31/08/18

Gnomo con cane



C'era questo ometto di 75-80'anni, piccolo come uno gnomo, con la faccia e l'espressione da gnomo, ma senza cappello e barba da gnomo, e che quindi forse gnomo non era, o lo era ma adattato ai tempi moderni, mimetizzato, forse vergognandosi, chissà perché, di esserlo, invece di andarne orgoglioso, di essere ancora vivo, e vivo da gnomo, in un mondo dove per gli gnomi sembra non esserci più posto, se non in senso morale, nell'avvilimento di una condizione universale schiacciata, ridotta ai minimi termini... va beh, dicevo, c'era questo ometto vecchio vecchio e piccolo come uno gnomo, che teneva un bastone nella destra e un guinzaglio nella sinistra e camminava con passettini frenetici, ma così brevi che il tacco del piede in movimento non superava mai la punta di quello fermo, di modo che, nonostante il ritmo frenetico, sembrava fermo. Ma lo stesso diceva ogni due metri al suo cagnetto (un cane da gnomo) che indugiava nell'erba che costeggiava la pista pedonale accanto al campo da calcio che un innaffiatore automatico stava bagnando, lanciando i suoi spruzzi estremi fin lì abbastanza da creare una parvenza di frescura: "Dai, muoviti, muoviti! cosa cerchi ancora? muoviti..." senza capire che lui indugiava solo per essere richiamato, che restava indietro per misericordia, per amore.

29/08/18

Episodi dell'uomo più brutto del mondo






4 luglio
È passato l'uomo più brutto del mondo.
Era da parecchio che non lo vedevo. Sono doppiamente contento. Che è ancora vivo e vegeto. E che nessun altro deve rilevare il suo scettro.
Lui male male non si trova, sembra.
Molto bene!
(Poi pensiamo anche alle brutture del mondo. Agli orrori italiani. Più tardi. Ora mi dedico a un passo, e ora a un altro…)


10 luglio
Ho visto la sorella dell'uomo più brutto del mondo. Forse gemella. È uguale! Senza nemmeno quel filo di grazia che la natura, col suo solito favoritismo, concede a tutte le donne, anche le meno fortunate. Poi è comparso anche lui e si sono messi a parlare pacati, con grande intesa, sorridendo. Al mio passare non mi hanno degnato di uno sguardo, se non fuggevole e più di compassione che di indifferenza. Come se io non fossi quell'uomo speciale che sono convinto di essere. Come se la mia persona non sfolgorasse tutta di... non rifulgesse... di... Di cosa? Boh 

16 luglio
Non esiste la sorella dell’uomo più brutto del mondo, almeno che io sappia. Ho inventato tutto. Chiedo scusa. Lui però esiste, anche se l’uomo più brutto del mondo probabilmente lo è solo per me. Non ricordo quando e perché questa denominazione, o titolo, piuttosto, che non saprei se definire più infamante o onorevole, e comunque a suo modo sacro, mi è venuto in mente; so solo che è tornato e si è affermato, con una luminosa evidenza, ogni volta che poi l’ho visto e lo vedo. Come oggi, che se ne stava non nella sua vecchissima utilitaria, ma in piedi, all’ombra degli alberi davanti al tabaccaio, con un giornale sottobraccio, che parlava con un avventore seduto al tavolino più vicino alla strada del bar lì accanto. Parlava, annuiva e sorrideva. Sorrideva davvero. Lo giuro. Come se fosse con la sorella gemella.

28 luglio
Comunque, l'uomo più brutto del mondo sarà tale solo per me, ma brutto brutto lo è incontestabilmente. L'ho appena incrociato. È bello vederlo.
Era con suo fratello. La sorella l'ho inventata. Il fratello no. L'ho visto giorni fa a un tavolino del bar sotto i portici. Sono uguali! A parte che questi portava un largo cappello spiovente da cui sbucavano lunghi capelli scomposti, la barba folta e occhiali da sole a cavallo del naso non euclideo, non saprei se a meglio nascondere o evidenziare la bruttezza. Per fare "tipo". È la seconda risorsa per farsi almeno un po' apprezzare di quelli che dal lato estetico la natura (o una smodata propensione al cibo - ma questi ora si vantano, o mostrano di andare orgogliosi di questa sovrabbondanza compensatoria, come suggerisce il mercato che ha così individuato una nuova numerosissima clientela da titillare e soddisfare) ha sfavorito. La prima è il voler fare i simpatici. Quorum ego (Traduco: come il sottoscritto).
In ogni caso vedere insieme i due fratelli, come prima, un poco la prospettiva la cambia. Insieme, sono brutti lo stesso, ma anche belli. Sono una bella coppia. Quel che è giusto è giusto.







28/08/18

Sull'avere gli attributi - Rileggendo Macbeth (ma davvero)


Pensavo, rileggendo Macbeth (ma rileggendo davvero, perché rileggere un classico ogni tanto, o ogni poco, fa solo bene: tanto più che così hai la scusa per non leggere una schifezza appena uscita), pensavo, dicevo, che in molte storie, come appunto in quella di Macbeth, sono le donne, come anche nella realtà, ad avere le palle. Ad averne due paia, anzi: uno per sé, per affrontare le loro necessità, che non sono sempre rosee, e l’altro per i loro, chiamiamoli così, compagni. I quali, per dimostrare di non esserne privi, al di là di quelle racchiuse nei sacchettini sotto l’inguine, che non contano, facendo per filo e per segno tutto ciò di cui le donne li dichiarano incapaci portano a compimento i loro desideri ed eseguono i loro ordini anche quando non dati espressamente (andando pure oltre, in questi casi, perché il ricatto, e lo spregio implicito, sono ancora più cogenti del comando esplicito, come ogni figlio di madre vampira sa: per non dire ogni figlio, e fidanzato, e marito, e basta, senza ulteriori specificazioni): si fanno loro strumenti esercitando i poteri che la forza fisica e la posizione economica e sociale concedono loro, ma confermando proprio così di non averle, di esserne irrimediabilmente sprovvisti. Il fatto poi che siano loro i primi, e spesso gli unici, a subire le conseguenze dei misfatti, o solo degli errori, a cui il loro comportamento idiota li ha condotti, suggella con la fine di quella potenza, anche sociale, che avevano creduto di piegare ai propri fini, e insomma con la morte, l’impotenza fondamentale che avevano inteso negare.
Peccato che a volte il moralismo, le convenzioni inveterate, il desiderio di compiacere (cioè l’essere senza palle) induca chi quelle storie le racconta a far subire conseguenze analoghe anche alle signore istigatrici, come appunto Lady Macbeth, che immagina, e di fatto vede riversato su di sé il sangue da lei fatto versare, senza poterlo lavare via, dato che era immaginario, quando invece, a rigore, in quello stesso sangue, ma reale, avrebbe dovuto fare dei bei bagni rigeneranti.

A meno che il Bardo, a nome di tutti gli uomini, inclusi quelli che mai si sarebbero sognati di chiederglielo, come il sottoscritto (uomo di specchiata mitezza), non si sia preso una vendetta simbolica con lei, facendola pagare per tutte quelle che nella realtà l’hanno fatta franca.
La tragedia ha le sue leggi, peraltro. Il mondo va da una parte, le storie dall’altra.



30/07/18

Farnie, paulownie e gelsi secolari


 
Le farnie del Cerreto hanno 198 anni.
A quella sulla sinistra un recente temporale ha spezzato un grande ramo, mostrando che è molto malata. Probabilmente verrà tagliata, dice il tecnico che abbiamo incontrato stamattina. Anche un'altra sembra malata, e allora... Mi vien da piangere. 
 
Il tecnico fa delle considerazioni sul fatto che accettiamo come normale che una persona centenaria muoia. La riteniamo fortunata di aver vissuto tanto, anzi. (Io no. O perlomeno faccio abbondanti distinzioni) Mentre un vecchio albero che muore ci addolora, come se avessimo pensato che fosse eterno, o potesse durare indefinitamente, molti secoli, millenni. E' vero, un grande albero che muore addolora con un'intensità sorprendente, senza che ci sentiamo in colpa come se avessimo sottratto questo dolore a un essere umano. Come se fossero due dolori differenti, essendo però lo stesso. Un lutto in qualche modo, per l'albero, più ancestrale, però. Che comunque molti non provano, senza stupirsene. Mi stupisco io per loro. E anche per me.

Poi il tecnico (uno che sembra sia stato nominato più volte tra i migliori giardinieri pubblici italiani, o qualche onorificenza o carica del genere), ha detto che in un cortile qua vicino c'è una paulownia tomentosa registrata nel catasto teresiano (1718-60). Erano sei pochi decenni fa. Ora ne ha accanto solo una molto più giovane.
 
 
Gli parlo di alcuni grandi gelsi che ho visto, e lui mi dice che nel cortile di una cascina semiabbandonata a pochi chilometri da qui ci sono due gelsi del 1630, pare.
Nei prossimi giorni li fotografo e pubblico.
Prima che spariscano.
Come se una foto potesse salvarli.
 
Comunque eccoli qui:
 
 
ps. 2022. Le farnie nel frattempo si sono ridotte a due. Vissute 200 anni ne sono morte 2 in due. 
E' una desolazione.

26/07/18

Musei italici



Sono un vizioso impunito dei musei. Ho preso la malattia da piccolo e non ho mai cercato di guarirne. Ci vado volentieri, ogni volta che posso. Ovunque. Persino in Italia. Dove ci sono sì alcuni dei musei più belli del mondo, ma dove spesso i visitatori sono trattati peggio. Bestie paganti senza diritti, se non quello della muta, devota transumanza.
Non solo i biglietti sono carissimi e a volte includono pure supplementi obbligatori per esposizioni che non vuoi vedere (il trucco è mettere una mostra temporanea nelle sale d’ingresso o interne al museo stesso; all’estero spesso è il contrario: il biglietto della mostra, in sale separate, vale anche per il museo); ma si paga tutto, e il prezzo è in ragione inversa della qualità, per esempio alle caffetterie e nelle librerie. Chiamarli Bookshop mi ripugna (per la parola); tanto più che sembrano negozietti di souvenir. E’ già tanto che il pudore impedisce, per il momento, di allestire bancarelle risparmiando su locali, luce e riscaldamento. E personale, come richiedono i tempi. Un po’ di pazienza e ci si arriverà; in attesa che chiudano tutto.
Le sale sono quasi sempre prive di sedie o panche dove fermarsi a riposare o a guardare con calma quello che interessa, o a fare uno schizzo o prendere appunti. O solo chiudere gli occhi. Riposare la vista. Non vedere. Asciugarsi la lacrimuccia. Immaginare il visto. Sognare il da vedere. 


Ribadisco: con calma, non mi azzardo a dire con comodo: l’idea che un museo sia un luogo di piacere temo che appaia blasfema a molti (in barba a tutti, però, io godo; e siccome sono un sentimentale, spudorato oltretutto, mi commuovo pure). Una volta ho litigato con i sorveglianti di un museo totalmente deserto per difendere i miei studenti che, pur rispettosi e senza eccedere, giravano liberi e divertiti per le sale. Ecchecavolo, mica siamo in chiesa o al cimitero! Non sarà un parco divertimenti, d’accordo; però… (Eppure l’idea del parco…)
La cosa che però meno gli perdono, agli italici musei, e anche alle chiese già che ci sono (a parte il fatto che mi costringono a incazzarmi e a ripetere banalità, che sono tali perché vere in questo caso; ma non lo sono banali per il fatto di esserlo, vere), è che non si possono scattare fotografie, nemmeno senza flash.


Oppure si può, ma come un ladro nella notte, di nascosto, furtivo e quindi malissimo, approfittando dello schermo della fola, della sonnolenza o della distrazione del  custode (sulla categoria, in particolare sulla sottospecie genovese, ho già scritto: cfr. il racconto breve dal lungo titolo: “Evoluzione dei custodi (A far scuola non sono stati gli angeli, però. O magari sì, in un modo che non so.)” che si può leggere qui, o dei momenti in cui sia alza per andare nell’altra sala di sua competenza (di solito ne ha due) o a parlare con un collega, o mentre legge o gioca o messaggia con lo smartphone o se ne serve per lunghissime, appassionate, segrete sussurrate telefonate, tutte cose proibite in quei sacri luoghi ai semplici mortali, ma mettendo anche in conto di essere richiamato e bacchettato se il cerbero alza gli occhi o rientra all’improvviso, con il sottoscritto che sfoggia la sua espressione più candida, ora favorita dai capelli di colore simile, e dal tono o dalla gestualità di contrizione, affinati in decenni di pratica. Molto convincente! Passo per uomo buono, e con l’espressione da buono adeguata (quella che muove al compatimento). E spero anche di esserlo: mi compatiscano pure. Non è però lontano il giorno, tempo, in cui troverò la mia faccia sul vetro delle biglietterie, con scritto sopra, o sotto, o sopra e sotto, WANTED, in lettere giganti, rosse, grondanti sangue, con un ‘espressione, io, truce, la sclera venata, barba di tre giorni, bocca storta e uno sguardo così feroce che supera persino le mie ambizioni più efferate.
Eviterei volentieri questi miserabili sotterfugi (divertenti però, ogni tanto: come quasi tutti i riflussi dell’adolescenza), se potessi trovare le riproduzioni di ciò che mi interessa nei cataloghi o come cartolina. Tanto più che spesso mi servono solo dettagli. Ma non trovo mai niente, anche a prescindere dal costo, come si diceva. Di tutte le foto che ho scattato nell’ultimo museo che ho inutilmente saccheggiato, nessuna opera era riprodotta in cartolina e solo 3 sul catalogo, in piccolo o male. La mia rabbia, o è la giusta nemesi?, è che le immagini si sono poi rivelate inutilizzabili, sfuocate o con tutta la sala e il sottoscritto riflesso, a causa dei vetri e dalla fretta. L’unica cosa a cui mi sono servite è stato rimpinguare la mia galleria di autoritratti riflessi e confusi (esattamente come sono io). Quelle fatte all’estero invece, a dispetto della mia imperizia, sono molto meglio (cfr. esempi qui sopra).


Tornato a casa ho consultato l’archivio fotografico dell’importantissimo polo museale in questione: molto ricco, in quanto a numeri, ma metà delle immagini sono ripetute, quasi tutte sono di dimensioni filateliche e a bassissima risoluzione, e anche lì, sorpresa!, c’è pochissimo di quello che cercavo. Decidono loro cosa riprodurre, ovvio. E’ quello che la consuetudine ha portato a vedere di più; a vedere perché ti hanno detto che va visto: quello che è “importante”, consolidato, facile. E più facilmente vendibile: come se fare delle riproduzioni richiedesse chissà che investimenti da cui rientrare quanto prima!
Pur sapendo come andrà a finire, continuo comunque a spulciare, inutilmente, la libreria dei musei italici. Se le confronto con quella dell’Alte Pinakothek, che ho appena rivisto per l’ennesima volta, la delusione mi stringe la gola e piango: il catalogo completo (ma completo davvero, anche se in bn), con una scheda per quadro, per un totale di 600 pagine, ha un costo risibile; senza contare che ogni sezione del museo ha il suo catalogo dettagliato a colori con schede e saggi, sempre a prezzo economico, per chi fosse interessato solo a una o due di esse per esempio: e i visitatori sono sempre stati meno numerosi di quelli che trovo di solito non dico agli Uffizi o ai Musei vaticani, ma persino nella galleria di Palazzo Pitti (meravigliosa peraltro). Ho chiesto aiuto alle ragazze dietro i banchi, ma le poverette mi hanno guardato come violate nella loro sfera più intima. E avevano ragione: ero io l’indelicato. Ho comprato lo stesso un paio di cartoline, come a risarcimento del loro onore. Economico, questo (il risarcimento intendo: economico come tutti quelli simbolici).
Io da qui a mani vuote non me ne vado!, ho pensato allora. Ma non mi riferivo alle cartoline. E così sono tornato indietro, ho ripercorso quasi tutte le sale, approfittandone per scattare altre foto malandrine (e maldestre) e sono sceso nel sottosuolo, alle toilettes. Ho percorso i corridoi e sono arrivato a due salottini che introducevano ai bagni veri e propri, non belli e invitanti alla lettura come quelli della Biblioteca nazionale di Dublino (cfr. foto), ma molto puliti e decorosi, a modo loro eleganti, e lì, sotto gli occhi esterrefatti di un inserviente indiano, saltellando qua e là come un indemoniato, mi sono sfogato a fotografare a raffica tutto il fotografabile.
Manco a dirlo, non c’è una foto che non sia sfuocata.

2012