Sono
frasi che cominciano da una parte e non si sa dove andranno a parare, come
succede quando uno parla con un certo trasporto, e non lo sa nemmeno lo
scrittore, che ne segue il corso stupito (è il demone, la necessità interiore,
l’ispirazione!), e poi, alla fine, le rilegge, cerca di raddrizzarle, di
riequilibrarle, magari aggiungendo qualche finezza (qualche leziosità), un
tassello qua e là, degli echi, di modo che alla fine tutto tiene, bene o male,
e lui è contento, tanto che a volte, staccandosi da questa bella soddisfazione,
che nel mio piccolo conosco anch’io, ed è per questo che ne parlo, e ne parlo
giustappunto con questa frase qui, simile a quelle di cui sto parlando,
staccarsi, dicevo, e cancellare tutto, o tagliare qua e là, solo perché c’è
quella parola, quel passaggio che più di tutto gli piace, che più di tutto,
scrivendolo, lo ha sorpreso, è impossibile: e la lavora ancora, ma tenendo
tutto o quasi, perché questa è l’arte, si dice, il mestiere... Perché tutto
deve essere detto, ogni strada imboccata ha da essere percorsa fino alla fine,
lunga o corta che sia, ogni dettaglio cesellato e laccato, ogni detrito
recuperato, reso funzionale, redento, con qua e là, magari, qualche parola che
spicca come fuori luogo, per studiatissimo effetto di abbassamento, o solo di
cambio di registro, per sprezzatura. La sublime sprezzatura! Perché senza di
essa a parlare sembra sempre un signorino, un elegantone di primo pelo, come
Proust con la sua racchetta, un giovane snob così patetico, in fondo, che ci
commuove, che ci commuoverebbe anche se non ne conoscessimo l’immensa
grandezza.
Racconti, libri, mostre, divagazioni, recensioni, speculazioni varie
28/11/16
Libri e strade
Un amico mi invita a scrivere una cosa per un importante giornale. Faccio il renitente. Strano!
– Sai, fa girare il tuo nome, può essere utile per i tuoi libri…
– Quali libri? Nessuno è arrivato in libreria e un libro che non ha visto una libreria non esiste. Se qualcuno c’è arrivato, è stato perché aveva sbagliato strada e, non appena lo hanno scoperto su uno scaffale, gliel’hanno subito fatto notare.
– E quale sarebbe la mia strada? –, ha chiesto il tapino (il libro, intendo).
– Non so,– gli hanno risposto. – Di sicuro non questa.
Eh sì, questa no di sicuro…
Qual è la loro strada, allora?
Nessuna.
Non c’è strada.
Non c‘è strada e non c’è libro.
(– E allora?
– Eh, allora…!)
25/11/16
Verso Arles
Sul treno che mi porta da Nizza a Arles, entra nel mio
scompartimento una donna obesa con il figlio down adolescente. La donna ha i
capelli rossi, la pelle lentigginosa. Indossa un lungo vestito di leggera
stoffa indiana (di cotone, mi pare, o di seta di bassa qualità), chiuso sul
davanti da una lunga fila di bottoni che scendono fino all’ombelico. Quando si
siede la stoffa si tende e tra un bottone e l’altro si apre in
grossi occhielli da cui deborda la carne nuda. La parte inferiore dell’abito,
lunga fino ai piedi, sdrucita agli orli, le consente di allungare comodamente
le gambe, più che divaricate, spalancate senza ritegno.
Legge una dopo l’altra tre riviste femminili. Il
ragazzo ne sfoglia una di programmi televisivi e scherza allegramente. Fa lo
stupidello, ma non in modo pesante. Lei gli dice ogni tanto di smetterla,
sbirciandomi meno per assicurarsi che io non sia disturbato che per cercare un
contatto, che il mio sguardo rifiuta. Fingo di non capire il francese: che sono
straniero lo dimostra il libro che sto leggendo. La scuola è finita da poco e
ho voglia di stare zitto. Vado a Arles per stare qualche giorno nel mondo da solo, con la ferma intenzione di non
aprire bocca, se non lo stretto indispensabile: ricerca della
camera, ordinazioni al ristorante, acquisto biglietti delle mostre, saluti di cortesia. Il
ragazzo parla a voce alta con parole a volte pasticciate e frammentate, credo
apposta, come per attirare l’attenzione della madre, per coinvolgerla nel
gioco. In certi casi infatti lei lo corregge. Lo fa sempre con tenerezza,
quella forte della calma amorosa, non quella esibita; mai una sbuffata o
un’occhiata spazientita. Lui segue con il dito le righe stampate, si sofferma
su certe foto, gioca con i listelli di plastica non perfettamente incollati
alla base del finestrino, facendoli schioccare. All’improvviso si volta,
abbraccia la donna e le dà un bacio. Infine si addormentano entrambi.
Sonnecchio anch’io. Va tutto bene. Sì.
23/11/16
Santo fortunato, ma anche un po' disordinato (Lisbona)
e poi c’è questo santo fortunato, ma
anche un po’ disordinato, a giudicare dai libri sulla mensola, pochi eppure
messi lì alla rinfusa, appoggiati come capita capita dopo l’uso, con una certa
sprezzatura, perché sembrano codici miniati di qualche pregio, e comunque libri
sacri, che non meritano di essere trattati così, e non lo meriterebbero nemmeno
se sacri non fossero (ma forse tutti i libri sono sacri), che prega davanti a
un breviario spalancato su un leggio. Le pagine non stanno ferme, alcune si
alzano e lui le legge di sguincio, ma non gli importa, perché le ha recitate
tante volte che le sa a memoria e le tiene aperte davanti a sé solo per
controllare qualche breve passaggio, o perché il libro è una metonimia per il
suo contenuto e lui è davanti a quello che sta pregando, è quello che adora con
gli occhi del pensiero. E lui è un bravo santo, e proprio per questo ha la
fortuna di un angioletto cicciottello tutto per sé accoccolato sul piano di
lavoro del leggio, che gli fermerà le pagine dovessero girarsi prima del tempo
e intanto col ditino tiene il segno in un altro libro che il sant’uomo leggerà
appena dopo, a meno che non sia lui che intende suggerirgli la meditazione
successiva e per questo gli prepara la pagina opportuna. Il bimbo, senza ali,
che magari un angelo non è e simboleggia solo qualcosa che al momento non posso
né voglio verificare, ha le guance rosse per lo sforzo e la concentrazione; si
vede che ci tiene a lavorare bene: forse è al suo primo incarico e vuol fare
bella figura, anche se non capisce perché l’hanno mandato lì senza niente
addosso. La stanza però è soleggiata, entra una luce calda, che indora tutta
l’ampia cella di rimbalzo dal vicino oceano, lungo le cui spiagge, in
Portogallo, in questa stagione freddo non fa: anche se questa, comunque, non è
una buona scusa per andarsene a spasso nudi. A meno che non sia il bambin Gesù,
accorso in prima persona a servire il suo santo prediletto: i Grandi hanno di
queste delicatezze (dico i veramente grandi, non le loro infinite parodie). Poi
magari sistemerà anche lo scaffale levitando in aria con quei libri
sottobraccio, che meno male che non sono troppo voluminosi. Il santo non gli
bada, o lo scambia per una pura, e più verosimile (per modestia, non per poca
fede), visione interiore: ha un bel volto, rigoroso ma non emaciato. Quasi
dolce, anzi. Concentrato, ma senza sforzo. Con naturalezza, piuttosto. Il volto
di chi prega amando la preghiera. Il panneggio dell’abito, dal tessuto morbido
che senza stropicciarsi asseconda con le sue pieghe i movimenti o le posture
del corpo, mi sembra un riflesso, o la traduzione visiva, di quello che sta
pensando. Qualcosa di bello, che rasserena. O forse a pensarlo, e a essere
rasserenato, sono solo io, che mentre lo guardo ogni tanto volgo la testa verso
la finestra e mi sento avvolto dalla stessa luce e dallo stesso calore.
05/11/16
Cosa dicono i morti
Dialogo tra mia nonna e mia mamma, al ritorno di quest'ultima dall'ospedale dove è andata a visitare la salma di una cugina morta improvvisamente, la notte precedente, per un infarto.
- E alùra, ta l'é ésta? l'è pròpe mórta?
- Sé, l'ó ésta... L'è morta dè bù, puarìna.
- Signùr, chè disgràsia! E 'sa la dìs? 'sa la dìs?
Traduzione per i non bergamaschi:
- E allora, l'hai vista? è proprio morta?
- Sì, l'ho vista. E' morta davvero, poverina.
- P gesù, che disgrazia! E cosa dice? cosa dice?
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