Gli
artisti nascono sotto il segno di Saturno, ma agli scrittori può capitare che
questo segno si raddoppi in quello di una figura retorica: per Yukio Mishima
prese la forma dell’antitesi. Né lo ignorava lui stesso, che non a caso sottolineò
che quanto il suo ne fosse ricco. Solo che per uno scrittore una figura
retorica non è mai un semplice ornamento, è qualcosa che lo penetra e ne
informa ogni nervatura, artistica e esistenziale, e Mishima sapeva che
l’antitesi , che comporta contraddizione e conflitto, era l’oscillazione che
scandiva di sussulti e di fratture la sua vita. Gli sembrava quasi di essere
una pellicola sottile in cui coabitavano, o forse il limite su cui venivano a
scontrarsi, separati da una profonda scissione ma pronti a scambiarsi l’uno le
caratteristiche e le qualità dell’altro, i due poli di una contraddizione che
si metamorfosava in una fitta serie di coppie antagoniste: la carne e la mente,
la bellezza e la laidezza, l’esistere e il vedere, la forza e la forma, l’omosessualità
e l’eterosessualità, l’Oriente e l’Occidente.
Mishima
si illuse che quella pellicola potesse rafforzarsi sino a conciliare ogni
contraddizione, acquisendo la perfezione dei muscoli, che per lui “oltre a
essere una forma, erano anche una forza”, e situandosi al livello della morte,
sola garante capace di colmare “la breccia assurda che esisteva tra il vedere e
l’esistere”, lungo un tragitto che è ammirevolmente ripercorso in Sole e
acciaio e che sfociò poi nello spettacolare suicidio rituale del 25 novembre
1970.
Ciò che
Mishima ignorava però, o che forse troppo bene conosceva (come si evince dalle
sue opere che difatti ne sono il chiaro e tragico dispiegamento), ma senza
potervisi rassegnare, era l’impossibilità di una sintesi per e soprattutto in
lui: uno dei due poli finiva sempre per prendere il sopravvento sull’altro,
magari con parziali e provvisorie anfibologie mimetiche ma senza giungere mai
ad annientarlo o ad assimilarlo completamente, o superarsi in qualcosa di più
alto. Per questo Mishima di disprezzarlo, fino quasi a convincersene:
riconosceva che il lato dominante era quello a suo parere negativo, e lo
denegava perché vi si riconosceva.
Così ha
seguitato a riprodurre la scissione anche nel momento in cui essa avrebbe
dovuto trovare la sua suprema sintesi: non a caso la mattina stessa del seppuku scrisse su un biglietto: “La
vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre” (anche l’ultima frase è
un’antitesi dunque. Marguerite Yourcenar però, nel suo Mishima o La visione del vuoto, che è qualcosa di più di una affascinante
riflessione sulla vita e l’opera dello scrittore giapponese, non vede in queste
parole nessuna contraddizione con il “fatto che l’uomo che le ha scritte sarà
morto prima che la mattina finisca”, perché le interpreta, giustamente ma
limitatamente, solo come caratteristiche di “tutti gli esseri tanto ardenti da
essere insaziabili”); e soprattutto consegnò all’editore l’ultimo volume della
quadrilogia Il mare della fertilità,
vasto affresco del Giappone del ventesimo secolo da molti reputato il suo capolavoro,
che conferma nelle sue linee generali il discorso si qui svolto.
Il suo
protagonista infatti, più che i quattro giovani la cui storia viene seguita di
volta in volta fino alla morte che per essi corona un’esistenza gloriosa
sebbene (o proprio perché) fondata su una colpa, è colui che vede la serie di
queste vite e di queste morti, le collega e vi trova una continuità nel senso
di una teoria della reincarnazione che molto probabilmente è solo la proiezione
dei suoi fantasmi e desideri, e crede di non vivere se non nella loro
contemplazione, quando invece è forse l’amore sotteso a questa contemplazione a
costituire la più alta energia vitale e a rendere memorabili le vite
contemplate, l’energia che lo sorregge nella sua lunga esistenza, salvo indurlo
a porvi termine nell’istante in cui viene riconosciuta.
E’ Honda
cioè, che in Neve di primavera, il
primo e finora unico volume tradotto della quadrilogia, ci viene presentato
come un giovane studente destinato, nel Giappone di inizio secolo, a seguire la
carriera paterna nelle più alte cariche della magistratura.
Honda è
di aspetto ordinario, studioso, incapace di fantasia e come precluso alle
passioni, di spirito pratico e razionale anche quando le sue letture sul
diritto e la sua storia lo portano ad occuparsi di filosofia e religione. Solo
l’esclusiva amicizia con Kiyoaki, la cui tragica storia costituisce l’argomento
principale del romanzo, risveglia in lui un sentimento di delicatezza e
generosità non disgiunto da ammirazione.
Kiyoaki è
infatti l’incarnazione di tutto ciò che manca a Honda 8e l’altro dei due io in
cui Mishima si sentiva scisso): nobile e bellissimo, vive in un mondo separato
di immaginazione e di sogni, ed è preda di una forte e lacerata sensibilità che
lo porta a creare ostacoli laddove non ce ne sono, ma gli dà anche l’impulso a
superarli quando realmente appaiono insormontabili. Anzi, è proprio ciò che per
il senso comune è impossibile che lo induce a riconoscere la propria passione e
a rinfuocarla nel compimento reale, anche se questo lo condurrà, quando
l’oggetto della sua passione si sarà definitivamente sottratto al suo cerchio
rinunziando con una decisone irrevocabile (la monacazione) a lui e al mondo, a
una morte prematura, che del resto è l’unica bella per Mishima.
E’ la
storia, centrale nel romanzo, dell’amore per Satoko, la stupenda ragazza (e
figura narrativa) nella cui famiglia, ora in decadenza ma di antichissima
nobiltà, Kiyoaki era stato fatto allevare dal padre, marchese di seconda
generazione tutto impregnato di spirito occidentale sebbene formalmente ancora
ossequente a quelle tradizioni la cui scomparsa Mishima ha deplorato fine nella
sua stessa morte.
L’insorgere
di questa lacerazione nel tessuto culturale e sociale del Giappone fa da basso
continuo alla narrazione e le impedisce, unitamente alla grande abilità di
Mishima nel descrivere i rapporti umani e alle sue doti introspettive e
liriche, di assumere in nessun caso quelle cadenze di melodramma alla quali la
nuda trama e molti dei personaggi nella loro ordinarietà potrebbero far
pensare.
D’altronde
Mishima sapeva benissimo che alla tragedia non sono indispensabili esseri o
eventi straordinari. “il pathos, l’ebbrezza e la lucidità, elementi costitutivi
della tragedia, nascono dall’incontro di una sensibilità normale, dotata di una
sua intima forza, con quel momento privilegiato, che sembra specificamente
destinato a lei. Alla tragedia necessitano una vitalità e un’ignoranza
antitragiche e, soprattutto, una certa ‘inadeguatezza’.” Quanto a sé invece,
Mishima non accettava questa incompletezza e ordinarietà, sebbene sostenesse
che “chi commercia con le parole può creare una tragedia, ma non parteciparvi”.
Per questo la cercò in una decisione e in un gesto, rinunciando alle parole.
Se
Mishima tuttavia ha raggiunto la tragedia, non è stata certo quella da lui
inseguita: anche in lui dobbiamo supporre infatti una certa ignoranza e
inadeguatezza. Allora la sua tragedia è forse consistita nel credere nella
possibilità di raggiungerla cercandola e nel cadere, allora sì, in un destino
luttuoso ma ordinario come quello di tutti, dal quale solo ciò a cui aveva
rinunciato, appunto le parole, continuano a salvarlo al di là di ogni agognata
conciliazione di quei conflitti che per lui, come per ogni scrittore, solo
nella scrittura potevano trovare una forma e realizzarsi.
30-10-1982
30-10-1982
Yukio
Mishima, Sole e acciaio, Guanda,
Milano, 1982, p. 95 £ 7000
Neve di primavera, Bompiani, Milano, 1982, p. 402, £ 15000
Marguerite
Yourcenar, Mishima o La visione del vuoto,
id, 1982
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