08/08/19

Tintoretto a Palazzo Ducale. 3 - Madonna con Bambino e santi; Ratto di Elena; Tarquinio e Lucrezia; Flagellazione



e c’erano nella stessa sala una grande e bellissima Natività (a Boston, non sono riuscito a trovare un’immagine decente) e una Madonna col Bambino, con i santi Caterina, Agostino, Marco e Giovanni Battista (Lione), quadro splendido, con le figure disposte in un doppio triangolo che insieme ne formano un terzo virtuale, con il vertice invisibile a perpendicolo sulla testa di santa Caterina, e sullo sfondo a sinistra un colonnato e a destra un paesaggio desertico al cui centro si ergono le mura spoglie di una città o fortezza sotto un cielo nuvoloso, che certo qualcosa simboleggiano, niente di complicato, facile anzi, perché dovevano arrivarci tutti a capirlo, incluso il sottoscritto, che intuisce ma non ha voglia ora di approfondire, attratto com’è dalla Madonna che tiene con la mano sinistra il bambino che si sporge a benedire santa Caterina e, ecco cosa!, con la destra un libro aperto, come come se il corteo dei santi fosse giunto all’improvviso e avesse interrotto la lettura e lei non volesse perdere il segno o volesse alludere a qualche pagina particolare che aiuterebbe a interpretare tutto, che certo qualche sapiente potrà provare a indovinare ma a noi resterà per sempre precluso, nella sua certezza, perché tutto è impossibile interpretare, e forse nemmeno consigliabile…, mentre china leggermente la testa, la Madonna, per rivolgere affettuosa attenzione alla santa che viene introdotta con un gesto che trovo mirabile nella sua delicatezza, emozionante, da sant’Agostino, che ha a sua volta la testa chinata verso il basso, ma in modo più marcato, a guardare con deferente venerazione il Bimbo, umile pur nel suo sfarzoso piviale di raso di seta, dal colore dorato simile a quello del manto dogale che indossa la santa, che le è rimasto in dote, pare, da un soggiacente ritratto di doge poi rimosso per faccende di nomina a pittore ducale andata invece a Tiziano, in ogni caso magnifico, il manto, che le sta benissimo, date le circostanze ufficiali della cerimonia, a nobilitare quel bel viso dall’aria compunta e serena, ma pacioso, bianco e rosso, come una contadina, o una nobildonna di campagna, che osserva attenta il Bambino, con uno sguardo aperto, intelligente, per nulla turbato dalla benedizione divina e nemmeno velato dal ricordo del martirio che viene significato in modo forse un po’ troppo marcato dal lungo ramo di palma appoggiato al suo avambraccio destro, e non tenuto in mano perché le mani sono giunte nel gesto della devozione e della preghiera, e dal gigantesco mozzo della ruota del supplizio ai suoi piedi, spezzata ma ancora minacciosa, al centro del quadro e, per un po’, dell’attenzione, la mia perlomeno, che ne è come stregata, e su di essa si blocca, trascurando tutta la parte destra del quadro, come se non ci fosse, come se non fosse anch’essa di grande fattura, oltre che necessaria all’equilibrio della composizione, e presumo ai desideri della committenza, con la carne del corpo atletico e attraentissimo del Battista, per nulla provato dalla vita ascetica nel deserto, che rivaleggia, a distanza di pochi metri, con quelli, morbidi, candidi, dalla stessa pelle splendente e luminosa delle varie Susanna, Danae e Lucrezia, per quanto i miei bassi istinti mi spingano irresistibilmente a preferire quella più candida di quest’ultime.


 

Mi siedo.

Ogni volta che mi siedo a guardare, mi torna in mente Antichi maestri. Sto lì qualche minuto, io, però, non ore, poi mi alzo e vado avanti. E ogni tanto indietro. E in tondo. E avanti ancora. Per poi sedermi di nuovo, e dimenticare Antichi maestri, ma avendolo ancora in silenzio in testa, come un retropensiero che mi fa compagnia, come tutti gli altri libri che condividono questa sorte, e me ne farà ancora di più quando lo avrò dimenticato per davvero. Come se fosse possibile.

Chissà cosa avevo in testa quando mi sedevo nei musei prima di leggerlo. Ma mi sono mai seduto veramente in un museo prima di leggerlo? Non so. C’erano gli altri quadri e libri, probabilmente, le altre cose che avevo visto e vissuto e immaginato ecc. Niente. O quasi.

No. Non è vero. Non era lo stesso sedersi, comunque. Ho cominciato a appassionarmi alla pittura a 12 anni, quando è apparsa la collana I maestri del colore, a cui ho chiesto ai miei di abbonarmi come regalo di Natale, e non ho più smesso. Qualcosa avrò visto. Qualcosa sarà rimasto. In qualche modo i miei occhi saranno stati segnati, la mia testa modificata… Non so. Non ricordo quasi niente. Ci sono solo frammenti spezzati, vividi, dolorosi, a volte, ma come se appartenessero a un’altra persona, ad altre ere, in cui ero io e non ero io, che osservo come trailer di un film, spot di vita aliena, da lontano, finché non mi colpiscono all’improvviso lasciandomi senza fiato, per subito tornare a dileguarsi, a riguardare un altro. Immagini isolate. Istantanee. Quadri che mi siedo a guardare.



Come nella decima sala, che è quella dell’istante sospeso. Del quadro come istantanea antelitteram, di compiaciuta maestria, spettacolare sì, ma forse un po’ troppo esibita, perché l’insieme è orientato principalmente all’effetto, forzato, come tutto ciò che vuole stupire, neno nel Ratto di Elena, dove la spettacolarità dell’insieme, con tutti quegli scontri tumultuosi in terraferma e per mare, quasi che il ratto fosse avvenuto senza il consenso di Elena e Sparta fosse se non una città di mare ad esso vicina, smorza un po’ quella del fermo-immagine confinato in basso a sinistra, con la figura di schiena del soldato che solleva di forza per depositarla sulla nave la fedifraga, la cui postura è piuttosto rigida, forse perché piegata e contorta per la resistenza sarebbe risultata troppo scomposta, brutta addirittura, Elena!, e anche lo sguardo sembra fisso, poco turbato, stolido… a meno che non sia solo perso, rivolto al nulla, per la catatonia di chi si ritrova incapace di reagire all’evento, e tanto meno di capirlo, come se lei non solo non fosse consenziente, ma non avesse nemmeno lontanamente previsto una tale violenza e Paride fosse un pirata saraceno giunto all’improvviso a violarla e sottrarla al focolare domestico…


 
 

meno qui, dicevo, che nel Tarquinio e Lucrezia di Chicago (1578-80), dove Lucrezia è davvero sorpresa dall’energumeno Tarquinio (già nudo però: dove si sarà spogliato? quando?) che incombe su di lei e le lacera il leggerissimo velo che la copriva strappandole anche la collana le cui perle si stanno sfilando e hanno cominciato a cadere, alcune, verso terra senza raggiungerla, come il cuscino e un montante del baldacchino del letto a forma di figura umana, nel momento più drammatico, quello che contiene tutta la violenza che sta per giungere a compimento e trovare una forma, un modo, mentre per ora è ancora in divenire, con tutta la sua potenza davanti a sé, indefinita, infinita, che anche i tessuti sottolineano, percorsi da pennellate chiare, quasi dei lampi, mentre per terra, in attesa di essere usato, con la punta rivolta verso l’alto, simbolo fin troppo esplicito messo così e che quindi non commenterò, il pugnale con cui Tarquinio aveva minacciato la donna, bellissima, desiderabilissima, che l’uomo brutale che si nasconde in tutti i maschi può capire come abbia potuto suscitare tanta bestiale prevaricazione, salvo poi tirarsi indietro di fronte alla brutalità e alla prevaricazione, salvato dalla morale, dall’educazione, dal rispetto che, certo, nobilita, almeno quello..., forse lo stesso cui con cui successivamente la virtuosissima moglie si ucciderà dopo aver denunciato lo stupro al marito e al padre che si prenderanno la giusta vendetta, anche se intanto è ancora lì, e Tarquinio è una bestia feroce ancora viva e noi siamo buoni e civilizzati e umani, e però...


 


… e infine c’era una tarda Flagellazione (1578-80, ora al Castello di Praga) con Cristo, un po’ in arretrato, non ancora legato alla colonna, solo con le mani strette da una grossa corda dietro la schiena, la figura illuminata violentemente da destra a dare maggior risalto al corpo muscoloso, che sprigiona energia, la testa in ombra piegata a guardare in basso a sinistra un soldato che gli sta legando i piedi, con un gesto che potrebbe sembrare incongruo data la situazione ma appare del tutto spontaneo, come quando si allunga automaticamente il piede per fermare qualcosa che sta cadendo anche se è troppo pesante e l’impatto farà molto male, una curiosità spontanea più che il desiderio di vivere fino in fondo ogni dettaglio della propria umiliazione, con il busto e le spalle che si discostano dalla colonna non si sa se per nonostante tutto tentare di liberarsi o viceversa per ricevere, per accogliere pur senza guardare, la frustata che sta per essergli inferta dall’aguzzino, che porta indietro il braccio con la frusta per caricare il colpo con la maggior forza possibile, in primo piano così che lo spettatore, più che con l’uomo con turbante che in alto a destra osserva la scena (Erode?), possa identificarsi con lui, come viene spontaneo con tante figure di schiena senza volto, anonime, che potrebbero essere chiunque, e sentire la colpa che lui invece non avverte e che fra un attimo quel gesto renderà ancora più flagrante, materializzata, e non solo simboleggiata, nel sangue che scorrerà su quel corpo ancora solo per un attimo integro, definitiva, inespiabile, se non ad opera di colui che sta per essere colpito, e che solo dopo esserlo stato potrà veramente cominciare il percorso della espiazione per conto di tutti, quando la prima ferita aprirà quella carne alla sofferenza fisica che quella inferta dalla lancia di Longino chiuderà, aprendo nello stesso istante il tempo della redenzione, che forse così anche noi che soffriamo guardando e ci pentiamo di tutti i colpi che avremo inferto con le nostre colpe potremo meritare... o forse no, nemmeno così, perché niente ci salva, niente salva nessuno, o almeno nessuno salva noi, come è stato detto, o forse perché non c’è niente da salvare, niente da condannare, niente da redimere, chissà.



Le prime due parti, qui


03/07/19

Autodafè, riscritture, belle copie, con benevola assoluzione finale. (Appunti per niente, 9 )

Un bel giorno, dal momento che era molto che non scriveva più niente né c’erano avvisaglie che potesse (e nemmeno volesse) riprendere a farlo, si è messo in testa di rileggere tutto quello che aveva scritto e di metterlo in bella copia, correggendolo e, eventualmente, riscrivendo o cancellando e stracciando quanto proprio non aveva nessuna speranza di recupero o di chirurgia. Fogli volanti, taccuini, quaderni di ogni tipo e dimensione, agende, diari e tutto quello che aveva pubblicato, e che era sopravvissuto a un paio di altri autodafè, crudelissimi ma non del tutto, visto quanto era scampato, eppure in gran parte già dimenticati, nei dettagli se non nell’insieme, senza rimpianti. Non era poco, si accorse con stupore. Lo stesso stupore inebetito che prende quando si comincia a svuotare la cantina pensando di sbrigarsela in mezza giornata e dopo una settimana ci si accorge che è ancora piena di ogni cianfrusaglia e ricordo (cioè la cianfrusaglia peggiore). Tantissimo, anzi; infinitamente troppo, a voler prendere la perfezione come misura. Come era suo uso da sempre peraltro. Suo vizio, cioè.

Così, più che correggere, riscrivere e migliorare (ma migliorare in rapporto a cosa? al metro che aveva ora, che spesso è peggiorativo nei confronti del passato, come dimostrano tante riscritture e varianti di autori anche eccellenti – persino l’Ariosto!, non si dice Ungaretti… ?), quando si è accorto di cadere in continuazione nella sua consueta procedura di ampliare anziché tagliare, o ampliare il doppio di ogni taglio, e di imboccare ogni diramazione che riusciva ora a intravvedere o era stata magari volutamente trascurata quando lo scritto era stato licenziato la prima volta (già allora riscritto tot numero di volte peraltro), ha smesso di colpo e non ha fatto altro che barrare tutto, prima (senza stracciare), e poi leggere solo, un quaderno dopo l’altro, ogni foglio sparso o ritaglio o file… Leggere e basta, in modo famelico, con disperazione, fino a esserne schiantato.

29/06/19

Agrate, 25 maggio 1995 dalle 16,30 alle 17,45


    

1 - 16,30, via Antonio d’Agrate.
Il sole batte su una parete e la sua luce si riverbera sul lato in ombra di un pilastro scalcinato dai toni grigiastri e discontinui che vengono ricoperti da una forte velatura omogenea di giallo. La parete è appena stata ridipinta. Non era così quando Aurelio l’ha vista e ha voluto inserirla nel suo percorso: l’intervento recente tuttavia, anziché modificare il riflesso, l’ha rafforzato. Il pilastro delimita sulla destra l’ingresso, privo di cancello, di un cortile irregolarmente coperto di ghiaietto. L’altro pilastro è appena stato restaurato e dipinto di un bianco perlaceo, ma opaco, come il muro che se ne diparte e la facciata della casa che ne costituisce la continuazione. Sotto il pilastro di destra, sulla strada stretta, c’è uno specchio convesso che permette di uscire senza pericolo dai cortili irregolari dei vecchi caseggiati, quasi cascine, che stanno sull’altro lato. Il riflesso si può vedere, di sbieco, anche da questo ingresso, a sua volta privo di cancello. L’occhio va dalla parete del muro di fronte a quella del pilastro, con la sua ombra colorata; poi si muove distrattamente nel cortile, tra le porte, qualche tenda, un paio di macchine parcheggiate, una donna che sporge la testa per controllare cosa fa quella gente sospetta che, dopo essere penetrata nel cortile e aver fatto il giro del pilastro saltando oltre la fossa appena scavata che lo separa dal muro giallo, staziona da qualche minuto in mezzo alla strada dove non passa nessuno guardando non si sa bene cosa; poi torna al pilastro, al suo lato che confina con l’asfalto; da lì risale verso lo specchio convesso che mostra la strada nella direzione opposta a quella della luce del sole, quindi inverte a sua volta la direzione dello sguardo rifacendo nello specchio il percorso fatto a piedi per giungere qui, fino a che, nell’angolo destro, vede l’incatenarsi dei cortili e, sul margine estremo, una persona messa di tre quarti e quella persona sono io che mi vedo guardare da un’altra parte.



2 - via IV Novembre, ore 16,50.
È una stradina ancora più stretta della precedente. Ci arrivo con in mano un gelato acquistato dopo aver fatto una piccola deviazione a sinistra ed essere poi tornato contento sui miei passi per una decina di metri. Sono un gelatodipendente e consumo con avida soddisfazione la mia passione. Anche qui la scena è stata alterata da un intervento edilizio, non tanto da influenzarla comunque. Alle spalle del luogo dove ci si deve arrestare, ma appena scostata, lungo tutta la parete di un grosso e vecchio caseggiato, c’è un’impalcatura, che dall’imbocco della viuzza aveva fatto temere una sua possibile frapposizione tra il sole e le targhette che dovrebbero proiettare i loro riflessi sull’ombra dell’asfalto antistante. Non è così, per fortuna; tuttavia un problema c’è: l’ombra ritaglia l’asfalto solo a metà. Nella parte soleggiata si vedono delle strisce irregolari più chiare, giallastre, come se a qualche muratore fosse caduta un po’ di calcina, o meglio di biacca, ora prosciugata: invece proprio quelle sono i riflessi. Aurelio si preoccupa per i calcoli sbagliati sul movimento del sole, per l’effetto che di conseguenza andrebbe perso. A me sembra invece che l’effetto ci guadagni: la luminosità infatti diventa evidente e risalta con più forza solo quando il passante, inserendosi tra le insegne e il punto d’arrivo dei raggi deviati, proietta la propria ombra sull’asfalto ricevendo sulle spalle quelli provenienti direttamente dal sole: allora, se pensieroso abbassa gli occhi verso terra, vede la propria ombra percorsa da strisce di luce in movimento, come bucata dalla luce, e ne riceve, grato, la lezione. Verrà buona per i momenti bui, ma già ora ne risente i benefici effetti, come la medicazione di una ferita che ignorava. Proprio in quel momento, senza un vero motivo, come per un vago sospetto, mi volto a guardare le targhette dalle quali provengono i riflessi e mi accorgo di ciò che avevo già notato in precedenza senza farci troppo caso: le targhette sono di due medici chirurghi. Forse appartengono a loro gli sguardi che mi sento addosso dalle finestre, sguardi che immagino ancora una volta incerti tra preoccupazione e meraviglia. Io invece li accolgo come una delicata carezza e per me conservo solo con meraviglia.

3 - via Marco d’Agrate, ore 17,10
In fondo a via IV Novembre si svolta a sinistra e subito il marciapiede si allarga come per predisporre a una sosta, invece di costituire semplicemente un passaggio. E così è: infatti al margine si innalzano alcuni gradini che portano a un grosso edificio di nessuna pretesa, se non per una certa miseranda monumentalità, che scopro essere un cinema-teatro. Sono le 17 passate, e l’ombra, con rinnovato sconforto di Aurelio, ha appena cominciato ad intaccare il marciapiede, ben lontana dai gradini coi quali dovrebbe incrociarsi. Anche qui, contro la parete del caseggiato di fronte, c’è un’impalcatura; ma anche qui non ci sono problemi, perché a proiettare l’ombra è quello che gli sta a lato, dato il percorso del sole, che tuttavia sembra in irridente ritardo. Se ne sta infatti bello alto sopra il tetto mentre dovrebbe esserne nascosto e proiettare soltanto l’ombra dal profilo dentato dell’embricatura delle tegole sul colmo (o da quelle del bordo esterno?) che dovrebbe sovrapporsi diagonalmente al profilo dei gradini così da formare una specie di ingranaggio che inconsapevole del pericolo calpesta, senza restarne imprigionato (ma sarà vero?), chi si reca alla proiezione del tardo pomeriggio. Costernato, e come a riparazione, Aurelio ci guida lungo la stessa via, in direzione opposta a quella del nostro arrivo verso la curva che immette in piazza Sant’Eusebio. Qui l’asfalto in ombra è tutto un brulicare di macchie colorate (esattamente quello che si sarebbe dovuto vedere in via IV Novembre, ma più in grande e con maggiore ostentazione), la maggior parte delle quali provengono da un’insegna che, aristotelicamente, dice “Costruzioni e restauri in genere”. Inseguiamo simulacri immateriali e la materia ci insegue; ci preoccupiamo, quasi come di spettacoli, delle metamorfosi della luce, dei suoi riflessi, dei suoi lati oscuri, così come dei lati luminosi dell’ombra, e tutto ci parla di costruzioni e restauri. Luce, ombra e colori si combinano per conto loro anche senza di me, sono in anticipo o in ritardo e si lasciano talvolta sorprendere se qualcuno le cerca senza sapere cosa vuole trovare; io descrivo cose che chi legge può anche non vedere e costruisco effetti che possono anche essere senza causa: anche in questo caso c’è, forse, una lezione.



4 e 5 - via Concordia, ore 17,25 e piazza Sant’Eusebio, ore 17,40.
Gli ultimi due luoghi mi appaiono in un certo senso complementari. In via Concordia la parete più stretta di un palazzone brilla di migliaia di luci, con un effetto banalmente vistoso che dura quasi tutto il giorno. Nel momento in cui ci siamo però capitati, per puro caso, il sole sembra tutto concentrato sul riquadro a mosaico azzurro sotto la finestra centrale della lunga e unica fila che divide la parete a metà. L’azzurro delle tessere scompare in una luminosità accecante e i confini del riquadro diventano invisibili per eccesso di luce, come se ne fossero la sorgente e essa si sprigionasse dalla materia. Troppo spettacolare, a meno che un’esibizione del genere non nasconda, in realtà, dell’altro. Ora però non mi interessa scoprirlo. Lascio che la luce si goda il suo tronfio trionfo. Ma, nell’allontanarmi, sono io che mi sento becero e banale: il mio disprezzo si riflette su di me. Passo sotto un arco che si apre nel muro di una casa a testa più china del solito e imbocco un vicolo scuro. Sono stanco di guardare e non ho voglia di pensare. Oltretutto si fa tardi: accelero il passo e faccio fretta a Aurelio che ci riporta al punto di partenza, in piazza Sant’Eusebio dove, sotto la statua del santo, c’è una fontana che costituisce l’ultima stazione di questa via lucis che alla fine mi trova ombroso. E un effetto di luce in movimento nascosta nell’ombra è quello che mi aspetta. Sotto il piedi del santo il basamento di marmo si prolunga fino a metà della vasca in cui nuotano pesci rossi e, credo, cavedani nerastri; dal basamento l’acqua scende, formando uno schermo sottile, nella vasca: il sole incontra la barriera di questa minuscola cascata proiettando increspature e vibrazioni sulla parete interna del muretto di contenimento che trascorrono velocemente ma nascoste dall’aggetto del basamento. Per vederle bene bisogna piegarsi. Sotto la statua una scritta informa che Sant’Eusebio è il patrono della Birmania. Della Birmania! Dunque nemmeno la Birmania è scampata da un patrono. Le luci nell’ombra scura acquistano una risonanza tropicale. Mi viene in mente un amico che ha vissuto un mese proprio nelle foreste di quel paese e che sulle foreste ha scritto due romanzi. Poi mi viene in mente la Cambogia, e altro ancora più vicino: morti da ogni parte. Mi viene anche in mente la recente lettura della storia della Compagnia di Gesù in Asia di Daniello Bartoli e un altro suo scritto che ha per titolo “L’uomo al punto”. Ho come il sentimento di aver fatto un breve percorso iniziatico. Ma poi, più modestamente, ritorno al percorso effettivo compiuto per le strade di Agrate: visto sullla cartina assomiglia al solito un otto, o al solito segno del solito infinito, ma un segno imperfetto, come di un infinito mal sagomato e un po’ allentato. Ricordo però che nel tragitto è stata operata una deviazione, e questo trasforma il segno nel nodo che si fa con i lacci delle scarpe, del quale la deviazione sarebbe uno dei capi. E l’altro? L’altro potrebbe essere quello tracciato da queste lettere, che ora son tentato di tirare sciogliendo così il nodo per sempre. In questo modo anche il percorso si chiuderebbe esattamente; quindi il nastro potrebbe riformarsi e il giro ricominciare da capo. A slacciare le stringhe si rischia di inciampare tuttavia, e anche nei meccanismi più perfetti una pecca prima o poi salta fuori. Sono certo di aver dimenticato qualcosa, come un granello che si è infiltrato negli ingranaggi o del ghiaietto nella scarpa; ma non mi dà fastidio; anzi, me ne rallegro: qualcosa che non c’entra e se ne va per conto suo, magari a comprare un gelato. 



https://vimeo.com/77918533

Tutte le immagini sono opere di Aurelio Andrighetto
 

22/06/19

Michel Houellebecq, Serotonina (versione strong)



La Serotonina del titolo dell’ultimo romanzo di Michel Houellebecq (trad. it. V. Vega, La nave di Teseo, p. 332) è quella sintetizzata da un farmaco di nuova generazione, il Captorix, che viene prescritto al quarantaseienne Florent-Claude Labroust, il suo protagonista narratore, per permettergli di affrontare una crisi depressiva che l’ha colto da quando ha deciso di sparire da tutto e tutti, in primo luogo dall’ultima giovane fidanzata, la giapponese Yuzu, dopo aver scoperto la sua predilezione per rapporti sessuali di gruppo (i cosiddetti gangbang) e persino con animali, diffusamente descritti a partire da video incautamente lasciati sul suo pc dalla ragazza.
Il Captorix “non dà alcuna forma di felicità, e neppure di vero sollievo” ma “trasformando la vita in una serie di formalità […] aiuta gli uomini a vivere, o almeno a non morire – per qualche tempo.” Tutto bene quindi. Se non che uno dei suoi affetti collaterali è che blocca la produzione del testosterone, con conseguente inibizione della vita sessuale, che per Florent è praticamente tutto. A parte, o meglio: assieme all’amore, a cui il romanzo vorrebbe elevare il suo canto. 
Serotonina è la storia del congedo di Florent dalle poche persone che ha amato o di cui è stato amico, come il possidente Aymeric, abitante in un antico maniero in rovina (come la Francia?), nobile difensore dei contadini e allevatori schiacciati dalla UE e dalla globalizzazione, per i quali sacrificherà persino la sua vita, suicidandosi per protesta in una scena di rivolta sfociata in tragedia che ha poco a che fare con i Gilet jaunes, a cui spesso è stata accostata. La non accettazione e la rivolta, di solito non violenta se non nel senso dell’autodistruzione, sono due dei temi fondamentali di Houellebecq.
Florent ricorda i suoi vecchi amori, senza avere il coraggio però di incontrare Camille, quello più grande, in un lungo viaggio verso il proprio “annientamento” attraverso una Francia rurale descritta in modo ambivalente, come quasi tutto nello scrittore francese, tra affetto e disprezzo, nostalgia e condanna (quella Francia che secondo una precedente profezia avrebbe dovuto essere stata già da tempo trasformata in un parco a tema e residenza idilliaca da battaglioni di ricchi cinesi, dopo essere stata colonizzata da meno ricchi, ma pur sempre benestanti inglesi pre-Brexit, e americani e tedeschi e russi). Il tutto infiorettato da massicce dosi di sarcasmo e provocazioni che per molti, sesso escluso, costituiscono la principale attrattiva dei libri del poeta e narratore francese, talvolta a discapito però della tenuta narrativa e artistica.

Facciamo un esempio, forse il più eclatante, della procedura di Houellebecq in questi casi: l’episodio di pedofilia di cui il narratore è testimone. Il problema non è tanto, o solo, l’indugio compiaciuto sull’episodio, quanto il fatto che dal punto di vista narrativo è inutile, e quindi dannoso, oltre che non privo di incongruenze e stereotipi. La vicenda vede infatti come protagonista un personaggio alquanto prevedibile: il classico tedesco maturo, solitario e dal fare sospetto, che però curiosamente si allontana dal suo bungalow nel deserto villaggio turistico di proprietà di Aymeric senza chiuderlo e, peggio ancora, senza mettere nessuna password al proprio pc, come già Yuzu con il suo, nonostante la presenza dei video che documentano i suoi incontri quotidiani con una bambina del posto di dieci anni (ma sviluppata, per la sua età…). Le riprese sono poco chiare, dilettantesche: è la prima cosa che Florent rileva, ciò che non gli impedisce poi di delibarne, con l’orrore (e il brivido) di prammatica che persino lui si concede, e riportarne con accuratezza notarile tutti i dettagli, per il lettore affezionato che certo di meno non si aspetterebbe, interrotto solo dal ritorno improvviso e immotivato del crucco che era partito solo un paio d’ore prima equipaggiato di tutto punto come se avesse avuto in programma di star via tutta la giornata. La sorpresa dà luogo a una scena quasi comica con i due, reciprocamente terrorizzati, che non sanno cosa fare se non evitarsi. Florent in particolare si distingue per vigliaccheria giurando ripetutamente che non lo denuncerà, prima di tornare di corsa a rinchiudersi nel suo bungalow dove, dopo aver assistito alla fuga precipitosa del tedesco, a sera si addormenta senza troppi affanni, per risvegliarsi il giorno dopo “di umore quasi serafico”. Era necessario soffermarsi così a lungo sui video per descrivere l’abiezione di entrambi gli eroi? Nemmeno Florent gode di sconti, ma se lui è questo tipo di uomo, come si può poi prendere sul serio ciò che decreta, più che affermare, a proposito praticamente di tutto? A meno che questa scissione tra comportamento, parole, pensiero e morale non sia il vero oggetto del libro; o un modo possibile di leggerlo.
Sgravato il proprio personaggio della responsabilità diretta della pedofilia, Houellebecq lo può poi rivestire dei panni del moralista che si indigna di quanto ha visto. Che in tutto il resto del libro ne dica di cotte e di crude sulle puttanelle di 16 anni e anche meno, e sui gay e le donne “liberate” non è un problema. L’onore è salvo.
Non meno superfluo è l’indulgere sul dettaglio del filmato di Yuzu (vabbé, ma quella è giapponese…) con svariati animali che sembrano, dalle reazioni, più umani degli uomini. Del resto gli animali lo sono, più umani degli uomini: i cani, ovunque in Houellebecq che ha dedicato loro pagine memorabili; e qui anche le mucche; per tacere delle galline e dei pulcini gettati vivi nel tritatutto negli allevamenti-lager che non solo Camille, ma tutti preferiamo non vedere, e nemmeno sapere che esistono, a riprova della nostra tenera umanità. Che poi ci possa essere qualcosa di realistico e decisivo nelle descrizioni accurate di queste performance erotiche, che importa? Chissenefrega del realismo (pure, rispetto a questo argomento, di quello visionario, dato che Moresco nei Canti del caos a volte va ben oltre). Neanche questa insistenza ha senso narrativo. Così come non ha grande rilievo sociologico quella su supermercati, hotel di varia categoria e ristoranti che sembrano resoconti per Booking o la guida Michelin, o su oggetti con marche e dettagli tecnici presi direttamente dal foglietto illustrativo, tutti con il loro bel nome, cognome, indirizzo e valutazione. Si potrebbero ascrivere tutti a Florent, se non li ritrovassimo anche negli altri libri di Houellebcq.
Quando arriva a passaggi del genere, piuttosto numerosi, non è nemmeno più il rimando alla realtà che uno legge, ma solo l’ulteriore refrain del repertorio houellebecquiano, dall’antieuropeismo, all’ironia sui bobos radical-chic e politicamente corretti, dagli insulti a quegli idioti di ecologisti e di giornali di sinistra al cavallo di battaglia dell’antisessantottismo e del maschilismo con conseguente disprezzo della donna e del genere umano nel suo complesso. Nei libri precedenti gli eccessi erano spesso mitigati o relativizzati dalla pluralità dei personaggi che se ne facevano carico, a volte in contrasto gli uni con gli altri, ciascuno con una sua coerenza; in Serotonina ciò non avviene: se qualche contraddizione c’è, è tutta interna alla voce del narratore, che non si cura affatto della compatibilità delle sue esternazioni, legate a un atteggiamento anarchico in superficie ma reazionario di fondo (che certo in parte tutti noi maschietti abbiamo a volte la debolezza di condividere) e soprattutto al ciclo degli umori, che tuttavia il Captoryx dovrebbe regolare. Ma passi: non è un caso clinico che Houellebecq vuole descrivere (psicanalisti e psichiatri, pure loro, non godono dei suoi migliori favori), ma un personaggio, cioè un essere individualissimo, anche se poi per l’autore magari rappresenta l’idealtipo dello spregevole maschio bianco occidentale in inarrestabile e del tutto meritato declino su cui ribatte con insistenza fin da Estensione del dominio della lotta.



Un discorso simile vale anche per gli altri cliché narrativi di cui il libro non è avaro. Se la nostra società è cosiffatta e in siffatto modo da Houellebecq è stata narrata in tutti gli altri libri, perché ribadirlo una volta di più? Repetita iuvant, è vero; specie per il portafoglio.
Perché è bensì vero che questa sarebbe la vita del mediocre Florent, ma la scelta delle scene da narrare e del modo in cui lo sono è tutta dello scrittore, e tanto la scelta che il modo appunto degli stereotipi in più di un caso sono, a partire dalla scena iniziale delle due ragazze alle prese con le gomme sgonfie della loro auto, con trionfo di culi e tette come nelle commedie degli anni ’70 con Lino Banfi e Alvaro Vitali o con i capolavori dei fratelli Vanzina più di recente, alla cui profondità di analisi sociologica, perlomeno in questi episodi, Serotonina non ha niente da invidiare. Come parodia è un po’ tardi però (anche come parodia della parodia: il postmoderno non è passato invano); ma se lo fosse, lo sarebbe ovunque, e non qui sì e là no; e viceversa se non lo è, perché questo giustificherebbe ancor meno l’accumulo dei cliché senza segnali direzionali. La decifrazione dell’ambiguità di cui secondo molti Houellebecq è maestro, non può essere rovesciata tutta sul conto del lettore, mentre l’autore se ne starebbe dietro la nuvoletta a ridere tra sé. Ci sono strategie narrative varie e sfumate, in merito.

Esplicito e categorico com’è, non stupisce che H. venda, e quindi piaccia o incuriosisca tanto. Vuol dire che la manfrina della provocazione funziona ancora e che la trasgressione è sempre la benvenuta, cioè è normalizzata.
A rafforzare l’attrazione del lettore contribuisce poi che i protagonisti, con trasposizioni appena laterali e velate, condividano caratteri riconducibili alla figura pubblica e forse privata dell’autore, che ha espresso a più riprese idee simili alle loro in innumerevoli interviste e nelle poesie. Il gioco con il proprio personaggio si costruisce e rafforza in questo modo, lasciando sempre, ovviamente, l’uscita di sicurezza dell’invenzione, della finzione con la sua logica ecc. (così ai personaggi si può far dire impunemente di tutto), ma insieme ammiccando e denegando furbescamente, in modo anche divertente in certi casi, con il credito addizionale della tenerezza che non si nega neppure ai cinici più inflessibili (perché anche loro, e anzi loro più di tutti sono sensibili, disperati, soli, e compagnia bella…). Vedi in Serotonina a pag. 168 il discorsetto sull’amore che salva: Florent ci crederà pure, come Houellebecq di sicuro, ma di parlarne in modo diverso da quello dei rotocalchi non sembra capace. Non sembra a me, quanto meno. Magari è solo un mio punitivo difetto, una certa aridità congenita (non diversa da quella di Florent, verso il quale mi è tuttavia difficile provare la minima empatia), a rendermi poco sensibile alle storie d’amore, anche se copiosamente annaffiate di sesso. A quelle narrate, intendo. Persino a quelle narrate benissimo, ammesso che sia possibile, come in molti mi assicurano. Non mi è parso questo il caso però.

Il meccanismo non funziona solo con il lettore ingenuo comunque. Leggendo il corposissimo Cahier che L'Herne gli ha consacrato, non ho potuto fare a meno di notare, senza sorpresa peraltro, quanti tra i collaboratori, scrittori, artisti, giornalisti, critici, musicisti ecc., non si siano fatti scrupolo di distribuire patenti di cretino a destra e a manca a chiunque non la pensava come loro. È evidentemente la radicalità di Houellebecq a innescare questi effetti: chi legge ne è contagiato e, pur pensando di esercitare il proprio giudizio anche sullo scrittore da un luogo esterno e superiore, tende ad assomigliare ai suoi personaggi, e talvolta a diventare uno di essi. Il che ci dovrebbe dire qualcosa sul loro fondo di verità. È questo che li rende insopportabili. Finiamo per odiarci.

L’andamento della narrazione è quello di un resoconto piatto, senza sussulti, se non qualche rigurgito di umorismo non di primissima qualità (colpa di Florent) o i soliti sfoghi e le non eccelse massime ciniche (idem). Il resto è grigio e nel complesso squallido, come l’esistenza che narra (escluso il periodo di vero amore con Camille, ovvio). Da questo punto di vista l’adeguamento espressione-contenuto su cui insiste la vulgata estetica è perfetta. La banalità del discorso e del protagonista favoriscono però il distanziamento del lettore. È meglio non dirlo a Houellebecq, ma in questo, certo senza sospettarlo, è brechtiano. Chiunque può trovare motivi di somiglianza, cose che ha provato o vissuto, ma c’è sempre una patina, sottile, quasi invisibile, ma abbastanza ributtante che si interpone a impedire l’identificazione. Nella descrizione di questi momenti, della solitudine nella camera d’albergo parigina o nelle varie case del viaggio in provincia il libro è efficace. Il depresso medio ha molto in cui riconoscersi, tranne l’impulso, e tantomeno la voglia, di farlo. Il grande depresso meno ancora: non ne ha la forza, oltre che il motivo. Già gli basta il suo. Immagino che saranno in molti a capirmi.

 “…e adesso eccomi lì, scrive Florent, uomo occidentale nella sua età di mezzo, al riparo dal bisogno per qualche anno, senza parenti né amici, privo sia di progetti personali sia di veri interessi, … privo in fondo sia di motivi per vivere sia di motivi per morire”, in preda alla stessa “anestesia emotiva e amorosa” che Nelly Kaprièlian, (Houellebecq, L’Herne, 2017,  p. 130) rileva in Jed dopo la partenza di Olga, in La carta e il territorio e si può ritrovare in tutti gli altri personaggi di Houellebecq dopo la fine dei loro amori. È sempre la donna che li lascia (o muore); però sono sempre loro (o quasi) a provocare l’abbandono. In genere per seguire l’impulso erotico momentaneo, che per i maschi, secondo l’esperto autore francese, è irresistibile quanto dannoso per i sentimenti, da cui pure si vorrebbe separato. Prima o poi non resistono a non fare i cretini con altre donne e la frittata è fatta. Vedi appunto la fine dell’amore con Camille, nonostante questa gli abbia garantito per 5 anni (un record!) una totale consonanza coronata da sesso frequente generoso e gioioso, cioè una vera e compiuta felicità, che sarà poi rimpianta per tutta la vita. L’amore in Houellebecq ha un solo colpo in canna, che basta a distruggere però. Ciò che resta è dolore. L’abbandono, la caduta nella derelizione e la perdita del desiderio, la cui descrizione è occasione di pagine anche molto riuscite.

Il Captorix toglie il desiderio, che, secondo una tradizione filosofica e sapienziale che culmina in Schopenhauer (vedi In presenza di Schopenhauer, trad. it V. Vega, La nave di Teseo, 2017), è ciò che fa soffrire, perché deriva da una mancanza; ma che è anche ciò che, soddisfatto, dà il piacere, la felicità, un senso al vivere. Quindi, se soddisfatto non può essere, per qualsiasi motivo, come l’invecchiamento precoce avvertito da Florent e la depressione, meglio metterlo a tacere (ci sarebbe anche la religione, il misticismo, ma non funziona con lui, per il momento); tuttavia una volta ridotto al silenzio, si sfalda pian piano tutto il resto. E nonostante il Captorix come principale effetto positivo abbia quello di togliere la voglia di suicidarsi, è proprio il suicidio l’unica soluzione a lungo andare. La prima voglia che compare dopo la scomparsa di tutte le voglie è quella di morire.

La disillusione che ne deriva prende le sembianze della lucidità, del definitivo disincanto. Si tocca il fondo delle cose. Sembra che il meccanismo insensato del mondo sia finalmente visibile in tutta evidenza, nella sua verità che d’ora in poi illuminerà crudamente ogni cosa e gesto e sentimento e valore. Il vecchio buon nichilismo. È a partire da questo che Houellebecq e i suoi personaggi possono trinciare giudizi perentori a tutto campo, come se davvero avessero analizzato e capito tutto. E in un certo senso così è, se ci si attiene al rigoroso quanto ristretto riduzionismo determinista che sta alla loro base, nonché a quella del pensiero dell’autore. Il quale funziona ed è convincente finché si resta al suo interno, cioè vi si aderisce a livello di finzione narrativa e conseguente patto autore-lettore, ma può con la stessa chiarezza apparire del tutto infondato e irritante non appena si fa un passo al di fuori e si adottano altri parametri e categorie. È per questo che l’effetto, la ricezione e la conseguente valutazione dei suoi libri danno luogo a risposte così polarizzate e radicali. Così facendo però, è la modalità stessa, l’intonazione e l’atteggiamento di fondo di quei libri a essere, senza che ce ne si accorga, adottato, cioè a trionfare. Indizio sicuro di una certa forza, minore in Serotonina, o quanto meno della loro capacità di seduzione.

Però attenzione, Houellebecq sa essere davvero ambiguo, e spesso non si riesce a decidere chi sia a parlare, se solo il narratore o anche l’autore, e quindi di confonderli. È una trappola nella quale, pur accorti, si rischia spesso di cadere, come è capitato a molti. Certe uscite sono, specie in Serotonina, davvero troppo banali e stupide per attribuirle a uno dell’intelligenza di Houellebecq. La vera provocazione allora non sarebbe in ciò che i narratori dicono, ma nel far credere che, per il loro tramite, l’autore dica ciò che davvero pensa (ammesso che sia importante questo, e non la logica interna dei romanzi).

Ciò che attrae il lettore, preda, per citare Le particelle elementari, di “uno spiazzamento psicologico, ontologico e sociale”, confuso, sballottato tra l’assenza di senso e la compresenza di tutti i sensi che di conseguenza si elidono e annullano a vicenda, è proprio il suo tono perentorio dei narratori di Houellebecq, la sicurezza ostentata nei giudizi di cui sono disseminati i suoi libri anche in assenza di motivazioni o analisi; è il convincimento inflessibile, che può essere contagioso per chi fatica ad averne uno suo e a tenerlo saldo per la minima cosa, incerto tra un’opinione e quelle opposte o alternative, senza coerenza, e spesso senza nemmeno che questa assenza venga percepita o costituisca un problema, guidato solo dall’interesse e dall’umore momentanei, che verranno negati il momento successivo, all’insorgere di altri micro-interessi e ondate di umore. È anche ciò che lo rende sospetto e odioso, peraltro. Si vuole la verità, ma non si accetta che ci venga sbattuta in faccia o venga a contrastare quella che si pensava di possedere. Meglio una verità dopo l’altra dopo l’altra dopo l’altra. Ciascuna indubitabile. E Houllebecq è abilissimo a sciorinarle tutte, ciascuna assolutizzata.

L’origine di questo tono perentorio affonda più spesso nel risentimento però, piuttosto che derivare da una riflessione distaccata, come il cinismo vorrebbe far credere. Del resto Houellebecq, e non solo lui, trova indispensabile il risentimento come motore creativo. In un’intervista a Lydie Salvyre (Herne, p. 264) afferma: “trovo superba la letteratura del risentimento: l’individuo che sa di essere inferiore, che vuol fare pietà, che esibisce le sue piaghe. […] Sono un manicheo congenito”.
Ma, a riprova del suo valore fondativo, si era già espresso in merito nella sua prima opera in assoluto Restare vivi, e nel titolo del contemporaneo libretto dedicato a Lovecaft. Contro il mondo, contro la vita: “Sviluppate in voi un profondo risentimento nei confronti della vita. Questo risentimento è necessario a ogni vera creazione artistica. (…) //E tornate sempre alla fonte, la sofferenza. // Quando susciterete negli altri un misto di pietà spaventata e di disprezzo, saprete di essere sulla buona strada. Potrete cominciare a scrivere” (La vita è rara, Tutte le poesie, vol. I, Bompiani, 2016, trad. F, Ascari e A.M. Lorusso, p. 7)

Ma ora sembra che Houellebecq si sia imbolsito. La riserva di rancore si è esaurita, permangono solo sparsi residui dovuti più che altro al mestiere e, dio ce ne scampi, all’abitudine. Come di maniera è lo sguardo sul dettaglio della realtà, di solito molto acuto. La tentazione della saggezza, peraltro non sconosciuta già nelle poesie, lo ha forse addolcito come persona, ma rischia di azzopparlo come narratore. Le massime di cui ogni tanto Florent infioretta il suo discorso, sono perlopiù banalità dolciamare. “È la vita.” (È una citazione: p. 63.)
La strategia del rancore verso la vita forse non vale più. Forse è la vita a non meritare nemmeno quello. Si alza bandiera bianca, si prende una pillola, e si aspetta che il discorso si chiuda da solo.

Più che un rappresentante del maschio occidentale nella sua fase di irreversibile declino, Florent alla fine non è che la ripresa con minimi aggiornamenti di tutta una serie di personaggi otto-novecenteschi che agiscono senza morale e/o vogliono sparire, nella lignée di Bartleby (il classico “Preferisco di no” ovviamente non manca di comparire, a p. 294, quando la “corsa verso l’annientamento” del narratore ha cominciato a precipitare). Solo che, come scrive efficacemente Johan Faerber in Houellebecq: Homais romancier (Séroronine), è “un Bartleby che ha deciso di parlare più di quanto si sarebbe mai pensato; che preferisce non non parlare”, sparando senza ritegno su tutto ciò in cui la sua esperienza e i suoi pensieri si imbattono, ma senza la solita forza, fosse pure quella della disperazione, né la tensione metafisica e la penetrazione sociologica dei suoi predecessori. Florent è (la rappresentazione di) un uomo ridicolo e nullo, come lo sono gran parte dei suoi pensieri, abilmente disposti nella scatola di un romanzo ben impacchettato e leggibile senza sforzo alcuno, perché non fa che ribadire il risaputo. Saranno in molti a divertirsi a leggerlo. Poi potranno dire, compiaciuti della propria lucidità: “proprio così”.
Proprio così.

Dopo la fresca Legion d’onore di cui Houellebecq è stato insignito dallo stesso Macron su cui ha più volte espresso con la consueta liberalità il proprio peculiare apprezzamento, potrebbero conferire allo scrittore l’onorificenza corrispondente i numerosi paesi che hanno beneficiato di benevolenze analoghe (esclusi quelli islamici che stavolta hanno usufruito di un turno di riposo). In Italia il titolo di cavaliere ha una certa tradizione, in merito.






06/06/19

Pensierino su letteratura e vita (appunti per niente 8)



Non è che quando uno legge, o scrive, è morto.
Anzi, a me sembra più frequente il contrario.
Mi fanno sorridere, di tenerezza e un po’ anche di spregio, quelli che mettono la vita da una parte e la letteratura o l’arte dall’altra e si prodigano per conciliarle o invitano gli altri, inclusi i lettori viziosi e impenitenti, a farlo. A superare il presunto fossato che le separa, a fondere i due territori, a mettere in pratica. Non ci riusciranno mai. E’ impossibile superare un fossato che non esiste, che solo essi stessi hanno scavato e reso invalicabile nel momento stesso in cui invitavano a superarlo. Non c’è bisogno di nessuna rincorsa per saltare da una riva all’altra; non c’è bisogno di nessuno sforzo per fondere alcunché con la vita. Ci siamo già. La letteratura è la vita. Ogni cosa lo è.
Chiuso. Una volta per tutte.