Durante i
lavori di fognatura per il paese che si sta ingrandendo, hanno scoperto un paio
di piccole tombe di epoca romana e la via parallela alla mia è stata chiusa. Di
conseguenza il traffico è stato deviato e ora passa di qui. Oltre alle macchine
è tutto un viavai di motorini, biciclette e pedoni che si recano sul luogo del
ritrovamento e ne approfittano per fare un giro nei paraggi. Spesso sostano
sotto il muro di recinzione o davanti al cancello allungando il collo per
guardare dentro, inutilmente. Se aprissi l’audio del videocitofono, sentirei
chissà quali commenti sulla mia famiglia e sul sottoscritto, fantasie e idiozie
varie, ricordi distorti, le immancabili malignità e qualche rimpianto, ma mi
astengo dal farlo. Le notizie e i commenti della prima ora sulle tombe e sui
reperti rinvenuti mi sono bastati.
Le tombe
consistono di pozzetti in mattone disadorno. All’interno sono state trovate
alcune anforine lisce e fibbie metalliche di serie. Nient’altro. Forse sono
tombe di soldati morti di malattia o delle conseguenze di una ferita mentre
passavano di qui. Non si ha notizia di insediamenti romani di rilievo da queste
parti, anche se alcune battaglie, di cui una molto importante, sono documentate
nella zona. Ma è stata combattuta tre secoli prima del periodo di cui questo
tipo di tombe è peculiare. Nei secoli successivi in compenso i disastri si sono
infittiti. Una vera fortuna per la storia locale. Molti infatti ne vanno fieri.
La banalità dei
reperti e la quasi certa occasionalità delle sepolture non ha comunque impedito
di isolare tutta la via, di effettuare sondaggi nei terreni liberi circostanti
e, una volta constatato che non c’era nient’altro, di asportare con cura tutti
i mattoni e le relative cianfrusaglie e di collocarli provvisoriamente in
comune, in attesa di trovare uno spazio dove esporli stabilmente assieme ad
altre testimonianze più recenti rinvenute qua e là negli ultimi decenni, in
particolare robetta longobarda. La soprintendenza non ha avanzato pretese e ce
li ha benignamente lasciati, felice di non doversi addossare altro ciarpame. La
cittadinanza è grata: anche noi abbiamo qualcosa da conservare e custodire. Non
veniamo dal nulla. E quindi è probabile che non vi siamo destinati.
Qui si conserva
tutto, si fa della conservazione un’occupazione che si spera redditizia in
futuro. A beneficio di coloro che sistematicamente cancellano la memoria e
tutto quanto potrebbe ravvivarla, qui l’intero territorio diventa un gigantesco
parco a tema (un parco storico, o della sedicente storia): memoria di tutto,
che viene conservato e mostrato accanto a tutto il resto, con scarne notizie e
nozioni di riferimento per i visitatori più solerti o con pretese più
sofisticate, scarsissimi peraltro se si eccettuano afflitte scolaresche e sfaccendati
alla canna del gas.
Se qualcosa
affiora – e qualcosa affiora sempre non appena si spolvera un centimetro quadro
di superficie, tutto si ferma. Non importa che ciò che si trova sia quasi
sempre identico a quanto già c’è e non aggiunga niente a quanto già si sa:
importa che quel coccio, quel sasso o quell’oggetto sia stato trovato proprio
lì, sia la garanzia che chi è lì c’era già e ha il diritto di starci e che ci
può stare con orgoglio, con la dignità smisurata dei millenni e di nobili
antenati, anche se siamo tutti straccioni inutili discendenti di schiavi o di
altri straccioni altrettanto inutili. Ogni paesino deve avere il suo museo di
qualcosa, ogni quartiere la sua bacheca, ogni famiglia il suo reliquiario e,
attorno, la cattedrale che ciascuno vuole, o è in grado di costruirgli. Il
qualcosa di allora dà consistenza al niente di adesso. La banalità di un resto
si trasforma, con la crescita cancerosa del tempo, in un nucleo di significato
indicibile per l’oggi: indicibile di fatto, perché non c’è proprio niente da
dire. In fondo la gente se ne frega di questi resti, ma ormai non può fare a
meno di tenerli, di fingere di attribuire ad essi chissà che valore, perché sa
benissimo che si vi rinunciasse, al loro posto resterebbe solo un buco che finirebbe
per risucchiare in sé tutte le cose altrettanto insignificanti a cui è invece
veramente attaccata.
Ma questo, più
che conservare, è solo un altro modo di trasformare; e difatti tutto vi è
coinvolto: lo spazio, il paesaggio, la vita. Come la mia casa. Il centro
diventa talmente centro da assorbire tutto, e quindi da non essere più il
centro di niente. E viceversa l’esterno, risucchiato tutto, e con tanta forza,
nell’interno, con altrettanta forza lo muta e lo rivolta come un guanto. Quando
tutto è interno, tutto è anche esterno. Allora non resterebbe che uscire. Io
però non lo faccio.
(da un romanzo abbandonato)
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