ma tre anni prima ero andato a
Parigi per preparare la tesi, avevo sentito qualche lezione di Derrida in Rue
d’Ulm e lo avevo sorpreso dicendogli che stavo scrivendo la tesi proprio su di
lui, e lui: “di già?”, ha detto, il che non mi ha impedito la settimana successiva
di tradirlo per andare a vedere il festival di Buster Keaton alla cineteca del
Trocadero (cosa che spiega perché non sarei mai diventato un filosofo: ma
questo già lo sapevo anch’io; il fatto è che non sono diventato neanche uno
scrittore: cosa che invece non sapevo ancora)
è il giorno del mio ritorno da
Parigi che ho incontrato Angela (23 marzo 1974)
l’estate di Pesaro e Venezia, quella
della mia maturità, con un gruppo di amici e amiche avevo risalito con la mia
Bianchina, in sacco a pelo e dormendo quasi sempre all’aria aperta, il corso
del Reno fino a Colonia, e poi avevamo tagliato attraverso la Germania fino a
Monaco, dove avevamo visitato Dachau e io il museo di arte moderna e una mostra
di Picasso che mi aveva sconvolto, dalla quale ero venuto via di corsa per non
arrivare in ritardo scoprendo però che quelli della mia compagnia, le ragazze
in particolare, si erano perse nei grandi magazzini, così che, fuori Dachau, ho
litigato con tutti e nel prosieguo del viaggio, tra cui, in un giorno cupo e
nebbioso, ci siamo fermati a Mauthausen che mi ha ferito al cuore per sempre, e
a Vienna, dove ho visto per la prima volta il Kunsthistoriches Museum, me ne sono
stato sempre da solo, senza parlare più con nessuno per giorni e giorni,
leggendo in auto, quando non guidavo, Madame
Bovary, in una edizione Garzanti con i fogli incollati male, per cui man
mano che arrivavo in fondo li strappavo e, con scarso senso civico di cui
faccio ora pubblica ammenda, li appallottolavo e uno alla volta li gettavo
fuori dal finestrino, e forse era per quel libro che tutto il mondo mi sembrava
pieno di cretini, ma poi no, perché ne avevo avuto le prove anche prima, anche
se allora non mi ci mettevo nel mezzo io pure, e poi no, no, ancora, perché in
fondo continuavo e continuo a voler bene a tutti
l’anno dopo non sono andato più
con quella compagnia, che poi sarebbe confluita quasi tutta in quella che
ancora non era un’associazione a delinquere, Comunione e Liberazione, come
avevo fatto invece quello prima, guidati dal mio professore di filosofia, il
primo che si era fatto illusioni su di me (ma come poeta, e per questo voleva presentarmi
Fortini che era suo collega nella nuova scuola di Milano, ma io disdegnoso ho
detto di no: non so da dove mi venisse tanta presunzione... immagino dall’età e
dagli ormoni o dai cattivi maestri di allora, tutti impegnati col mio assenso a
portarmi fuori sesto, allora et in vitam
aeternam amen), che avevamo fatto un lungo giro per l’Italia del sud,
dormendo in campeggio libero in posti meravigliosi, tra cui la spiaggia di
Vieste allora quasi deserta o il greto di un fiume in Lucania o sulla Sila con
un cielo stellato che avrei visto ancora solo qualche volta in alta montagna e nel
deserto tunisino, io alla guida sempre della Bianchina, ancora con il foglio
rosa, senza litigare con nessuno, e anzi sempre a scherzare con tutti come ho
fatto per quasi tutta la mia vita, persino adesso qualche volta
è in quel viaggio che abbiamo
preso in autostop due giovani romani, che sarebbero rimasti qualche giorno con
noi e poi avrebbero raggiunto me e il mio amico Chicco T., a settembre, a
Venezia, a un corso di cinema sull’isola di San Giorgio dove, nella Fondazione
Cini lì accanto, avrei assistito a una conferenza dell’allora a me sconosciuto
Elémire Zolla vicino a un ciccione con la barba di otto giorni che fingeva di
dormire russando provocatoriamente perché il conferenziere era di destra, come
avrei scoperto che erano i due amici romani, di destra estrema, da una lettera
che mi avrebbe scritto tempo dopo uno di loro, un principe o presunto tale la
cui sorella sarebbe stata uccisa qualche anno dopo in un caso a lungo
chiacchierato sui giornali, che scriveva poesie e frequentava il salotto di
Julius Evola, ciò che mi ha indotto a interrompere immediatamente la
corrispondenza con lui, che pure mi era sembrato un bravo e simpatico ragazzo,
e magari si trattava solo di un abbaglio giovanile, come i tanti che prendono
tutti
era anche un periodo che
frequentavo i corridoi redazionali della Rizzoli, in via Mecenate, per quanto
disprezzassi più o meno tutto quello che pubblicavano, dove andavo a trovare un
amico scrittore che aveva pubblicato un paio di romanzi bene accolti e poi ne
ha fatto un altro e praticamente è sparito o quasi, come suo fratello, che
usava però un altro cognome e è durato un po’ di più ma mica tanto, perché è
così che vanno le cose, anche con quelli bravi, e lì, in quei corridoi dove era
allineato un numero spropositato di uffici redazionali, si parlava di
letteratura, ma più che altro ascoltavo pettegolezzi su autori di cui non mi
importava nulla, con lui, che masticava cotone idrofilo invece del chewingum, e
un altro paio di persone, non mi azzardo a definirli scrittori, quando c’erano,
perché di solito il corridoio era vuoto, negli uffici erano tutti appena usciti
o stavano per arrivare o erano al bar, e di quei due uno era figlio di un
importante rettore romano, e dell’altro ricordo solo che aveva sempre la
schiena a pezzi, per cui, quando c’era, passava il tempo sdraiato sul piano
della scrivania opportunamente sgombrato da qualsiasi cartaccia e altra materia
di scrittura o di lettura, libri quaderni fogli dattiloscritti penne matite
gomme, disprezzando lui pure, come tutti quelli che lavoravano lì, i libri di
cui curavano l’edizione e scrivevano memorabili risvolti, meglio, ma molto
meglio, a loro dire, delle opere a cui si riferivano, perché con un tasso di
invenzione di molto superiore, perché è così che si chiamano le menzogne in
letteratura
ma per tornare a Venezia, è lì, durante
i festival del 1969 e ‘70, che alle proiezioni del mattino c’era il
grande Pietrino Bianchi, ormai quasi cieco, che vedeva le anteprime seduto nel
vuoto delle primissime file assieme alla figlia, che poi il giorno dopo leggevi
le sue comunque belle e intelligenti recensioni e a volte ti chiedevi che razza
di film avesse visto, perché tu ne ricordavi un altro, anche se devo dire che,
poco dopo, a Pesaro, quando hanno presentato mi pare per la prima volta in
Italia un film di Fassbinder, Katzelmacher,
che a me piacque subito moltissimo, l’unico critico a parlarne bene il giorno
dopo sui quotidiani è stato lui,
forse appunto
perché, chissà, aveva visto nel film qualcosa di solo e tutto suo, e magari
anch'io, e anzi, a ripensarci, sarà stato proprio così, e appunto questo è il
bello
che poi Pietro Bianchi l’ho anche
incontrato, poche settimane dopo (ottobre 1970), all’esame di ammissione alla
scuola civica di cinema di Milano, in via Lodi, e l’ho stupito, lo dico per
vantarmi perché tanto cosa altro posso fare?, prima portando come lavori per
l’ammissione uno breve saggio su Jean-Marie Straub e scrivendo poi, in una
prova scritta come un tema, in un pomeriggio, una breve sceneggiatura tratta da
“Funes el memorioso” di Borges, ciò che ci fece molto piacevolmente
chiacchierare nel colloquio di ammissione, dialogo che continuò durante le sue
lezioni, prima che abbandonassi tutto per aver avuto qualche contrasto con lo
sconosciuto che insegnava regia (ma queste sono cose che ho già detto, credo), e soprattutto perché mi ero fatto l’idea che
io, lì, non avrei cavato un ragno dal buco, come ho fatto quasi sempre anche
dopo, peraltro
però frequentavo i corsi di cinema
e teatro in Cattolica dove si era iscritto il mio carissimo amico Ferruccio
Merisi, così ho potuto conoscere, grazie a Sisto Dalla Palma, alcuni dei
maggiori gruppi sperimentali del periodo, anche frequentando i loro seminari (Odin
Teatret, per esempio, e Bread and Puppet, che uno dei suoi attori, tra
parentesi, lo avrei ritrovato qualche
anno dopo che giocava a calcio ai giardini del Luxembourg e mi avrebbe invitato
a casa sua, dove viveva con la figlia di un vero banchiere svizzero, che io
fino allora credevo che fosse una specie mitologica, per una serata dove
c’erano 30 persone di 20 nazionalità diverse... sì proprio 20, lo dico perché
nella mia sorpresa ingenuità di allora, ero poco più di un ragazzo, le ho
contate...), e gli allora giovani Francesco Casetti e Alberto Farassino, giovanissimi
assistenti di Gianfranco Bettetini, che un giorno, dopo il mio ennesimo
intervento, mi chiese com’è che non mi aveva mai visto agli esami... per forza,
ero iscritto alla Statale!
ero sempre poco più di un ragazzo,
e lo sono tuttora
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