Il pullman si è fermato a Mirabilandia sotto il diluvio
universale. Il piazzale è vuoto, nessuno è sceso e nessuno aspettava di salire,
ma la sosta non accenna a finire. Il motore ronfa piano, le parole e i bisbigli
sembrano esauriti, i cellulari non squillano, dalle cuffie e dagli auricolari non
fuoriesce nemmeno un ronzio: si sente solo lo sventagliare della pioggia sulla
lamiera e i vetri, in uno stato di sospensione indefinita. I macchinari delle
attrazioni si intravvedono appena, oltre la fitta barriera di acqua e vapori,
nell’aria scura. Di quella più vicina, le gigantesche montagne russe a
monorotaia, incombono su di noi alcune volute scure, grovigli sospesi nel cielo
come un’astrusa astronave annodata attorno a un nucleo invisibile, come un
cappio cosmico, ganasce mastodontiche pronte a chiudersi attorno a teste e
corpi ancora da inventare, eppure molto simili ai nostri, e a ghermirli. La
pioggia sferza tutto senza remissione, il piazzale e la strada sono ormai
allagati, nessuna auto passa, nessun faro si accende, i finestrini vibrano, dal
soffitto filtrano, sempre più forte, acqua e vento, mentre la visibilità
declina verso una notte prematura, un presagio di cecità totale, definitiva.
Alcuni hanno preso a piangere.
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