Trasformano
ogni nefandezza in gesto clamoroso, immortale; lo innalzano al cielo ed è solo
lì che noi lo possiamo vedere, timorosi e incantati. Ma il modo giusto di
guardarli si avvicina più a quello di Tersite, il calunniatore, il fifone,
l’ultimo a partire e il primo a fuggire, la voce dal basso, che proprio per
questo viene percosso e cacciato dall’assemblea, e infine ucciso. Il lettore
sagace può già indovinare da chi.
Facile:
proprio dall’eroe per eccellenza, Achille, che era stato da lui deriso per essere
stato colto, si narra (a meno che fosse una menzogna di Tersite: ma chi l’ha
raccontata se lui è stato soppresso immediatamente?), in un momento di
bestialità e di debolezza. (Ma anche in un momento in cui la bestialità, il
tornare prima dell’umano, contiene anche il germe dell’andare oltre, un che di
metafisico che travolge l’eroe mentre indugia, disorientato, sconvolto, sul
suo limite inferiore, scoprendo che forse è lo stesso di quello superiore.)
Tersite
sorprende Achille mentre si accoppia con il cadavere di Pentesilea che ha appena
ucciso e, come di consuetudine, spogliato delle sue armi, che andranno a
rimpinguare il bottino. Allora vede quanto è bella la terribile guerriera e
viene preso dal desiderio di possederla. E lo fa. Non avendo potuto averla da
viva, violentarla come si fa con le donne dei guerrieri; avendo dovuto
ucciderla per soggiogarla, in quanto grande guerriera essa stessa, ora che ne
scopre la divina bellezza viene invaso da un desiderio irresistibile, assoluto,
a cui non sa opporsi, e si accoppia con la morta. È solo desiderio bestiale? O
non è anche la resa alla quale chi non si arrende davanti a niente e a nessuno,
chi travolge ogni ostacolo, è costretto da ciò che ostacolo non è più e lo
travolge con l’assoluta bellezza dell’inermità che solo nella morte appare? Non
è con la morte che si sta allora accoppiando? E quindi non è questo che suscita
la derisione di
Tersite, che ride proprio per
difendersi, come spesso avviene davanti a ciò che supera e non si capisce, a
ciò davanti a cui altra difesa non c’è, per non esserne sopraffatto? In questo
riso Tersite però vede, e mostra ad Achille, la morte che lo attende,
l’attrazione che lo soggioga nel mentre stesso che gli fa orrore e vorrebbe
evitarla. Achille non tollererebbe, allora, che la sua debolezza venga
smascherata dal più debole. Per evitare che proprio da lui venga resa pubblica,
sopraffatto dalla rabbia, e dalla inconfessabile vergogna, lo uccide.
La
derisione non è la lucidità. Tersite vede qualcosa che è solo alla lettera.
Nella lettera c’è tanta verità, ma non tutta.
C’è,
in questa storia, una serie di cedimenti e di sconfitte, che ruotano tutte
attorno alla morte, e non lasciano scampo a nessuno, in primo luogo a chi la
infligge.
Ero
partito dall’idea della lucidità che qualcuno lega al rancore, pensando che
avesse una parte di ragione. E invece mi sono accorto che non è così. Lo sguardo
che nasce dal rancore mostra alcune cose che forse erano poco evidenti, ma non
per questo è lucido, perché il suo occhio è al contempo acuto e torbido. Non è
dal rancore che la lucidità e il disincanto nascono. È sì dal rifiuto
dell’incanto, dalla sua oppressione, perché anch’esso viene da una violenza,
che talvolta nasce il rancore; ma il rifiuto dell’incanto non è automaticamente
il disincanto, e tantomeno la lucidità.
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