20/05/14

Signora nel Museo medievale di Bologna.


a Silvia Delevati



e c'era questa signora, nelle sale altrimenti vuote del museo medievale, che sentendo le chiacchiere a ruota libera che andavamo facendo io e Silvia, che conosceva bene il museo avendoci fatto il tirocinio e un po' lavorato come guida, dapprima ha rallentato il passo come se niente fosse per accordarlo al nostro restando nei paraggi, alle nostre spalle, e a portata di voce per poi guardare dopo che ci eravamo discostati gli oggetti e le opere su cui per qualsiasi motivo ci eravamo soffermati, armata dei cartoncini illustrativi reperibili in ogni sala e che comunque prima o dopo leggeva diligentemente, forse per confrontare ciò che andava sentendo, se ve lo ritrovava o meno o discordava da quanto Silvia illustrava e io strologavo, e poi, dopo essersi timidamente informata se era una visita guidata (ma di chi a chi? in due?), ci ha ancor più timidamente chiesto se si poteva accodare pur restando in disparte, cioè il permesso di fare apertamente, e forse con un animo più sollevato, meno preoccupato di mascherare attenzione e movimenti, ciò che aveva fatto sino allora, e che quindi, alla nostra ovvia quanto stupita risposta affermativa, è rimasta con noi per quasi tutte le sale, praticamente fino a quando io sono andato alla toilette (dove non mi ha seguito), ringraziandoci infine, prima di lasciarci, per la visita che ha definito "molto emozionante", del tutto sincera, senza la minima sfumatura che potesse indicare solo cortesia e buona educazione (solo!, ma già quello non sarebbe poco), perché si vedeva benissimo che per lei quel giro nel museo, quella passeggiata dai movimenti e ritmi liberi e leggeri, regolati unicamente dalla serenità del vedere e scoprire e lasciare che ciò che si sa e si immagina si intrecciasse con divertimento e senza alcuna presunzione ma non per questo impaniato nell'arbitrio di un'invenzione senza fondamento, quel modo di accostarsi agli oggetti e di lasciarsene incantare senza la minima sfumatura sacrale ma anche senza la minima sfumatura di cinismo: qualcosa di abbastanza banale, tutto sommato, perché Silvia mi indicava alcune delle sue opere preferite dandomi le informazioni del caso, mentre io al solito saltellavo da un'opera e da una vetrinetta all'altra soffermandomi dove l'occhio era stuzzicato lasciandomi andare a qualche osservazione o descrizione o raffronto con altre opere e luoghi o fantasia, e battuta più o meno felice, quanto spesso la mia inveterata debolezza, ma in questo caso anche la gioia della compagnia mi spingevano a esprimere..., e che tutto questo, insomma, per lei doveva essere stato qualcosa di nuovo, un'esperienza, se posso azzardare un termine così
forte e abusato, inedita, se non addirittura impensabile prima, e così intensa nella sua imprevedibilità che mentre ringraziava e salutava la sua voce, e un po' anche il corpo, in modo quasi impercettibile, era come pervasa da un sommesso tremolio, da una trepidazione non so se inconsapevole o rattenuta a fatica, tanto che allora anche noi, o perlomeno io, anzi io e basta, perché qui parlo per me, sono stato percorso dal riflesso di questa trepidazione sulla pelle, e sotto, in forma di un'emozione che ho avvertito solo dopo però, fuori dal museo, come lo spostamento d'aria di una porta basculante, ma più forte di tutto ciò che avevo provato nelle sale, e certo anche da esso preparato, davanti a tutte quelle belle cose impreviste, e per la gioia di aver rivisto Silvia dopo tanto tempo e di aver percepito anche in lei, al di là delle parole, la traccia di qualcosa che in passato potevo averle impresso e che ancora permaneva in ciò che ora è.


18/05/14

Due paesaggi di Jacob van Ruisdael dalla Mauritshuis, L'Aia, visti a Bologna





E c'era questo piccolo Paesaggio invernale di Jacob van Ruisdael, tutto giocato sulle gradazioni del grigio con un ritaglio di cielo azzurro sulla sinistra che si riverbera sulle nubi e per il resto una scena buia, quasi notturna, che vorrebbe trasmettere una certa sublime terribilità (o tristezza) con questi alberi in primo piano, forse delle querce, che a dispetto della stagione sono ancora addobbati di tutte le loro foglie, come un altro cespuglio più in basso, perché i loro riflessi bianchi, gli orli ghiacciati come l'argine della stradina che porta alle capanne verso cui si dirige un contadino piegato sotto il suo strumento (un rastrello? una falce? ma per che cosa con quel tempo, con tutto attorno indurito dal freddo come marmo?), servono al pittore a accentuare il senso di gelo... un luogo di immaginazione, tutto pensato in studio, frutto di un'osservazione che ha smarrito quanto non le serviva perché la realtà non interferisse con la composizione, con il senso generico di paesaggio, e di paesaggio generico, che si intendeva rappresentare, tutto subordinato a masse, forme e colori, come è giusto che un quadro sia, non fosse qui troppo prono all'imperativo dell'effetto, al pensiero dello spettatore che apre la bocca per ammirare, e il portafoglio per acquistare.



...e poi quest'altro (Veduta di Haarlem con campi di candeggio, 1670-75 ca.) con il cielo in sezione aurea, si direbbe, in una di quelle inquadrature con l'orizzonte basso e il cielo altissimo a cui ci hanno abituato i western americani, a suggerire un'epica degli spazi che qui si coniuga però con la gloria del quotidiano, coperto di quelle nubi che nelle vicinanze del mare trascorrono veloci sulla costa lasciando sempre spiragli per una luce limpida, lucida, che a macchie bagna, o incendia, a seconda dell'ora, la costa, e qui, una campagna in primo piano dove lunghi nastri di lino sono srotolati per terra e ondeggianti sui fili degli stenditoi per asciugare, bianchissimi, tanto da sbalzare quasi in rilievo sul fondo dorato della terra sabbiosa, e Haarlem in fondo, ridotta a una striscia di pochi centimetri di altezza, ma con tutte le chiese e gli edifici che la rappresentano bene in risalto e il resto inondato dalla luce che brilla, mentre in alto, a punteggiare le nubi, volano uccelli che, se ricondotti alle proporzioni prospettiche, rispetto agli omini nei campi in primo piano e alle case all'orizzonte, potrebbero essere degli pterodattili, se non dei cacciabombardieri, eppure non disturbano, stanno bene lì, librati per sempre nel cielo a tracciarne la profondità, a suggerirne le vie.

13/05/14

Anime tra i piedi

 
Ci sono queste anime, non so di chi, ma piccole, che mi stanno sempre tra i piedi, girano attorno ai polpacci, volteggiano lungo le cosce per poi sostare un attimo, come a riposare, sulle ginocchia e scendere di nuovo tra i piedi, o di lato, nell'erba, sopra le pozzanghere, tra un sasso e l'altro. Sono invisibili, ma ogni tanto si lasciano sfuggire un riflesso, un minimo bagliore. Forse appartengono a animali, non so, o a qualcuno che magari ho conosciuto, o gente che semplicemente era qui, piante non più vincolate alle radici ma ancora a questa terra, esseri viventi di ogni specie e grandezza, turisti incorporei, perditempo come me, che però di tempo ne hanno in abbondanza...: fatto sta che me le ritrovo sempre tra i piedi. Sono lì, piroettano, saltano, disegnano traiettorie sinuose, annodate, in arabeschi, si lanciano in brevi scatti e si arrestano di colpo, si esibiscono in salti mortali, carpiati, avvitati, in microscopiche picchiate, poi tornano a sfiorarmi le suole, a sfidarmi a calpestarle. Si divertono così. Ma sono anche un po' svagate e, inebriate da tutti quei virtuosismi, si distraggono e vengono sorprese da qualche mio movimento brusco, uno di quegli scarti, o piccoli inciampi, provocati dalla strada sconnessa e soprattutto dalla mia andatura maldestra, o da un arresto o una ripresa improvvisa dopo una sosta che nulla giustificava (ma un capriccio, una curiosità, il preannuncio o l'eco di un piccolo malanno, la distrazione, non sono nulla...), che le costringono a schizzare via di lato, a piegare qualche stelo e lasciarsi sfuggire una scintilla di luce bianchissima, un luccichio incandescente sulla soglia del visibile. A rivelarsi. Allora sto più attento a dove metto i piedi, ma non posso farci niente: ogni tanto ho paura di calpestarne qualcuna. Ma appena lo penso, un ciuffo di steli che ondeggia, un riflesso più forte, un lampo che balena, mi rispondono come un sorriso. (Di tenerezza, mi pare.) Forse anche questo fa parte di un loro gioco, di una danza: il gioco della linea interrotta e della deviazione, la danza del disorientamento... Inutile sperare un qualche rigore, non sa nemmeno cos'è l'esprit de géometrie, questa gentaglia. La logica gli fa un baffo! La nostra. Ma dubito che ne abbiano una loro, anche. A cosa gli servirebbe? (Non so... però io credo che una logica servirebbe a tutti. Troppo facile, senza! Tutti che si fanno i loro comodi, e chi s'è visto s'è visto! I delinquenti gongolano, gli imbecilli assentono. E subiscono, senza capire né come né perché. Non mi dispiacerebbe, se non ne pagassi le conseguenze io pure... Che sia un imbecille anch'io? E neanche tanto alla lontana?)
Stavo rimestando queste fantasie, prima, quando ho visto, fermo su un gradino al salt del gatt, un pettirosso che mi osservava pacifico, per nulla su chivalà, pronto a fuggire come quasi sempre accade. Mi guardava dritto, poi gonfiava il petto, e intanto mi sbirciava, rilasciava il fiato, mi fissava e gonfiava il petto ancora. Poi ha fatto un saltello sul gradino superiore, è ridisceso, si è voltato verso di me, ha gonfiato un'ennesima volta il petto, facendo anche lui una piccola danza. Nel frattempo un piccolissimo uccello si è alzato in volo lì accanto e si è diretto, velocissimo, nella macchia sull'altra parte della strada; e poi un altro, con una coda lunga, striata di bianco e giallo sul fondo scuro del resto del piumaggio, e accanto il solito merlo di quel microterritorio, quello della planata al rallentatore dell'altro giorno, che si godeva la scenetta tra me e il pettirosso. Questo rito di seduzione perfettamente riuscito.


Poco prima mi ero meravigliato perché lo scoiattolo che staziona verso la fine della salitella era rimasto fermo per un po', a terra, tra le foglie, quasi indistinguibile, mentre passavo, anche lui a guardarmi per nulla spaventato. Ho ricambiato il suo sguardo, finché lui, come accertatosi che avessi capito (ma cosa?), ha preso tranquillamente la strada verso il suo albero e lì è rimasto, sgranocchiando qualcosa, ad aspettare che io tranquillamente riprendessi la mia.
Non so...

09/05/14

Credevo fossero semi




Credevo fossero semi, ma volavano troppo veloci e con scarti improvvisi incompatibili con la scarsa ventilazione. Non convinto, ho guardato meglio: erano piccoli insetti, con una minuscola testolina scura, una lunga coda trasparente e ali che il movimento rapidissimo rendeva bianchicce e semisolide, morbide come un batuffolo pulsante, forsennato.
Non li avevo mai notati; forse non sono altro che i moscerini che stazionano sul ponte e che mi assaltano ogni volta che passo come a volermi sbranare; o chissà che altro... trasformazioni stagionali di questo o quello, metamorfosi prime o ultime.
Ero a metà passerella, di ritorno dalla passeggiata, con il sole negli occhi, ma ancora fioco e filtrato dalle lenti polaroid; e allora, forse, li ho visti per la prima volta proprio perché erano controluce, e la luce radente non era abbastanza forte da accecarmi ma sì da scontrarsi con quei bruscoli diafani e disegnarne i volumi, e io ero rilassato, senza pensieri, e non guardavo niente in particolare.