16/12/17

Daniele Del Giudice | Lo stadio di Wimbledon (1983) - Atlante occidentale (1985)




Lo stadio di Wimbledon (07-08-1983)
Uomo dei nodi, che si prodigava a intrecciare e a sciogliere; amico e consigliere non solo letterario di scrittori, nei quali ha disseminato impronte in molti casi di spessore inversamente proporzionale alla pubblica percettibilità; lettore inesauribile prima ancora che professionale, alla costante ricerca di novità e di capolavori misconosciuti; morto per suicidio, scelta sempre fascinosa per gli altri, senza lasciare quell’opera che molti si aspettavano da lui, e forse anche per questo aureolato presso i sopravvissuti, come capita, di una sempre crescente fosforescenza numinosa, a Roberto Bazlen non mancava nulla per diventare un ideale soggetto romanzesco. Gli mancava solo il romanzo. E così quando Einaudi ha pubblicato Lo stadio di Wimbledon del trentaquattrenne Daniele Del Giudice, che ha poi meritatamente vinto il Premio Viareggio per l’opera prima di narrativa, è sembrato che un’inspiegabile lacuna fosse finalmente colmata.
Ovvio quindi che si siano subito occupati in molti del libro e che non siano mancate rievocazioni e testimonianze su Bazlen e altri personaggi, attivi o appena nominati, nel romanzo, come Gerti Ljuba Montale Svevo o Giotti, di suggestione si troppo prevedibile per il cultore delle patrie lettere. Non so tuttavia quanto alcune di queste testimonianze abbiano giovato al romanzo di Del Giudice, perché non è sui quei personaggi che il libro, a dispetto di alcune apparenze, è principalmente incentrato, e tanto meno è per essi che acquista in interesse e rilevanza: evidenza che si impone molto presto al rammaricato amante della biografia e dell’aneddoto, ma con felice sollievo al semplice lettore  che viene scoprendo un nuovo autore di sicure qualità (è bene dirlo subito, derogando alle solite regole cautelative, e un po’ pavide, che suggeriscono di non sbilanciarsi troppo con le opere prime).
Lo stadio di Wimbledon non è un libro su Bazlen dunque. Questo non implica però che Bazlen sia solo un pretesto: è la mediazione, o la deviazione, indispensabile al narratore per raggiungere ciò che gli preme e per trovare l’accesso alla sua formulazione. Soltanto in seguito a ciò Bazlen potrà non importare più (“Non sono mai stato così vicino alla risposta, e così indifferente alla domanda”) ed essere infine dimenticato come un problema che, quando “è vero, ed è risolto, può sembrare non ci sia mai stato”. Anche se, allo stesso modo del pullover che Ljuba regala al protagonista, qualche resto sussisterà comunque, e sarà importante: così, al di là dei dati biografici, la complessità della figura di Bazlen e il profilo dei vari interlocutori emergono ugualmente dalla narrazione, in modo insieme accurato e evocativo.
La trama del romanzo è costituita dal resoconto dei viaggi, a Trieste e nel sobborgo londinese di Wimbledon, che il narratore intraprende nel desiderio di chiarire le ragioni che hanno impedito a Bazlen di scrivere, ma che sono le ragioni che spingono a scrivere lui, e la ricerca del “punto, in cui forse si intersecano il saper essere e il saper scrivere”, ad interessargli veramente. Egli sa che una vita come opera non compensa la mancanza di opera, o almeno non può valerne da giustificazione; né d’altra parte gli sembra accettabile un’idea dell’opera come sottrazione di vita. Sa anche che “scrivere non è importante, però non si può fare altro”, perché il silenzio non permette “la falsità, o almeno la probabilità, cioè la vita”.
Ed è forse in questa disponibilità verso ciò che è virtuale, o meglio in “un’intermittenza tra la probabilità e l’improbabilità”, che il punto di intersezione consiste, in un atteggiamento che comporta un “sentimento di appartenenza a ciò che è accaduto, o può accadere” e il “piacere di essere nel tempo e non contro il tempo, di farcela rischiando tra le immagini, rischiando anche la propria, lasciando che diventi una proprietà comune, modificata, viva...”.
Rischio che il protagonista difatti assume, nonostante sembri preferire a volte cancellarsi per ridursi a puro sguardo o a reticente interlocutore. Il realtà la sua esposizione si effettua attraverso la proiezione nelle immagini e nelle cose, e in una forma di distacco che, per evitare riflessioni psicologiche o esistenziali, prende meno la forma dell’ironia, se non per ciò che è taciuto, che dell’oggettivazione (no: “il viaggio”, ma: “il treno”, il trasporto marittimo”, “le rotte aeree”). Se evita il coinvolgimento diretto e tutto gli preme, ma non troppo; o, quando è costretto a esprimere opinioni, le smorza regolarmente con formule dubitative, ritraendosi di fronte al definitivo, alla sua stessa possibilità, è appunto perché non ignora che l’unico modo di rischiarsi non è sopra le cose e le immagini, ma accanto e insieme ad esse, e perché la probabilità, o la falsità, che è la vita non tollera ciò che è stabile e definito una volta per tutte.
Ed è anche per questo che raramente le varie questioni sono affrontate, o approfondite, in modo diretto, e mai direttamente e con tono conclusivo vengono enunciate le risposte, sebbene indicazioni anche molto articolate in tal senso non manchino. La responsabilità della loro organizzazione viene lasciata, coerentemente con il tenore del libro, a chi legge, indirizzatovi con mano sapiente quanto leggera. Uso di proposito questo aggettivo perché “leggero” e tutto il campo semantico confinante hanno un ruolo fondamentale nel testo e nell’atteggiamento verso la realtà tipico della scrittura di Del Giudice, che rifugge sia da una visione “troppo brillante e intenzionale”, sia dalla frontalità monolitica o aggressiva. Il fatto è che tutto Lo stadio di Wimbledon è costruito secondo un principio che potremmo chiamare di lateralità e una logica sospensiva: spostamenti, incontri, discorsi e descrizioni, si susseguono con un rigore sì interno e visibile, ma come se il fuoco del loro accadere e la necessità delle loro correlazioni fossero sempre un po’ discosti, come se i loro significati più efficaci e irradianti scaturissero da un’altra luce, che tuttavia non potrebbe manifestarsi senza il supporto di quella loro propria. Non si tratta di simboli, ma ancora di virtualità, che il complesso sistema di rispondenze interne al romanzo, sia tematiche che stilistiche, mette in movimento e provoca a stabilire: al pari della Carta di Mercatore, il cui “secondo nome è Rappresentazione”, anche Lo stadio di Wimbledon è “inventato con un calcolo preciso, e con una matematica quasi perfetta”, un calcolo però del quale non è data chiave obbligatoria o una via di interpretazione esplicita.
Non si tratta di simboli, come dicevo, ed anzi la prosa di del Giudice si presenta estremamente pulita e concreta: anche i paragoni si fondono impercettibilmente con l’andamento descrittivo e narrativo, tanto più notevoli quanto meno di originalità clamorosa. E’ la prosa di un occhio che ha come assorbito l’intelletto, senza annientarlo ma rinunciando alle sue sicurezze, e che persegue soltanto la logica della narrazione lasciando che tutto il resto si profili, secondo un’espressione che Del Giudice utilizza in diverso contesto, “nella leggerezza ironica della probabilità”.
Dalla concretezza e dalla coerenza della narrazione emerge così una dimensione teorica che le è insieme interna e esterna, ed è forse proprio in questa capacità, che si manifesta in primo luogo nella coniugazione sintattica di astratto e concreto, una delle caratteristiche più salienti di questo romanzo che, come ipotizza Calvino nella sua bella quarta di copertina, riprende il “romanzo d’iniziazione di un giovane scrittore” e insieme tenta “un nuova approccio alla rappresentazione, al racconto”.



Atlante occidentale (1985)
Vivere nel presente e vivere il presente di rado coincidono; essere contemporanei della propria epoca, come è noto, è sempre stato difficile, specie nei momenti di grande trasformazione: tanto più, dunque, oggi. Oggi infatti la scienza ha fissato in regola la trasformazione senza termine apparente, inducendo nel tempo un’accelerazione tale da modificare, oltre che la sua percezione e cognizione, il suo stesso statuto, del tutto eterogeneo a quello delle epoche passate. È la sua caratteristica principale, la velocità, dei cui benefici godiamo e che tanto ci affascina, a condannare al ritardo i nostri tentativi di adeguamento, ogni volta spiazzandoli, e a renderci estraneo il suo nucleo quanto più siamo invasi dai suoi effetti: non lo sentiamo nostro quanto più siamo suoi, cioè, e l’incapacità di farcene una rappresentazione non solo si traduce nella deficienza a viverlo, ma anzi ci fa arretrare verso concezioni nelle quali appunto la parvenza di sicurezza offertaci è il segnale più evidente della nostra impotenza. Sembra che si sia prodotta una divaricazione insanabile e che si allarga sempre di più tra gli oggetti, i comportamenti e le situazioni ai quali il nostro tempo ci lega, da una parte, e le immagini e i sentimenti che ne abbiamo dall’altra, ed è un triste paradosso che la forse maggior responsabile sia la scienza nel momento stesso in cui sembra avvicinarsi come non mai alle radici della materia e della vita.
Il divario naturalmente non si colma rincorrendo il progresso delle conoscenze scientifiche e dei suoi risvolti tecnologici, quanto trovando un migliore rapporto con il mondo da essi in gran parte determinato. E se la letteratura è quella forma specifica di conoscenza che ha per oggetto la trasformazione nel tempo dei rapporti dell’uomo con il mondo, delle immagini che se ne fa e dei sentimenti ancor più delle conoscenze che ne ha, allora spetta ad essa affrontare questi problemi, facendosi carico anche di quelli che la scienza pone e insieme approfittando delle prospettive che essa apre e delle soluzioni che propone o prefigura.
Sono questi i problemi che affronta, con decisione apri alla lucidità con cui ne definisce i presupposti, Atlante occidentale, secondo romanzo di Daniele Del Giudice, che non solo conferma le ottime qualità già evidenziate nel precedente Lo stadio di Wimbledon, ma ne riprende anche, a dispetto delle cospicue differenze di trama ambientazione e personaggi, i temi di fondo, spostando e allargando la prospettiva fino a chiudere, anche teoricamente, la traiettoria inauguratavi.
L’indagine sul rapporto tra saper essere e saper scrivere, che nel libro d’esordio era condotta secondo preoccupazioni prevalentemente personali che di fatto privilegiavano l’ottica della scrittura e il problema della rappresentazione, viene infatti ripresa in Atlante occidentale dal versante opposto e con ambizioni più generali. Il problema del saper scrivere viene cioè subordinato a quello del saper essere, e anto la ricerca di modelli di rappresentazione quanto l’analisi dei sentimenti e delle relazioni “ degli uomini tra di loro e con gli oggetti confluiscono nella necessità di vivere meglio il proprio tempo. D’altra parte tale confluenza, invece di sminuire l’importanza della scrittura, le conferisce una legittimazione “oggettiva”, valorizzando contemporaneamente anche le procedure e gli oggetti che dalla sua tematizzazione emergono.
In tal modo però ciò che sembrava solo funzionale torna in primo piano, e il libro si rivela in piena luce per quel che di fatto è: la definizione di una poetica attraverso la propria esemplificazione. Ipotesi e insieme verifica insomma, definizione in qualche modo conclusiva prima di passare ad altro: consolidamento delle basi, anzi, appunto per poterlo fare. Lo rivela del resto anche il dialogo finale tra i due protagonisti: “È una giornata di molte novità, per me e per te.” – “Bene.” – “E adesso?” – “Adesso dovrebbe cominciare una storia nuova.” – “E questa? – “Questa è finita.” – “Finita finita?” – “Finita finita.” – “La scriverà qualcuno?” – “Non lo so, penso di no. L’importante non era scriverla, l’importante era provarne un sentimento.” (A proposito di quest’ultima informazione è appena il caso di rivelarne il carattere ironico, dato che importante è invece che qualcuno l’abbia scritta e che il sentimento più che i personaggi lo provino i lettori: il che però non è scontato.)
Anche la scelta dei protagonisti appare funzionale al carattere programmatico e “manualistico” del libro, già indicato peraltro dal titolo (l’atlante è infatti una raccolta di immagini che definiscono degli spazi o, più generalmente, di rappresentazioni di una data disciplina, e il manuale è un compendio di nozioni fondamentali e di istruzioni relative a una data attività, il cui fine non a caso Del Giudice sostiene essere “uno solo, accrescere la felicità del genere umano”). Se infatti la scienza determina le maggiori trasformazioni della vita nel nostro tempo e la letteratura, come si diceva, queste trasformazioni in relazione all’uomo ha per oggetto, protagonisti del libro non potevano che essere uno scienziato (e anzi un rappresentante di quella che oggi è la scienza guida, la fisica atomica) e uno scrittore (per quanto alla fine della carriera e alle prese con il problema di uscirne con felicità: una figura che, sia detto per inciso, fa da contraltare a quella di Bobi Bazlen nel primo libro).
Dell’incontro, dell’amicizia, di discorsi e delle riflessioni di questi due personaggi, e cioè del giovane fisico italiano Pietro Brahe e del vecchio scrittore ebreo-tedesco Ira Epstein, parla principalmente Atlante occidentale, mirando però alla delineazione di una mappa di sentimenti, percezioni e comportamenti che concilii le istanze, generalmente sentite come alternative ma per Del Giudice complementari, da essi incarnate (non solo scienziato/scrittore, ma anche giovane/vecchio; italiano/straniero, anche se di cognome straniero l’uno, e straniero per eccellenza, ebreo, ma che appunto per questo sa trovarsi a casa ovunque, l’altro, e comunque ambedue con salde radici nell’occidente; esperto delle teorie/esperto dei comportamenti concreti, ma ambedue esperti del visibile, sebbene l’uno al di sotto e l’altro al di sopra della soglia normale, con la quale tuttavia ricercano un’integrazione armoniosa; ecc.).
Il romanzo si dispone così contemporaneamente su più piani, ciascuno dei quali rimanda all’altro ma insieme reclama la propria sufficienza e autonomia (la storia, la mappa, la teoria; l’esempio, l’inquadramento, la giustificazione), ma questo, se ne costituisce il fascino e anche la forza, ne segna d’altra parte anche il limite, del quale certamente Del Giudice era consapevole, preferendo tuttavia assumerlo piuttosto che accontentarsi di poco. Ne viene a soffrire infatti quello che dovrebbe essere, in un romanzo, il piano fondamentale, la narrazione che dagli altri resta in più di un’occasione condizionato per eccesso di funzionalizzazione: allora eventi, riflessioni e gli stessi personaggi appaiono schematici e predeterminati, come svuotati dal carico esorbitante loro imposto, e la misura del sentimento, che pure dovrebbe essere essenziale, decade a valletta della geometria intellettuale che tutto deve far quadrare, rivelandone le debolezze. La tentazione dell’armonia rende tutto troppo dolce, leggero, vaporoso; non c’è più traccia di contraddizione, l’idillio regna e il cerchio si chiude: Brahe e Epstein non mancano l’ultimo incontro, nella medesima notte all’uno riesce finalmente l’esperimento e all’altro viene assegnato il premio Nobel e i trenini sul plastico che Epstein sta guardando sono in perfetto orario.



12/12/17

Animale (Il viaggiatore)



Guardo quest’uomo che il caso mi ha messo di fronte sul treno che mi porta a Firenze, ne osservo il volto e i vestiti, poi passo ai tre braccialetti d’oro al polso destro e alla mano che tiene le pagine di un giornale sportivo spalancato sul tavolino, sul quale vedo ripiegato un altro giornale sportivo, un volume seminascosto di cui un po’ frustrato non riconosco né il titolo né la collana, un pacchetto di Lucky Strike e un telefono cellulare, e penso: “Quest’uomo va a Roma; quest’uomo è un romano”.


Mentre lui continua la sua pignola, sistematica lettura prima di un giornale e poi dell’altro e io quella di un libro che mi entusiasma come da tempo non mi accadeva, quando ogni tanto alzo gli occhi o prendo una pausa per accendere una sigaretta o vengo interrotto dal suono di un cellulare che fa sobbalzare anche lui inducendolo ogni volta a controllare che non sia il suo (e ogni volta non lo è, così che alla lunga la frustrazione lo costringe, non prima di averlo passato in rassegna ben bene centimetro quadrato per centimetro quadrato, a usarlo per chiamare qualcuno che – ovviamente: mi vien da pensare – non risponde, mentre prima o poi a tutti gli altri cellulari, uno per ogni tavolino che posso raggiungere con lo sguardo, più numerosi altri che risuonano in tutta la carrozza, – in particolare quello di un signore cieco seduto una fila più avanti che risponde sempre prontamente con una voce squillante, come a compensare alzando il tono l’impossibilità di vedere: ma di vedere chi, l’interlocutore?, quasi che gli altri il loro lo avessero lì davanti –, si avvia una comunicazione che riesco ad ignorare senza sforzi, con l’eccezione, per un po’, di quella di una signora accomodata nella fila alla mia destra intenta a studiare, con una matita in mano pronta a sottolineare e a prendere appunti, un libro intitolato La scrittura e l’anima, che tratta però non di letteratura o di religione ma, più correttamente, di grafologia, perché a un certo momento la signora usa, lasciandomi esterrefatto, l’espressione «è mancato ieri», un vecchio zio, zio Carlo, obbligandola di conseguenza a una frettolosa partenza per quella che a questo punto non posso esimermi dal chiamare la città eterna); poco a poco immagazzino i suoi tratti somatici, che tutti, infatti, mi sembrano confermare la mia impressione immediata che quest’uomo è un romano, non può che essere un romano, un vero romano, ma senza spingermi ad andare oltre o a cercarne la motivazione: io sono preso dal romanzo che sto leggendo, il treno scivola senza scosse con un bisbiglio monotono che fa di tutto per farsi dimenticare, di modo che la registrazione avviene progressivamente, un tratto per volta e come da sola.
Da sola si è formata la certezza di trovarmi di fronte a un romano, nonché, decisiva, la frase: “quest’uomo è un romano”, senza che essa avesse, né abbia tuttora altre implicazioni. Una pura constatazione, se ce ne sono. Mentre proseguo nella lettura, l’unica cosa che percepisco con continuità del romano è il respiro, regolare ma, nel silenzio che non può essere tale di un treno comunque in corsa e pieno di gente discreta ma viva, rumoroso. Registro anche il respiro, che pian piano si trasforma in un ritmo non voluto che si accorda con perfida naturalezza alla prosa del mio romanzo, alla sua sintassi molto complessa, persino confusa a prima vista, ma che si dipana non appena ci si affida, come ho avuto modo di verificare leggendone ieri alcune pagine ai miei studenti, alla scansione della voce, e quindi al respiro.
Anche il respiro del romano ha un ritmo tutto suo, particolarissimo anche se uniforme, al quale tuttavia quello del romanzo, o della mia lettura, sembra adattarsi senza fatica, accompagnandolo più che soggiacendovi. Così non ne sono disturbato e continuo a leggere più di un’ora, finché mi vien voglia di prendere un caffè.
Al ritorno dal barettino, nel corridoio di passaggio tra una carrozza e l’altra, davanti alla toilette, incontro un poeta che non vedevo da anni. Nonostante i miei capelli grigi e i suoi lineamenti più gonfi ci riconosciamo subito, ci salutiamo affettuosamente, ci scambiamo fulminee informazioni, generiche e sincopate, sulle rispettive esistenze e attività, specie lui, dietro mie sollecitazioni derivate anche dal rimorso di non aver risposto all’invio di due dei suoi ultimi libri, e promesse di sentirci al più presto, meglio se dopo Pasqua, perché ora ha molti impegni, dice lui (quando di conseguenza sarà facile che entrambi avremo dimenticato questo impegno, penso io, anche se ora che l’ho scritto è difficile che almeno io me ne dimentichi per davvero), scusandosi di dovermi lasciare perché fra poco deve scendere e sua moglie a questo punto magari starà pensando, ansiosa com’è, che si sia perso. Eh sì, i treni sono labirintici, confermo, prima di dirigermi verso il mio posto, ansioso anch’io di riprendere la lettura.
Il mio vicino nel frattempo è passato al volume, che ora riconosco come una raccolta di fumetti, sulla cui copertina nera patinata riesco finalmente a decifrare, se non le figure colorate, almeno il titolo, scritto in caratteri gotici: ElfQuest, che tuttavia non mi fornisce ulteriori informazioni sul suo contenuto, e quindi sul lettore, a parte un sospetto di magia e avventura, mondi incantati, natura selvaggia, elfi, fate, bellezze capziose e eroici cavalieri di vaga ascendenza celtica. Fantasy insomma. Paccottiglia. Mitologicume. (Sono uno stronzo.)


Ho da poco ripreso la mia lettura che il treno si ferma a Bologna. Cambiano molti passeggeri ma ovviamente il mio dirimpettaio, essendo romano e quindi diretto a Roma, resta al suo posto, mentre quello accanto, finora rimasto vuoto, viene occupato da un giovane dai capelli corti ma, come credo si dica, scolpiti col gel, sia pure in forma per niente vistosa. Ha una bella faccia, intelligente, mi sembra, a meno che la mia impressione non sia indotta dalla grossa cartella portadisegni che ha appoggiato contro la sua poltrona sul pavimento del corridoio. Ma allo stesso modo forse, mi vien da pensare, è da ciò che narra il romanzo che sto leggendo, dall’importanza che Roma riveste per il narratore, per la sua vita e per la sua possibilità stessa, a suo dire, di pensare e di narrare, più che dal fatto che questo treno sia diretto a Roma sommato a qualche stereotipo fisiognomico, culturale e sociale, che mi è venuta la convinzione che l’uomo che mi sta di fronte è un romano.
Sì, può anche essere, mi dico come a tagliar corto un filo che mi sembra meno interessante da seguire, o più perturbante, del romanzo da cui sarebbe scaturito. Ne riprendo dunque la lettura accompagnato dal respiro del romano che però, chissà perché, quasi subito mi sembra di percepire come ancor più rumoroso. È lo stesso di prima, ne sono certo, eppure adesso lo sento in maniera distinta e lo sento come veramente rumoroso, pesante, animale.
Nel momento in cui lo avverto, avverto anche la mia mente che cerca una parola per definirlo, e come prima, senza che lo volessi, aveva definito lui romano, ora definisce il suo respiro animale. E tutto in lui, ora, mi sembra animale, così come, prima, tutto mi era sembrato romano. Non un romano di oggi, mi dico adesso che dal secondo aggettivo sono costretto a pensarci con una urgenza che prima il riferimento al romanzo non aveva suscitato: piuttosto un romano antico, ma un romano antico come sarebbe oggi. Guardando meglio il suo viso, infatti, mi accorgo che è esattamente quello di molte statue del periodo imperiale: i capelli sono corti e a ciocche ondulate, alta la loro attaccatura alla fronte che due rientranze ai lati rendono più spaziosa, carnose le labbra e leggermente bovini gli occhi, verdi su uno sfondo giallo paglierino. Tutti elementi che, se prima mi erano parsi romani, i tratti di un antico romano oggi e non di un odierno, cinematografico borgataro – nonostante gli scarponcini nuovi, la camicia a quadri, il cellulare e soprattutto i braccialetti d’oro sul polso forte, giuntura esatta a un corpo massiccio ma non grasso, un corpo massiccio e forte che necessita di giunture solide –, e neanche di un fascista – come mi porterebbe a supporre la costellazione giornali sportivi \ tifoseria romana \ percentuale di fascisti a Roma \ fumetto fantasy (vergognandomi immediatamente della mia stupidità e di un criptorazzismo da cui mi sono sempre illuso di andare esente) –, ora mi fanno pensare, anzi mi rendono sicuro, di essere di fronte a nient’altro che a un animale. E non lo penso in senso dispregiativo (mi accorgo con sollievo), bensì come una nuova constatazione di fatto, e in quanto tale più positiva che neutra, perché soggiacente c’è la sua accettazione, e nessun rifiuto e nessuna sfumatura critica più o meno mascherata; quasi una forma di rispetto invece.
La consolazione suscitata dall’affiorare di quest’ultima parola sarebbe completa se in essa non si insinuassero, quasi immediatamente, tutte le altre che hanno messo in moto il processo (ahi ahi!) che mi ha portato a essa e che ora mi sfila davanti polverizzandola come una cortina inconsistente quanto gratificante, e anzi: la parola, l’aggettivo animale e, alle sue spalle, che stava prima ma ora si unisce a essa, tanto da farmi pensare a una parola sola, il sostantivo uomo. Che adesso mi turba, così vicino a quell’altra, come una prossimità, una congiunzione teratologica. Una congiunzione alla quale l’aggettivo sostantivato romano, piuttosto che da trait d’union, fa da vertice, come in un triangolo osceno, un mostro a tre teste alla cui origine ci sono, solo genitore, solo io.


L’una e l’altra parola, e la terza tra di loro, non sono niente prese a sé, o anche tutto se si preferisce (o molto, quantomeno), ciascuna con la sua storia e il suo carico di senso e di effetti, ma ora, qui, loro due assieme, e entrambe assieme alla terza, e tutte e tre assieme a me e a questa persona di fronte a me, assieme loro e noi, sostantivo e aggettivo e io e lui, e la terza tra di noi, sono, siamo, teratologia allo stato puro. Che, ora che io scrivo e lui si è addormentato, si impone e trova la sua conferma definitiva, la sua validazione indiscutibile, senza altra possibile discussione o giustificazione o scongiuro. Il suo punto fermo.

04/12/17

L. G. di R. B. di L. G. (Roland Barthes, Parentesi, Morte, Fotografia)



... Una delle frasi più citate di Barthes mette accanto la morte e la parentesi. La parentesi come parola tra le parentesi grafiche. La citano per la morte, non per la parentesi però. Su questa non ho letto nessuno che si soffermasse. A me sembra importante, invece. è importante per me. Non che mi faccia troppi problemi sulla morte. Ogni tanto sì, ma solo ogni tanto. C’è. Tutto qui. Non mi riguarda davvero. è solo la scomparsa delle persone che amo che mi riguarda. Ma perché resti tu che le amavi e le ami ancora. E ti senti defraudato. Sono morte. Con che fegato mi hanno lasciato qui senza di loro? Chi gli ha dato il permesso? Devo metterle tra parentesi e non voglio. E la parentesi si allarga, cresce, invece di stringersi e svanire. Però la morte ci abita. E non la puoi raspare via. Se poi uno scrive, ogni parola gli dice la sua scomparsa. è la tua, la parola intendo, e già non ci sei più. La scrivi e già lei ti recita il requiem. C’è chi non lo accetta. Chi si ribella. Si macera. Ne fa tutto un cancan. O una manfrina. Altri se la tengono stretta, come un’amica. Alcuni pochi non ci fanno troppo caso. Cioè, non fanno finta che non ci sia, questo no, ma non ci fanno troppo caso. Che per me è la soluzione migliore. è lì, e lì resta. Stai tranquilla e non rompere le palle. Barthes non si rassegna. Lo fa in modo composto, ma non si rassegna. Mi pare. L’aggettivo composto mi fa venire sempre in mente la salma. Hanno composto la salma. Ma anche, ha composto un saggio, un’opera. Ecco una parentela. Cioè non si rassegna alla morte degli altri. Alla sua, quando si avvicina dopo l’incidente, credo di sì. Non la morte degli altri in generale, non accetta. Non ne accetta una sola. La morte della madre. Quella che è la sola morte, per lui. La morte senza specificazione. La morte per antonomasia. La morte e basta.
E però, appena scrivi, le specificazioni arrivano a frotte. I ricami. Le incisioni. Le scarnificazioni. La microchirurgia del lutto. I rimpianti. I ricordi. Tutta la storia. Vissuta e no. Tutte le storie. Sentite viste o lette. Il regesto universale. Altro che palle! Ma non è ancora questo. è che la carogna entra in ogni gesto, in ogni parola, in ogni respiro, e poi è difficile sfrattarla. Ogni sillaba che pronunci. Ogni lettera che tracci. Scrivi, e la pagina ti rimanda solo lei. Scherzi, e è uno scherzo acido. Mortale. A ramengo! Allora indaghi, la cerchi in tutto ciò che scrivi. E la trovi. Matematico! Ci strologhi sopra, continui a ravanare, immagini, deduci. Speculi a destra e a manca. E la speculazione è il suo specchio. Cribbio! Allora decidi di smettere, di lasciar perdere. Sì, lascia perdere, che è meglio. Questa citazione viene dai puffi. Che palle, in fondo. è lo schermo ubiquo. Il velo universale. La cataratta che ti impedisce di vedere ogni altra cosa. Ogni altra cosa che c’è. E che è bella, magari. Che magari è bella per il solo fatto che c’è. Non dico niente di nuovo. Però lo dico lo stesso. Ci metto qualcosa di mio, il mio respiro. Il respiro che solum è mio, e che io nacqui per lui, e ecco che è nuovo. Bisogna saper respirare. Barthes dice che si deve sentire il corpo. A quei tempi avevano tutti la mania del corpo. Gli sembrava di averlo scoperto loro. E ci fa tutta una tirata, Barthes, dispersa qua e là. Tirate lunghe non ne faceva. Aveva questo buon gusto. Io penso che sono tutte menate. Il corpo lo senti tu mentre scrivi. è affar tuo. Punto. Quello che entra in ciò che scrivi, quello che devi sentire quando leggi, è il respiro. Basta quello. Ma quello è tutto. O quasi. Meglio non esagerare. Oggi mi sento categorico all’ottantasette per cento.
Sì, ma cosa dice di preciso Barthes in quella frase? Siamo all’inizio di La camera chiara. Al quinto capitolo, p. 15 dell’edizione italiana. è un capitolo importante. Lo segnala anche la lunghezza, più di cinque pagine senza foto. Un capitolo in cui Barthes mette in gioco se stesso. Quello in cui, tra parentesi, parla per la prima volta di sua madre. Di sua madre tra parentesi. 


Dà un’immagine di se stesso parlando di quando lo fotografano. Di quando si lascia fotografare. E viene reso immagine. Un’immagine che poi sarà in balia di chiunque. Anche dei malintenzionati. Dei malintenzionati più di chiunque altro. Parlando di quando si espone all’obiettivo, si espone anche al lettore. E appena si espone, racconta. O viceversa. E appena racconta, sbuca la morte. La parentesi. E le parentesi aumentano. Le parentesi sono il luogo in cui Barthes si espone. O si espone di più. Mette se stesso fuori di sé, mettendosi tra parentesi. Mi scuso del giochetto. è un residuo dell’epoca. Quella di cui parlo qui. «In quel momento io vivo una micro-esperienza della morte (della parentesi): io divento veramente spettro». L’argomento è la «Foto-ritratto». Barthes la descrive come «un campo chiuso di forze» dove si incontrano, si affrontano e deformano quattro immaginari, tutti imperniati sul «soggetto» del ritratto. Parole sue. Sull’io-R. B. che viene fotografato. Sull’io-L. G., qui, immagino io. Immagino io mentre scrivo e leggo ciò che scrivo. Io L. G. di R. B. di L. G. fotografato nella scrittura e nella lettura, come R. B. immagina se stesso mentre viene fotografato e viene immaginato da colui che lo fotografa. Quattro immaginari. Rispettivamente, quello che il fotografando crede di essere, quello che vorrebbe essere, quello che l’altro, il fotografo, crede che lui sia e «quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte». Il parallelo con la scrittura e la lettura non è perfetto. C’è gioco tra gli ingranaggi. Va bene lo stesso. Meglio, anzi. Così chi vuole può giocare. In quel momento Barthes, dice lui, non è «né un oggetto né un soggetto, ma piuttosto un soggetto che si sente diventare oggetto». La «micro-esperienza della morte», il sentirsi diventare «veramente spettro», avviene allora. è un’immagine. Un’immagine verbale suscitata dall’immagine fotografica. Un’immagine che parla delle sue paure, ovviamente, non della morte. Della morte non si ha esperienza, in nessuna forma. Al massimo è un’immaginaria esperienza della morte immaginata. Niente di più. Del resto non possiamo fare altro. La morte calamita, ma è fuori portata. Non ci resta che girarle attorno. La formula fa un discreto effetto però. Funziona bene. Ma è una pia illusione. Esattamente ciò che si chiede alle parole, del resto. Barthes infatti parla ancora della Morte. Con la maiuscola. Nella sua foto, lui diventa «Tutto-Immagine, vale a dire la Morte in persona». Nientepopodimenoche. Ma quel che davvero lo preoccupa è ciò che potranno fare «gli altri – l’Altro», di questa immagine. E di lui. Lo atterrisce essere espropriato di se stesso. Come se già non lo fosse. Come se già non lo fossimo. Ha questa fantasia masochista che gli altri possano disporre di lui a loro piacimento, «con ferocia» addirittura. Mi autorizzo l’approssimazione. Una in più non cambia nulla. Ma di un masochista che ha perso il controllo del rituale. Terrore allo stato puro. Si gode anche così? Se qualcuno ne ha esperienza, esperienza diretta intendo, me lo dica, mi piacerebbe saperlo. Queste piccole curiosità! Ma lui continua imperterrito con la Morte. Gli preme arrivare a un’altra bella formula. E ci arriva infatti. E la formula è così bella che molti l’hanno fatta propria con la massima disinvoltura. Se la sono messa all’occhiello, dove indubbiamente fa la sua bella figura. Un po’ démodée, ma la fa. Eccola qui: «la Morte è l’eidos di quella Foto». C’è del vero. Forse. Ma è il vero che riguarda ciò che sente Barthes, che qui lo dice indirettamente. Direttamente invece, secondo me, il sentimento più vero Barthes lo mette tra parentesi, come di passaggio. è lì che lui si nasconde e rivela. Mi verrebbe da dire che si apre nel chiuso delle parentesi, ma stavolta non ci casco. Dunque, tra parentesi, di passaggio, mette: «La “vita privata” altro non è che quella zona di spazio, di tempo, in cui io non sono un’immagine, un oggetto. Ciò che devo difendere è il mio diritto politico di essere un soggetto». Sì, mi pare che Barthes abiti qui. Che qui lasci trapelare davvero qualcosa di sé. Che qui, rivendicando un sacrosanto diritto a cui oggi quasi tutti hanno tranquillamente rinunciato, dica qualcosa che davvero gli preme. Un diritto e una paura. Qualcosa per cui lottare. Dove il privato si intreccia al pubblico. Nell’angolo in cui più si  sente minacciato, viene alla luce. E qui ti ritrovo io, amico. Qui mi ritrovo.



                                                            

28/11/17

Ricordi di copertura 9 L’ultimo quadernetto di Praga (quando penso a Praga, penso a Lucio)



L'ultimo!
Sigh!
...allora sono entrato in questa piccola cartoleria in un cortile vicino alla biblioteca nazionale negli edifici del Clementinum (le biblioteche di Praga sono meravigliose... cioè, tutte le biblioteche lo sono, ma quelle di Praga di più) e alla vecchietta dietro il banco ho fatto segno che cercavo dei quaderni e lei, che mi ha individuato subito come straniero (per forza, parlavo a segni!), mi ha mostrato quelli più belli che aveva, di grandezza normale. E allora io le ho mostrato il quadernetto che avevo in tasca, e lei da sotto il banco ha estratto uno di questi e me l'ha mostrato quasi con ritrosia, come se si vergognasse di una merce, a suo parere, così scadente. Probabilmente una rimanenza. E io mi sono innamorato subito, e ho pensato che magari Kundera, Hrabal, Holan, Orten, avevano preso appunti su quadernetti come quello. L’ho immaginato nelle loro tasche, un po’ spiegazzato, e che lo togliessero in un inverno freddo come quel giorno, umido per la neve, e che poi, con i guanti, o dopo averli tolti, prendessero una penna o un lapis dal taschino e, in piedi in una piazza o all’angolo di una delle viuzze della città vecchia, scrivessero, per esempio: “Non posso uscire di casa dopo le otto di sera. / Non posso prendere un alloggio indipendente. / Non posso cambiare casa …” (J. Orten).  Me lo sono fatto dare, e ho sfogliato quelle pagine beige chiaro, rosa sporco quasi, ho guardato la copertina verde con il riquadro per i dati personali, la quarta con il marchio e l’indirizzo del luogo di fabbricazione, l’etichetta con il prezzo, l'equivalente di 30 lire (era credo il 1999, prima dell'euro), e ho fatto cenno che andava benissimo e se ne aveva altri. Lei ha replicato il mio cenno e ha estratto il mucchietto tenuto da un elastico, più o meno una trentina, che aveva nello scaffale sotto il banco. Quanti? deve avermi chiesto con lo sguardo. E io ho risposto con la mano: Tutti! E, sorridendo alla sua espressione meravigliata, tutti li ho presi e me ne sono andato felice.


(La volta successiva li ho cercati in ogni cartoleria che incontravo, ma non li ho più trovati. Al loro posto c'erano questi, scovati in un supermercato, che al momento mi sono sembrati orribili al confronto ma ho comprato lo stesso, a un prezzo molto superiore peraltro, mentre ora mi sembrano belli, abbastanza insomma (belli per il tempo, i ricordi, i miei studenti, Lucio Klobas che era con noi e li faceva ammattire tutti con le sue strambissime, per loro, uscite, e il sottoscritto che lo prendeva per la manica e lo supplicava di smetterla per pietà... il grande Lucio!), perché le cose cambiano e anche noi, a volte, diventiamo meno sciocchi.)

24/11/17

Ricordi di copertura 8. Il premiatore e aneddoto con Antonio Moresco. 8





E mi ricordo anche quel giorno che mi è venuta l’idea di un racconto intitolato “Il premiatore” (e mentre ricordo questo, mi viene anche in mente quella sera che ero in macchina con Antonio Moresco e gli parlavo del racconto “Il primo Congresso del Sindacato dei Profeti Viventi”, che poi avrebbe dato il titolo al mio ultimo libro di racconti, uscito per Effigie nel lontanissimo 2008 ma terminato già 3 o 4 anni prima, che avevo iniziato a scrivere proprio in quei giorni dopo che gli avevo inutilmente ronzato intorno per settimane, quando all’improvviso, come capita spesso, mi era venuta in mente la prima frase, che già conteneva il tono e tutto il resto, anche se ancora non sapevo cos’era quel resto, e gli dicevo quanto fossi contento di questa frase, che tuttora reputo uno degli incipit migliori non solo dei miei racconti, che pure ne hanno tanti – almeno quello – ma di tutta la letteratura mondiale di tutti i tempi, incipit che sarebbe questo: “I profeti arrivano alla spicciolata.”, e lui è scoppiato a ridere e insieme abbiamo riso per qualche chilometro, ricamandoci un po’ sopra, poi basta, abbiamo riso di altro…). E insomma tutto è nato il giorno della cerimonia informale di fine anno nella palestra della scuola. Con i proventi della vendita di un centinaio di libretti fatti e cuciti a mano da me e i miei studenti, in seguito a piccolo un corso di scrittura che avevo curato a scuola, avevo deciso di istituire una "borsa di libri" non per gli studenti migliori, ma per quelli che, indicati dagli insegnanti e secondo il registro della biblioteca scolastica, leggevano di più (di fatto i davvero migliori, per me). Che poi per puro caso, quando sono andato a Bergamo, da Seghezzi, a compare i libri, lui aveva delle borse in tela, che non si chiamavano ancora shopper, che gli aveva lasciato il rappresentante della Mondadori e me ne ha date abbastanza per tutti i premiati, così l’idea delle borse all’improvviso, senza che lo avessi preventivato, diventava fisica, e erano anche belle, solide, a parte il logo Mondadori, che va be’… però tante grazie! E così durante la cerimonia le borse piene di libri erano appoggiate su un tavolino e io me ne stavo lì, incapace di star fermo, in attesa del mio turno, mentre il rappresentante di una banca locale distribuiva degli assegni ai ragazzi, ma per la maggioranza ragazze, più scolasticamente meritevoli, che poi, quando il preside ha parlato della mia iniziativa e mi ha invitato a farmi avanti con la prima borsa, quando si è avvicinata la prima studentessa da premiare quel tipo mi ha strappato di mano la borsa e l'ha consegnata lui ai ragazzi, e così tutti le altre. Era così felice di farlo che non ho detto niente e mi sono limitato a fargli fa velina e a passargli le borse. Poi se ne è andato raggiante.
Una figura come questa merita un racconto, mi sono detto. E così ho fatto.