Da
Rabelais a Gadda, specie nella forma parodica o decisamente comica
dell’enumerazione caotica, genealogie elenchi e repertori hanno assunto un
ruolo sempre più cospicuo nel romanzo; la loro tradizione però è tanto antica
da confondersi con la tradizione stessa coetanea delle origini, si tratti delle
genealogie bibliche o del catalogo omerico delle navi o esiodeo delle donne.
da
gesto della memoria, classificatorio e ordinatore, a recensione del caos, tale
è ormai la loro rilevanza anche estetica che è un luogo comune della critica
rifiutare credito al lettore (fermo restando che è libero di fare ciò che più
gli aggrada senza rendere conto a nessuno) che incontrandole li salti o provi
noia, sia per la sensibilità verso la parola che implicano, sia soprattutto
perché alla loro base sta il bisogno primario di nominare, che è sì dividere,
delimitare e anche negare le cose, ma è insieme farle vivere, conservarle nel
momento stesso della loro cancellazione. Anche nel senso che le cose muoiono e
i nomi restano.
Muoiono
anche le parole, certo, ma possono sempre essere recuperate, e Georges Perec ha
potuto inventare un personaggio che di professione fa l’ammazzaparole,
togliendo dai dizionari quelle cadute in disuso, ma la cui passione è riportare
in vita quelle che “a lui continuavano a parlare”.
Il
personaggio si chiama Cinoc, deformazione di un nome ebreo-polacco (come
ebreo-polacco dal nome deformato era Perec), ed è uno delle centinaia che
affollano La vita istruzioni per l’uso,
l’opera principale di questo scrittore francese morto nel 1982 a 46 anni e tra
le più importanti in assoluto e nuove dell’ultimo decennio, ora ben tradotta
per Rizzoli da Daniella Selvatico Estense. Perec aveva quello che i giapponesi
chiamano mono no aware, il pathos
delle cose, il sentimento della loro caducità, specie di quelle (oggetti,
persone, gesti e luoghi), che proprio perché costellano la nostra quotidianità
cadono fuori dalla nostra percezione pur essendo lo sfondo che la rendono
possibile, e ad esse rivolgeva la sua attenzione recensendole con sistematica
ostinazione, nominandole in lunghissimi cataloghi per dotarle di quella
consistenza che la semplice realtà fisica non basta ad assicurare loro.
Nominare diventa così l’atto supremo, quello che rende percepibili le cose e,
biblicamente, le porta ad esistere: nominare tutto, perché nulla ne è indegno,
e nominare piattamente, senza ulteriori specificazioni o attributi, per
cominciare a guardare. A vedere.
“non
dire, non scrivere ‘ecc.’. Sforzarsi di esaurire il soggetto, anche se ciò ha
un’aria grottesca, o futile, o stupida. Non si è ancora guardato niente”,
scriveva infatti Perec in un altro notevole suo libro, Espèces d’espaces. Le due azioni del resto per lui si
sovrapponevano: “l’aleph, il luogo borgesiano in cui il mondo intero è
simultaneamente visibile, è forse altra cosa da un alfabeto?”.
Tutto
però non è possibile nominare: occorre delimitare, e nulla impone un inizio
necessario né la via per proseguire; occorre darsi delle regole (tanto più che
per Perec senza regole non esiste letteratura, ed è sempre necessario
inventarne di nuove una volta cadute quelle istituzionali, allargando così le
potenzialità delle scrivere.
Ed
ecco la scelta di uno stabile parigino, del quale vengono minuziosamente descritti
locali, mobili, oggetti e le generazioni degli abitanti con le loro storie,
secondo uno schema che gli scacchisti chiamano “la poligrafia del cavaliere”,
così che ogni capitolo corrisponda a uno dei cento vani e contenga tutta una
serie preordinata di temi, citazioni, allusioni storiche e geografiche ecc. in
permutazioni regolate dal bi-quadrato latino di ordine dieci.
Ma
se le regole aiutano a ordinare e delimitare, tutto torna poi a debordare: ogni
cosa si apparenta o può apparentarsi a ogni altra, è già o può diventare una
storia, e ogni storia richiama, riprende, sviluppa, integra o falsifica le
altre, così che nel caseggiato rientra il mondo e le storie dei suoi abitanti
comprendono tutte le storie possibili (o almeno tutti i generi di storia possibili
avventuroso, psicologico, sentimentale ecc.: non a caso il sottotitolo dell’edizione
originale dice Romanzi).
La
più importante di queste storie, che agglutina quelle di molti abitanti dello
stabile, è quella del ricchissimo Bartlebooth, il quale, sprovvisto di
interessi e passioni, decide di dedicare la propria vita a un’opera del tutto
arbitraria e che dovrebbe, compiuta, annullarsi completamente: apprende con
diligenza per dieci anni l’arte dell’acquarello per la quale non ha nessuna
predisposizione, e gira il mondo per i venti successivi a dipingere 500 marine
che, trasformate in puzzle unici da un artigiano di nome Winkler, ricostruirà
nel ventennio ulteriore per farle infine tornare al luogo d’origine, dove con
un procedimento chimico verranno cancellate così che resti solo il foglio
bianco, il vuoto iniziale.
Non
riuscirà nell’impresa, perché su ogni progetto, per quanto ferreo, incombe
sempre il caso, che per Bartlebooth prende la forma sia di una progressiva
cecità sia dell’intervento degli uomini. Il vuoto in cui si vive non è mai
totale, sempre viene scalfito, invaso da quello degli altri uomini, ed ogni
percorso, pur andando dal nulla verso il nulla, è destinato a lasciare dei
resti. Bartlebooth poteva credere che
gli uomini si disinteressassero a lui poiché lui non di interessava a loro, o
fossero solo degli strumenti perché lui li considerava tali, ma proprio questi
intralceranno il suo progetto e lo faranno fallire.
Tanto
più che nessun progetto è perfetto, e nel suo egli non aveva calcolato fino in
fondo che lui aveva dipinto con indifferenza le marine, ma i puzzle li aveva
fatti un altro, non indifferente al proprio lavoro invece, e che ogni gesto
“che compie l’attore del puzzle, il suo autore lo ha compiuto prima di lui”.
Non aveva pensato che nel suo progetto poteva insinuarsi quello di un altro,
che di lui si sarebbe vendicato: e difatti Bartlebooth muore davanti a un
puzzle a cui manca solo un pezzo, dalla “sagoma quasi perfetta di una X”,
mentre quello che “tiene tra le mani, da molto tempo prevedibile nella sua
stessa ironia, di una W!, l’iniziale cioè dell’autore del puzzle, Winkler
(nonché il titolo di un’opera semiautobiografica di Perec stesso W o il ricordo d’infanzia).
La
sua negazione di ogni opera è diventata oggetto dell’opera di altri (Winkler,
Perec), il senso che egli rifiutava alla vita lo ha sopraffatto dimostrandosi
ancora più assente di quanto egli pensasse, o almeno diversamente assente, e la
sua vita non ne ha acquistato altro se non, ironicamente, quello di diventare una
metafora in un’opera, che è appunto il resto che ogni tragitto dal nulla al
nulla deposita, per chi lo voglia raccogliere.
Una
storia che a tutte le altre si intreccia e solo nel loro insieme va
considerata: ogni tessera del puzzle infatti, se mostra una cosa, è solo un
frammento di altre, diversa a seconda di come è vista e delle combinazioni in
cui entra.
Come
suggeriscono la citazione iniziale di Klee: “L’occhio segue le vie che
nell’opera gli sono state disposte”, il voluminoso apparato delle appendici
comprendente la pianta dello stabile, l’indice dei nomi, i riferimenti
cronologici e i cenni sintetici delle storie principali, oltre a numerose
indicazioni di Perec stesso, noi saremmo indotti a pensare che egli, da autore
sapiente e attentissimo, le combinazioni le ha previste tutte invece; ma Perec
non ha commesso lo stesso errore del suo personaggio, sapeva che molti altri
percorsi può creare il lettore e molte altre storie sono possibili: i vani sono
cento, infatti, mentre i capitoli sono novantanove e il titolo dice chiaramente
che si tratta di istruzioni per l’uso.
Georges
Perec, La vita – Istruzioni per l’uso,
Rizzoli, 1984, p. 582, £ 28.000
Leggi anche:
Su Il condottiero e altre pubblicazioni su Perec
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