Ho scritto questa nota per un libro di Lucio Klobas che aveva questo titolo. Non ricordo se per l’edizione del 96, con la presentazione di Giuliano Gramigna, o per una ancora precedente. L’ho ritrovata poco fa (aprile 2012) e la metto qui: qualche riga nella storia della mia amicizia più antica e duratura. Con foto d’epoca.
***
Che cos’è un pensiero estremo? È meno quello che si pensa alla fine che quello che pensa la fine; ma ancor di più è quello che, alla fine, pensa tutto; quello che, dopo la fine, pensa tutto dall’inizio alla fine, e lo pensa fino in fondo, portando tutto alle estreme conseguenze.
E cosa vede da lì? Vede tutto chiaramente, con una lucidità spietata (senza pietas e senza pathos), ogni cosa, ogni gesto, ogni azione o sequenza di azioni, e tutte le vede nel loro essere e insieme nelle loro possibilità, nel passare di ogni singola in ogni singola altra, nella loro lotta senza fine che ormai una fine l’ha trovata, nel loro essere insieme se stesse e le altre, quelle che sono e quelle in cui si trasformano o che le annientano, reali e immaginarie, identiche e contraddittorie, ognuna, insieme, se stessa e le altre, ognuna microscopica e enorme.
Come si manifesta un pensiero estremo? In una risata, sonora e innocente, come quella delle comiche finali? Mi piacerebbe crederlo. E invece no. Non ne sono sicuro. E adesso che ci penso meglio, non credo neanche che mi piacerebbe. Il pensiero estremo non è superiore. La risata divina non gli appartiene. Viene prima. Magari di poco, ma prima.
Come si esprime allora? Perché deve esprimersi, se è un pensiero. Magari lo sapessi! Ma se devo fare un’ipotesi, mi viene in mente solo una narrazione. Una narrazione in cui il principio di verosimiglianza, e quello di non contraddizione, le gerarchie di primario e secondario, necessario e superfluo, originario e derivato, sostanziale e accessorio, reale e possibile, concreto e astratto, non sussistono più, se non nel loro incrociarsi, sovrapporsi e congiungersi ad una velocità vertiginosa che trapassa dall’uno all’altro senza permettere che niente si materializzi in un aggancio a cui aggrapparsi né in un brandello su cui posarsi e riposare; eppure, insieme, questa velocità sarebbe statica, fissa, come un approdo definitivo. Ogni cosa è evidente e tutto sfugge: non c’è riassunto, la storia si dissolve nella banalità di un niente. Eppure tutto è stato detto. E così sia.
Nessun commento:
Posta un commento