14/09/15

Evoluzione dei custodi (A far scuola non sono stati gli angeli, però. O magari sì, in un modo che non so.)



L'efficientismo ha conquistato anche i custodi dei musei, quei tradizionali cultori della fannullaggine. Non so da dove viene questo zelo: forse gli hanno spiegato di quanta bellezza (e ricchezza: che è un argomento che funziona sempre) hanno la responsabilità; forse hanno solo paura di perdere il posto, che non sarà il massimo, ma di questi tempi va tenuto stretto (dicono). Anche l'asservimento procede a grandi passi. All'indietro. Senza nemmeno curarsi di assumere nuove forme, tanto per salvare la faccia. Quella la salvino gli asserviti, se proprio ci tengono. Forse è solo l'effetto di una recente direttiva ministeriale: l'unico genere di iniziative culturali prodotte dal governo da poco, felicemente, deceduto. O forse è solo che i custodi sono brava gente un po' ottusa, che è facile impressionare.
Mi è venuto di pensarlo l’altro giorno, a Genova. Può essere che i custodi di Genova siano un po’ particolari (l’aria di mare combinata con quella montana fa brutti scherzi, come dice un mio amico psichiatra: un genovese), senza contare che parecchi, presumo grazie a corsie preferenziali una volta tanto giuste nelle assunzioni, avevano dei deficit evidenti, non solo fisici (anche se con una grande qualità che li metteva tra parentesi, quando non li rendeva invisibili del tutto: la gentilezza); fatto sta che se saltavo qualche sala o trascuravo un’opera famosa, subito arrivava qualcuno a farmelo notare e mi suggeriva, con fermezza rattenuta a fatica (delicatamente cioè), di prestare maggiore attenzione o di rifare il percorso (perché tornare indietro è sempre possibile!), guardandomi stranito, per non dire scandalizzato, se affermavo di aver già visitato le sale consigliate o avevo l’ardire di affermare che questo o quello non mi interessava. “Così in fretta? Ma davvero non vuole andare? C’è il violino famoso... la camera da letto...  il bellissimo soffitto affrescato... la visione panoramica!”

Se solo ribadivo, ringraziando, che no, che preferivo non vedere tutto, la loro sorpresa spontanea si tramutava in stupore, nell’accenno di una condanna morale che tutto in loro manifestava, anche quando non trovava la via della parola. Di fronte a tanta costernazione, ogni volta che il custode mi sembrava particolarmente disarmato ho ceduto e sono tornato sui miei passi. Un paio di signore mi hanno anche tenuto compagnia per tutto il percorso penitenziale, mostrandomi di persona i capolavori di loro spettanza, di cui pronunciavano autori e, qualche volta, titoli modulando tonalità inedite, di conio locale immagino, una specie di maiuscoletto vocale, e irrigidendosi disorientate quando, in risposta, arrischiavo un commento su qualche dettaglio o notizia di cui non erano a conoscenza (praticamente tutto, a parte la pura indicazione). Non si scostavano di un millimetro però, vicine, pronte a placcarmi, più che abbracciarmi: non credo infatti di poter attribuire la loro contiguità a un colpo di fulmine per la mia trascurabile persona: il mio fascino è troppo sottile per essere colto d’acchito (nemmeno a lungo termine, se è per questo). Però poi, raggiunta la collega più vicina, si sbrigliavano in lunghi commenti appena sussurrati, ma sottolineati da frequenti occhiate e da una gestualità che non avevo nessuna fretta di decifrare. Presumo di avvertimento; o di compatimento. O entrambi. “E’ uno bizzarro, ma innocuo”: roba così...

Forse però la reazione zelante dei custodi era solo un derivato del mio consueto comportamento irregolare, di visitatore imprevedibile, che attraversa sale a grandi passi, si ferma un bel po’ su un’opera o due e poi magari torna indietro, e si siede, o cerca di fare foto anche quando non si potrebbe: comunque sia, dopo un po’ il loro atteggiamento cambia sempre. In genere i più saggi fanno finta di niente e continuano a leggere il giornale o a telefonare: mi ignorano, limitandosi semmai a sbirciare ogni tanto, infastiditi per la distrazione che arreco; la maggior parte mi segue con lo sguardo, sospettosa del mio ondivagare sempre al limite dell’infrazione, dell’oltrepassamento di soglie proibite (le uniche, nel caso,  che mi sarei concesso in tutta la vita); e solo pochissimi si prendono la briga di seguirmi passo passo. A Genova invece, l’altro giorno, quasi tutti: generale il controllo della correttezza del percorso e della sua scansione e linearità; immediato l'allarme non solo se giravo una sedia verso la parete accanto a quella dell’opera prescritta, ma anche se non rispettavo le tappe santificate e soggiornavo troppo in altre meno canoniche, degne al massimo di un’occhiata fugace, o addirittura deserte da tutti.
Accorrevano in mio soccorso, ribadendo suggerimenti e proponendo correzioni e integrazioni, informandosi su eventuali trascuratezze, e cedendo a malincuore solo se insistevo nel mio errore erratico e eretico (pardon...), allontanandosi poi di scatto per sottrarsi all'orrore provocato dai miei maldestri tentativi di fotografare proprio quelle opere insignificanti o qualche loro trascurabilissimo dettaglio, veloci come chi si ricorda solo in quel preciso istante, all’improvviso, di un impegno improrogabile o è stato appena chiamato, anzi: richiamato, da un superiore. Un bastardo, manco a dirlo.
Se invece a richiamarmi erano loro, i buoni custodi, li stavo sempre ad ascoltare, e quando, obbedendo alle insistenze dei più ansiosi, ogni tanto ne seguivo i consigli, o le ingiunzioni, il loro sollievo era tale da ripagarmi ampiamente della imprevista seccatura.
(Obbedire ai più deboli. Assoggettarsi ai soggetti. Ossequiare i fantasmi sbriciolati del potere nelle sue infime rifrazioni nell'immaginario e negli atti degli infimi, che vi si assoggettano ignari e ignari lo ossequiano. Prendersi cura dei custodi accettando, a volte, le loro cure: la loro spontanea premura.)


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