Louis-Ferdinand Céline, I pamphlets
(scritto nel 1982; magari oggi non scriverei le stesse identiche cose; o quanto meno non allo stesso modo...)
A negare
che Louis-Ferdinand Céline sia uno dei più grandi scrittori del nostro secolo
non è rimasto più nessuno. Constatazione banale, ma che giova ribadire,
soprattutto oggi, dopo che più d’uno si è scandalizzato dell’audacia dell’editore
Guanda che, primo al mondo dal tempo della loro pubblicazione, sta riproponendo
al pubblico, ottimamente tradotti e curati, i suoi libri maledetti (manca
ancora La scuola dei cadaveri, per il
momento). Io penso invece che sia scandaloso che nessuno, nemmeno in Francia,
ci abbia pensato prima, in un’epoca in cui di autori anche molto meno
importanti si pubblicano anche i quaderni di aste dell’asilo.
L’editore
si è preso i suoi rischi, anche giudiziari, e se a compenso ha fatto conto su
un successo di scandalo, tanto meglio: saranno molti di più a leggere i libri e
a discuterne. Senza contare la soddisfazione che si prova nel rilevare che
qualche occasione di scandalo, nonostante l’andazzo generale, rimane pur
sempre. Tanto non c’è pericolo che Céline diventi uno scrittore di moda, se non
per gli inevitabili sciagurati che snobbano tutto quanto oltrepassa i confini
della loro combriccola di birichini. I letterati con un minimo di preparazione
Céline dovrebbero già esserselo studiato da tempo.
Per
tornare ai pamphlets di Céline, è ovvio che presentino problemi, e tanti anche,
così che solo enumerarli in una breve segnalazione come questa sarebbe
ridicolo. Ancor più suggerirne possibilità di soluzione o di uscita. Sarei stupido
e pretenzioso come quelli che in due pagine ti danno la chiave del Finnegans Wake. (Ma io sto esagerando,
suppongo.) Del resto ambedue i volumi sono corredati di due ottimi saggi di U.
Leonzio e J.P. Richard, e per chi vi fosse interessato, la letteratura su
Céline sta diventando così sterminata che sarebbe impossibile che ciascuno non
trovasse ciò che fa al caso suo. Ultimo in ordine di apparizione da noi è il
libro di J. Kristeva Poteri dell’orrore,
tradotto da Spirali Edizioni.
Dice bene
Leonzio che la materia di questi pamphlets (il riferimento è soprattutto
all’antisemitismo, ma credo possa essere esteso anche agli altri argomenti: la
denuncia dello stalinismo, la rivolta contro il potere, l’odio puro e semplice
ecc.) “più che ributtante è intrattabile, impermeabile a qualsiasi giudizio che
non pretenda di usarla”, tagliando
corto con le varie forme di motivazione, spiegazione, giustificazione, accusa
ecc. Il suo enunciato è tuttavia bifronte, dato che potrebbe suonare come
un’abdicazione di fondo, sebbene valga certamente meglio interpretarlo come un
invito ad un impegno.
Non si
tratta cioè di rinunciare ad un giudizio di qualsiasi natura che ad ogni buon
conto nessuno può evitare di formulare (se a qualcuno interessa il mio, dirò
che soprattutto Bagatelle per un massacro
– nonostante varie imperfezioni e lungaggini peraltro forse giustificabili nel
discorso céliniano ma che comunque ci sono –,
è un grande libro, di tremenda forza, con pagine mirabolanti,
descrizioni e resoconti straordinari, una sfrenata invenzione verbale benissimo
ricreata dal traduttore Giancarlo Pontiggia, e uno dei repertori più succosi di
insulti di tutta la storia della letteratura, sulla scia non a caso di
Rabelais) e nemmeno di sminuzzare e tritare l’insieme del testo, come ancora
ciascuno fa per i suoi fini personali, quanto ovviamente interpretare i
pamphlets, singolarmente presi e nei rapporti non solo reciproci ma anche con i
romanzi, per trovarne possibili usi. Ciò che è già una bella avventura.
Facciamo conto di aver smarrito ogni istruzione allegata e di essere di fronte
ad un potenziale strumento che si tratta di imparare a impugnare, di
sperimentare per poterlo conoscere, e magari poi decidere di gettarlo via.
Nessuno intonerà geremiadi per eventuali deliri interpretativi e isterie varie.
Certo è
difficile leggerli con una certa serenità, dimenticare dove ha portato la
violenza antisemita, e per molti aspetti serve tanto poco strologare su chi
fosse veramente l’ebreo per Céline e dire con Richard, magari avendo ragione,
che l’ebreo per Céline non esiste ed è solo una specie di “meticcio
archetipico”, quanto mitigare escludendo responsabilità dirette o risolvere
tutto con acrobazie psicologistiche o rigetti sdegnati. D’altronde chi ha mai
detto che si deve leggere sempre con serenità o che in letteratura è d’obbligo
l’esclusione della morale? Tanto più che Céline stesso, a modo suo (eccome!),
un moralista lo è sempre stato, fin dai tempi del Viaggio al termine della notte.
Come
sorvolare su qualche forma di approccio morale quando il motivo centrale di questi
libri è l’odio? Sempre Leonzio, alla fine del suo saggio, sostiene che “l’odio
è la forma più profonda e incomunicabile dell’amore”. Può anche essere, ma io,
se fossi l’odio, odierei Leonzio. C’è qualcosa nell’odio che non gli deriva
soltanto dall’essere un amore criptico e indicibile. L’odio, e non credo solo
per Céline, è una delle più forti ragioni di vita, e di fare letteratura: come
al paradosso del mentitore cretese è impossibile sfuggirgli, che lo si ami o lo
si odi (a meno che, direbbe qualcuno, non si entri in un altro spazio o in un
altro gioco...). La straordinaria (o terribile... o vergognosa...) epigrafe di Mea culpa dice infatti: “C’è ancora
qualche motivo di odio che mi manca. Sono sicuro che esiste”. E nel Viaggio il narratore si lamenta che a
New York non ci siano portinaie, munifiche dispensatrici “a coloro che sanno
prenderlo e riscaldarlo, ben vicino al cuore, dell’odio tuttofare e per niente,
abbastanza per far saltare il mondo. A New York ci si trova atrocemente
sprovvisti di questo pimento vitale, ben meschino e vivente, irrefutabile,
senza il quale lo spirito sprofonda e si condanna a sparlare solo vagamente e a
farfugliare pallide calunnie. Niente che morda, ferisca, incida, tormenti,
ossessioni, senza portinaia, e venga ad aggiungere con certezza all’odio
universale la scintilla dei suoi mille dettagli innegabili”. (Si dovrebbe forse
aggiungere che, subito nella pagina successiva, è scritto anche che
“bisognerebbe decisamente fermare il mondo per almeno due o tre generazioni se non
ci fossero più menzogne da raccontare”.)
Louis-Ferdinand
Céline, Bagatelle per un massacro,
Guanda, Milano, 1981, p. 306 £ 15.000
Id, Mea culpa – La bella rogna, ibid., 1982,
p. 200, £ 10.000
Robert Poulet, Il mio Céline, ed. Sestante, p. 103, £
17.000
(poi riedito da Elliot edizioni e da Castelvecchi)
Quando Robert Poulet si reca per la prima volta a Meudon a visitare il
vecchio amico che non vedeva da anni, è il 1956. Tornato in Francia da cinque
anni dopo le polemiche, il processo per collaborazionismo e l'amnistia, Céline
vive isolato, con la compagna Lucette Almanzor, in una villetta sbreccata,
circondata da un giardino incolto abitato
da un numero imprecisato di grossi cani e altri animali. Nel frattempo
ha pubblicato i due volumi di Féerie pour
un autre fois (ora inclusi nel terzo volume delle opere della Pléiade con
500 pagine inedite) e Colloqui con il professor Y (ed. it. Einaudi) presso
Gallimard, che ha anche fatto ristampare i due romanzi d'anteguerra, ma dal
pubblico e dalla critica non è venuta altra risposta che quella dell'indifferenza,
inequivocabile come una seconda e forse più amara condanna.
Come scrive l'ottimo traduttore e curatore Massimo Raffaelli, "è un
uomo distrutto nel morale e devastato nel fisico, un'ombra solitaria, cenciosa
e vacillante", uno scrittore che tutti giudicano finito e che, nonostante
i tentativi di risalire la china (si vedano le lettere e le interviste raccolte
nel primo e nel settimo dei Cahiers
Céline), sembra ormai destinato al dimenticatoio, se si esclude una piccola
coorte di fedeli che tuttavia poco o niente riesce a fare per lui. È un uomo
dimenticato ma che non dimentica; il silenzio, che ha seguito e perfezionato le
vecchie "persecuzioni", ha anzi esacerbato il suo umore di innocente
vittima sacrificale degli errori e delle invidie altrui: è un perseguitato che,
anche se confessa di sentirsi "un essere indegno", si è confinato in
volontario esilio ma è sempre pronto a far esplodere le sue ragioni e a
contrattaccare.
Suo coetaneo, Poulet aveva tutto per essere la miccia di questa
esplosione: la sua storia, parallela a quella di Céline sia dal punto di vista
letterario e umano (era stato il suo editore, Denoël, a dargli in lettura le
bozze del Voyage favorendo così la
successiva amicizia), che nelle scelte politiche e nella sorte giudiziaria (anche
lui condannato a morte e poi amnistiato), e il suo carattere, aperto e
entusiasta, lo rendevano l'interlocutore ideale per spezzare le difese del
segregato di Meudon senza farsi scoraggiare o risentirsi davanti agli
sbarramenti che questi avrebbe potuto opporgli. È così che sono nati questi
"incontri familiari con L.-F. Céline" (come suona il titolo
originale) che verranno pubblicati nel 1958, cioè dopo che una famosa
intervista a "L'Express" e la pubblicazione di D'un chateau l'autre, primo volume della trilogia tedesca (che sarà
riedita da G. Guglielmi nella collana Eianudi-Pléiade - cfr. "il manifesto" di domenica
16 gennaio) avranno riportato alla ribalta il caso Céline.
Dopo un inizio titubante, le dighe si aprono e Céline ripercorre le
tappe della sua esistenza e della sua opera, ne legge a Poulet dei brani
"molto lentamente, staccando bene le singole parole, mettendoci più
solennità ed autocompiacimento di quanto non si crederebbe." Parla del suo
lavoro quotidiano di scrittura, alla fine del quale, come dice Lucette,
"ha il sangue alla testa, le mani che tremano, le gambe barcollanti, da
far paura." Se la prende ovviamente con tutti i romanzieri, da Balzac a
Proust, che "hanno idee politiche, rispettano il potere costituito, amano
tanto la mamma." Racconta la genesi del Voyage, torna a spiegare anche a Poulet, che è convinto della
"completa buona fede delle spiegazioni", che i suoi famigerati
libelli più che antisemiti erano diretti contro la guerra imminente, non teorie
ma "frutto della collera e della paura" (sul problema dello studio
dei libelli si veda quanto dice R. Tettamanzi nel numero di gennaio di
"Magazine littéraire", interamente dedicato a Céline, dove si troverà
anche una rassegna dei testi celiniani, degli studi e delle biografie più recenti
o di prossima pubblicazione in quest'anno del centenario).
Col passare degli incontri Poulet si eclissa sempre di più e si limita,
senza inventare nulla ("non un verbo, un dettaglio; lo giuro"), a
riportare i discorsi dello scrittore nella loro cadenza magmatica e ripetitiva,
furiosa e ilare. Il suo è un
"Céline stilizzato", ma
fedele, fedele almeno alle emozioni che suscita in un interlocutore che non
esita a considerarlo non solo il più grande scrittore francese da Rabelais in
qua, ma in tutto e per tutto un "eroe",
l'anticonformista per eccellenza, "un anarchico [che] ha orrore delle
ideologie e dei luoghi comuni." Poulet insomma, trascinato dalla sua
simpatia e dalla sua ammirazione, finisce per accettare tutto quanto esce dalla
bocca di Céline (anche le imprecisioni oggettive che tuttavia Raffaelli
opportunamente rettifica nelle note), e per identificare acriticamente, con un
candore che suscita tenerezza, l'immagine romanzata che Céline offre di sé con
la realtà incontestabile.
Ma, accanto a certe uscite memorabili dell'autore di Morte a credito, è forse questo
l'aspetto più interessante del libro: la costruzione del mito Céline, in primo
luogo, forse, per Céline stesso. È come se col tempo quelle che potevano essere
boutades, depistaggi, sovrapposizioni di caratteristiche dei personaggi a
quelle dell'autore, e anche delle meschine difese, siano doventate verità in
cui il primo a credere è proprio il loro inventore. Ma più probabilmente è
Céline stesso che gioca a confondere le acque e a far perdere le tracce
nell'indistinguibilità del dato romanzesco con quello biografico, che del resto
contrassegna tutto il suo percorso sia artistico che esistenziale. Da causa o
occasione, il dato biografico si trasforma in effetto dell'opera, che a sua volta
incide sulle vicende della vita e sulla persona in modi che di nuovo
incideranno e verranno trasformati dalla pagina scritta, e così via. Tra le
molte trappole in cui sarà rimasto preso, e nonostante l'affermazione e
talvolta l'esibizione di una totale indipendenza, quella tesagli dalla sua
stessa opera sarà per Céline la meno districabile e la definitiva. È il destino
di molti scrittori, sognato talvolta da quelli che se ne sentono esclusi come
un difetto di vita che sarebbe anche difetto d'opera, ma spesso subito come una
condanna da coloro vi si sono trovati invischiati pur essendone gli artefici.
Ed è la trappola in cui spesso cade anche il lettore di Céline che, sospeso tra
l'amore per i suoi grandi romanzi e l'orrore oggettivo delle sue scelte politiche,
quali che fossero le motivazioni soggettive, oscilla tra emozioni e giudizi
opposti cercando di far quadrare conti che non quadrano mai, se non con
razionalizzazioni semplicistiche, talvolta le stesse in cui cadeva Céline ogni
volta che il desiderio di spiegare prevaleva sulla volontà, e le capacità, di
capire.
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