Leggo lentamente, con la matita in mano. Non lo faccio sempre, ma quasi. Alla fine, specie se devo scriverne, torno a rileggere più velocemente il libro facendomi guidare dalle sottolineature. Allora, o quando riprendo il libro magari dopo mesi o anni, vedo quanto siano eterogenee (curiosità, titoli, informazioni utili, frasi in qualche modo significative per capire il libro, o solo suggestive, belle), e come sempre mi accorgo che più che la sua comprensione mi rimandano una specie di mio autoritratto di quando l’ho letto, un’istantanea delle mie priorità del momento, una sezione trasversale della mia anima. Un foglio della mia storia, ma vista di sbieco, passando su una superficie, o guardando uno specchio, in cui è già presente l’immagine di un altro.
Dentro ci sono i foglietti sui quali prendo gli appunti. Raramente prendo nota a margine, perché a volte lo spazio bianco a disposizione mi induce a sviluppare l’appunto, come qui, o addirittura a dargli già una forma. I margini non lo permettono. E io scrivo talmente poco che non voglio che questioni di spazio mi frenino quando mi capita di averne l’occasione.
A volte però rileggendo dopo tanto tempo, mi accorgo che avrei sottolineato le stesse cose, come ho già scritto in un altro appunto. Cosa che non so se interpretare positivamente, per avere individuato già alla prima lettura i punti salienti; o negativamente, come povertà della mia anima (o comprensione, o intelligenza), per non essere evoluta di una virgola in tutto il tempo intercorso.
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