso di farle proprie. La
debolezza altrui rafforza e consola: poi si può anche, magari, ammirarne la
forza, e tutto il resto.
Nel
frattempo ci si è riservato il doppio beneficio di vivere senza i fardelli
della fede (i “pregiudizi” e i “divieti”: i peccati e le colpe; il cui
sentimento tuttavia Carrère non si risparmia quanto ad altri campi, morale
soprattutto: e quindi ancora religioso in un certo senso), e quello del rotto
della cuffia a cui potersi aggrappare in extremis per una salvezza, che, forse,
chissà... Appena prima di trovarsi fuori tempo massimo. “Non so” è la frase che
chiude il libro: da considerarsi in tutte le sue valenze.
(Questo articolo è stato pubblicato la prima volta su doppiozero.com il 30 marzo 2015. Le traduzioni da Le
Royaume sono mie.)
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