12/12/19

Gli abiti degli angeli




Stamattina mi sono svegliato pensando agli abiti degli angeli. Come fanno a indossarli con l'ingombro delle ali? Ci sono bottoni sulle spalle? Fessure? Asole? Buchi? Tagli, come quelli di Fontana? Ma lunghi quanto per poterle infilare? Come fanno a farci passare qualcosa, quando spesso sono così grandi? Gli angioletti se la cavano: sono nudi. Anche i demoni. Ma gli angeli adulti? quei magnifici esemplari in vesti fastose che portano l'annuncio a Maria? A meno che non ci sia un sistema complicato di aperture in corrispondenza dell'attacco alle spalle, o alle scapole, e poi due lembi per abbottonarli sopra l'attacco e un terzo per unire i lembi alla base del collo, ciò che comporterebbe una dama di camera, o un angelo di grado inferiore, per aiutare nella vestizione, anche di semplici tuniche. Lo so che sono dubbi inficiati di basso materialismo. Che in questo campo i risvolti pratici non contano. Che lo sguardo quotidiano è fuori luogo. Non pertinente.
Eppure continuo a pensarci.
Come se solo lo sguardo quotidiano avessi. Come se fossi capace solo di quello e vi fossi imprigionato come in una corazza, in un abito stretto. Senza ali. Che difatti non ho.




09/12/19

La coerenza viene dopo


Continuazione di Tempo variabile


La coerenza viene dopo, quando, a bocce ferme, si postula la possibilità, e anzi il dovere, di infilare in una sequenza lineare, univoca e possibilmente ben connessa e conseguente, gli eventi, di arrivare a stabilire una storia che vada dalla A alla Z, un inizio e una fine, entrambi certi, definiti, che si possano impacchettare e chiudere da qualche parte, per estrarli all’occorrenza o da sfogliare come un album di famiglia: la propria. Quando cioè il tempo stesso è già diventato lineare, o quando si vuole che diventi lineare e allora una storia che lo puntelli e lo mostri è indispensabile, se non è già essa stessa a contribuire a farlo diventare tale; lineare e quindi orientato verso un(a) fine, che proietta all’indietro, cioè presuppone, un inizio, una storia anche di ciò che storia non ha, perché sta(rebbe) al suo inizio. Una storia dell’origine. Del prima. Del fuori. Che diventa origine uscendo da se stessa con un balzo. A posteriori, quando il balzo è già stato fatto. Quando un B fa di essa un A. E possibilmente non solo un B, ma già un B e C e D… La storia impossibile di ciò che non ha nulla prima di sé, e quindi neanche un dopo. E che quindi non c’è.
Si parte dalla genealogia, per risalire a un punto zero, in cui esso diventa uno, e da lì ripartire a contare. Ma la genealogia può cominciare solo se c’è almeno una seconda generazione, o, meglio, una terza una quarta. Quando si comincia a guardare indietro perché già laggiù in fondo non si vede più, è tutto nebuloso, sparito dimenticato. Perché allora (quando?), non c’era nessun bisogno di ricordare. Era tutto già lì. Lì dove? Lì cosa? Chissà. Tracciamo un percorso, raccontiamo una storia, scartiamo le scorie, diamo un nome e cominciamo da capo. Da qui. Ricominciamo.

04/12/19

Tempo variabile



La mitologia ha in spregio il decorso temporale, sia lineare che ciclico. Non si riesce a mettere in fila e a far collimare niente di niente. Non c’è coerenza se non all’interno della versione della storia che viene di volta in volta narrata. E anche lì, non sempre.
Se si prendono tre storie, per esempio, con protagonisti A, B e C:
A può essere giovane, o non ancora nato, quando B è adulto e C vecchio;
B però può essere più giovane di A quando questi sposa la figlia di C e poi lo uccide (a meno che non siano coetanei e lo uccida perché è il fratello o un aspirante alla donna che sarà, o è già, sua sposa);
C è più giovane di A quando questi sposa la figlia di B e poi lo uccide.

Paride è giovane alle nozze di Peleo e Teti, quando incontra Elena, cha ha già avuto una figlia, Ermione, ora di 9 anni, da Menelao, che poco dopo muoverà guerra a Troia avendo come guerriero più forte del suo esercito Achille, che secondo il mio calendario non dovrebbe essere ancora nato ecc.
Ma quella della guerra di Troia è un’altra storia, che deriva da questa, ma ha una sua autonomia, e quindi una diversa temporalità.
Poi tutto finisce nel mito, e il tempo perde pertinenza, svanisce.
A farci caso sono solo i pignoli e i filologi, tutti miscredenti.

01/12/19

Apparizioni (Appunti su Vermeer non entrati in "Figura di schiena")



Nell’assumere le scene di genere più risapute, le scene di genere “tipiche”, che sembrano non simbolizzare nient’altro che se stesse in quanto “scena di genere”, senza all’apparenza modificarle, cioè innovarle criticarle o parodiarle, Vermeer di fatto le svuota, per farne, invece di un momento di una narrazione tutto sommato prevedibile nel suo svolgimento e simbolismo, il punto immobile, senza tempo, dove formicolano mille storie potenziali che però non potranno mai prendere forma, se non quella, sempre deludente, delle debolezze, delle presunzioni o delle minuscole ossessioni degli spettatori. Pur nella loro teatralità (nella loro impaginazione teatrale, voluta, costruita), in queste scene infatti compaiono non persone (come sarebbe se fossero ritratti, perché anche se lo sono di modelli reali – perlopiù famigliari, si suppone – i tratti personali sono smorzati, de-individualizzati, se non elisi del tutto, che sarebbe impossibile), né personaggi (come sarebbe se fossero citazioni o allusioni a scene di genere) o figure simboliche caricate di elementi iconologici o allegorici consolidati (nei pochi casi in cui sembrano esserlo, c’è sempre qualcosa che però li rende ambigui e mette come in dubbio: si vedano le due grandi allegorie della pittura e della fede, per le quali non ci si è ancora messi d’accordo sui molti dei dettagli più importanti), bensì apparizioni. Cioè figure colte nel momento del loro apparire, come se non avessero né passato alle loro spalle né futuro davanti a loro, un momento compiuto in se stesso, nel fulgore del loro essere nel momento in cui vengono ad essere, senza storia, che ne contiene forse infinite (o molte, non enfatizziamo inutilmente), ma il cui istante successivo, se mai ci sarà, sarà quello della loro sparizione.

(A volte l'apparizione è doppia. Come nel quadro riprodotto sopra. Ma può essere anche un colore o un'ombra, come quella della sedia nell'altra donna che legge, quella con la giacchetta blu del Rijksmuseum. Dove addirittura ci sono, ma nelle riproduzioni non si vedono, altre ombre più leggere, azzurre, almeno una, ombra di ombra, della sedia e della giacca, o di entrambe, che ho visto, o mi è parso di vedere, ma sono sicuro di averle viste davvero, un mattino a Amsterdam.)


25/11/19

Cominciano a mulinare (appunti per niente -15)


Come al solito, prende biro o matita per scrivere una frase, un'espressione, o solo un verbo o un aggettivo, e dopo 20 righe è ancora lì a chiedersi perché non si ferma, cos’è questo impulso, questo bisogno quasi fisico, una volta iniziato, di andare avanti come se non dovesse fermarsi mai, con le parole, non si sa perché, che cominciano a mulinare nella testa a velocità sempre più sostenuta, premendo le une sulle altre, mentre da ciascuna di esse si dipartono nuovi percorsi, deviazioni, specificazioni, approfondimenti, dettagli, in una germinazione che gli appare infinita, come la stanchezza che produce ogni tentativo di seguirle, opprimente, tanto che a un certo punto, per porre un freno, abbozzare un principio di ordine, si costringe a cercare di fissarle, partendo dalla prima, o anche dall’ultima, ammesso che si possa distinguere, enumerarle (perché così un ordine già ci sarebbe), perché una gerarchia non c’è, se non nell’urgenza di porre un freno, uno qualsiasi, e qualsiasi parola allora può andar bene, ma poi anche questa porta in qualche direzione che, manco a dirlo, non era stata prevista, nonostante lui cerchi di non dimenticare (ovvero: senza riuscire, senza poter dimenticare) tutto quello che prima pareva importante, imprescindibile, che riprende (recupera) appena gli è possibile, ricalcando forzatamente (scopre poi) le medesime procedure, con ritmi analoghi, finché la frenesia, a causa della fatica stessa che ha scatenato, si rallenta e lui può davvero provare a fare un po’ di ordine, di tirare i fili, qualcuno almeno, pur sapendo che finestre sia apriranno di nuovo, che germogli spunteranno, anche sa allora sarà più disposto a potare, a chiudere, tanto che, bene o male, a un certo punto gli si prospetta, a meno che non sia una nuova illusione, la possibilità di mettere un punto, fermo o provvisorio si vedrà poi: di interrompere, se non proprio di finire. Per un po’, tuttavia, la deriva continua, aggiunge. Riprenderà, per fasi più brevi, meno intense. Sì, sì, gli ricorda qualcosa…, ride, ma non importa, lasciamo stare..., possibili paragoni o implicazioni sono troppo facili, possiamo trascurarle. Non gli guastano certo la tranquillità raggiunta, quel po’ di pace o di serenità che gli sembra di aver conquistato. Più tardi potrà tornare su quanto avrà così fissato, e si dirà: tutto qui?


21/11/19

Paranoia. Difetto di.





Dice che la totale assenza di paranoia che l'ha caratterizzato fin da piccolo, grazie anche a un ambiente che non solo la parola me neppure l'atteggiamento manco sospettava che esistessero, lo ha però esposto in maniera irrimediabile all'ingenuità, e anzi addirittura a un candore che tende spesso a confinare con la stupidità, ciò di cui molti, che aspettano solo quello, se ne approfitterebbero a mani basse alla prima occasione. Non gli importa molto, di queste miserie, sostiene (con candore?), ma confessa che a volte ci resta male, ripensandoci. Il poco di sospetto che ha in dote, o di cui si è dotato, lo applica solo alla teoria. Il passaggio alla pratica, alla vita concreta, alle relazioni con gli altri, per quanto sappia che possono essere, e non di rado sono, dei bastardi, gli fa proprio difetto. Ne deduce che un po' di paranoia non guasterebbe. Che dovrebbe aggiungerla, ma come?, al suo armamentario.
- Quella non si chiama paranoia, gli dico; si chiama prudenza. Avvedutezza. Esperienza. Saper vivere.
- Non infierire, ti prego, mi fa. E' troppo tardi per frequentare l'università della strada.
- E' vero, gli rispondo. Tanto più che ora la frequentano tutti, giorno e notte, trascurando tutte le altre. A cominciare da quella vera e propria.
- Sì, sì..., mi interrompe scuotendo la testa. Ma ora scusami, devo andare, ciao.
- Cos'hai di così importante da fare?
- Niente, mi risponde. Vado a leggere.

19/11/19

Uno sguardo su V. S. Naipaul, preso un paio di settimane prima che morisse – l’11 agosto 2018 (appunti per niente 13)



Naipaul è sempre distaccato, guarda le cose da molto lontano, da uno spazio e da un tempo diversi, e come se non avesse per ciò che vede e descrive e narra che un interesse documentario, per capire con la massima lucidità possibile senza che sia necessaria alcuna specie di partecipazione. Come se la minima empatia fosse d’intralcio. Mentre invece questa partecipazione è alla base del suo stesso guardare, ma riguarda solo lui e non deve pertanto lasciare traccia nelle parole che usa e né intorbidire gli occhi che guardano. Il suo non è uno sguardo disumano, tutt’altro: solo che l’umanità è stata espunta, e quasi espulsa, revocata, perché nel campo liberato da questa mutilazione il discorso possa sprigionare tutta la sua potenzialità di conoscenza, e attraverso di essa, anche di partecipazione, ma solo da parte del lettore. Non la fascinazione entra in gioco, ma l’ostensione analitica dettagliata, messa a disposizione del mondo e degli eventi nel loro carattere meno sovraccarico di soggettività e ideologie, e quindi, se non più puro, più di impatto, più denso, più contundente. Una fascinazione fredda, se si vuole. Ipnotica, disincarnata, davanti al manifestarsi della cosa o dell’evento che si offrono alla comprensione.
Anche quando si concede apprezzamenti o valutazioni di qualsiasi genere, sono quasi un dato oggettivo, da cui sarebbe impossibile prescindere, e che comunque non caratterizzano lui come individuo, ma chiunque: la tenerezza è remota, la benevolenza ha la sordina, così come pacata è la ferocia riservata a chi se la cerca, a persone e cose che ambiscono a uno statuto che non gli compete né meritano, alla limitatezza che si atteggia a grandiosità e la pretende. Allora il suo sguardo è ancora più gelido, ma anche qui come se esponesse un dato di fatto, non una valutazione personale bensì l’espressione di un’evidenza, una constatazione più che un giudizio di valore, senza rimarcarlo in alcun modo, senza indignazione o sottolineature, sfumature tonali o solo allusioni. Allusioni meno di tutto. Niente gli è più estraneo infatti di strizzatine d’occhio e di qualsiasi ricorso alle altre strategie dell’implicito, o presunto tale. Sorprende la totale assenza di quelli che conviene chiamare con il loro nome: mezzucci, a cui siamo tutti inclini a ricorrere ogni volta che siamo a corto di altri argomenti, non tanto perché ce lo si aspetterebbe anche da lui, quanto per la triste abitudine di trovarne ovunque, a partire da noi stessi. La facilità è il peggior nemico di chi scrive. Il quale però ne fa uso non di rado, per le sue virtù consolatorie e rassicuranti. La lucidità quanto a se stesso è il peggior nemico di chi vive. E quindi!


Come dice di Nehru quando per la prima volta condivide la vita dei contadini: che “da quel momento non gli sarà più possibile dare le cose per scontate”, anche lui, Naipaul, non dà mai niente per scontato. Non per questo si concede però la meraviglia. È ciò che lo distingue dal viaggiatore standard. Anche dal viaggiatore standard molto intelligente. È sempre serio. L’ironia non è contemplata nel suo armamentario. O quantomeno non è esibita. Nasce dalle cose, senza un’intenzione. Quando arriva e viene colta (perché, trascinati dalla lettura e dal tenore generale del discorso, è facile non avvedersene e scambiarla per un’affermazione come le altre) è però mortale. Lapidaria. Nel senso di una lapide tombale. O della lapidazione.
Il suo atteggiamento è il contrario del postmodernismo, senza con questo essere rivolto all’indietro come tutti quelli che fanno come se niente fosse (tra cui, anche come se il postmodernismo non fosse stato). E certo questo è il portato della doppia, o tripla fonte del suo scrivere: da una popolazione minoritaria e emarginata di un paese coloniale (doppiamente emarginata dunque: ma con un inespresso quanto incrollabile senso di superiorità dovuto alle lontane radici, con la sprezzatura di chi si è accomodato a sopravvivere in un luogo e tra gente in qualche modo disdicevole, se non proprio disonorevole: triplicemente esclusa quindi) e insieme da una piena assunzione della cultura dominante (dei suoi strumenti ecc.), senza nostalgie o rivendicazioni facili. Anzi, senza rivendicazioni del tutto, in apparenza, se non ciò che è lecito sperare e cercare di raggiungere senza abbassarsi. Una posizione di orgoglio infinito, così grande che non è più nemmeno tale. Non un sentimento, dunque, ma un’infinita distanza. Appunto.


16/11/19

Euridice scompare



Vedi Euridice solo quando scompare:
ma lei c’è solo se la vedi; solo vedendola
la fai essere, ma lei è, solo per scomparire.
La guardi per farla essere nel suo sparire.
Solo nello sparire lei è e puoi vederla.
Se la guardi lei viene a essere,
vibra un istante nell’essere mentre sparisce:
il suo essere è quello della sparizione,
è un essere nella sparizione
che avviene mentre, guardando, la vedi.
Guardare fa insieme essere e sparire.
Sparisce alla vista che l’ha fatta apparire,
che le ha dato apparenza affidandosi
all’apparizione, alla sua possibilità
che non ha mancato di avvenire,
negando al contempo ogni avvenire.

Per me Orfeo un attimo Euridice la vede.
Forse non vede proprio lei, ma il suo scomparire,
la sua scomparsa, il luogo dove era,
che ora è vuoto,
ma segnato dalla sua assenza.
Colmo della sua assenza.
Pesantissimo. E impalpabile.
Perché l’assenza è assenza, inutile
girarci attorno, farne una diversa presenza.


È un momento irrappresentabile.
Non ci sono quadri con Euridice che scompare.
Lei è sempre ancora lì, e Orfeo la tiene per mano,
o lui procede e lei con Ermes lo segue.
In alcuni si volta e lei è ancora lì, l’attimo in cui scompare
è troppo lungo, eterno: lei è sempre ancora lì,
come se dovesse restare per sempre, non sparire mai.
Come mostrare il voltarsi di Orfeo e la scomparsa di Euridice?
Solo la parola lo può dire. L’immagine fallisce sempre.
Nell’immagine lei c’è sempre ancora, o per sempre mai più.
Non ci sono alternative.
Per i sentimentali lei sarà sempre lì;
per i disincantati non c‘è più per sempre,
non c’è mai stata.
L’attimo del suo esserci e quello dello scomparire
sono lo stesso. Sempre già avvenuto o da avvenire.
Mai presente. La presenza si sogna.
La presenza dell’attimo è sognata.
Perché sognarla allora?
Perché si sogna.


Nota per me: anche questo è un appunto antico, non ricordo a proposito di cosa, con coda di oggi 14-11-19. Tutto rivedibile.

13/11/19

Come finiscono le storie (appunti per niente 14)




La storia di tutti finisce con la morte, con la morte finiscono quasi tutte le storie. Alcune invece dalla morte prendono inizio: ciascuna una storia, non necessariamente diversa, che nasce dalla morte e viaggiando a ritroso, facendo soste e giri che sembrano portarla altrove e invece non sono che il modo più diretto concesso dalle circostanze, e forse dal carattere di chi le vive o da forze che nemmeno lui conosceva, si ritrova alla fine all’inizio da cui aveva preso le mosse: ancora la morte, un’altra, e pure la stessa. La stessa, ma un’altra: perché ora ci sono la storia, le vicende e i cambiamenti che l‘hanno preceduta, e, qualcuno dirà, ad essa hanno portato. Sbagliando: perché questo possiamo dirlo solo ora, che questa seconda morte la storia l’ha conclusa, mentre non potevamo dire niente prima, perché prima della prima morte nessuna storia c’era stata. Chi le ha subite entrambe non può confermarlo: prima non sapeva, poi ha saputo, forse, ma comunque non può dirlo, perché la sua storia l’abbiamo raccontata noi: l’ho raccontata io, in questo modo così sommario, privo di dettagli e di pathos, e ve la siete raccontata voi mettendo tutto ciò che le mancava. In questo modo, voi vi assimilate a Dio; mentre io, che non ci credo, o non ne sono degno, degli uni e dell’altro resto senza, e aspetto, chissà, di passare alla prossima, morte permettendo.

11/11/19

Puntualità del tramonto


Assente come chi ha declinato per sempre un appuntamento, la sera non accenna ad arrivare: sembra che la luce si ostini a durare sfilacciata in un crepuscolo eterno, col sole in equilibrio sul filo delle nubi all'orizzonte che si sono riservate ogni possibile turbolenza, sovrano e immobile con la consueta dignità eppure quasi vergognoso per l'incresciosa vicinanza, come ne sia invisibilmente eroso.
Evaporato anche il senso dell'attesa, l'uomo senza occhiali fissa istupidito l'equivocità, più che la stranezza, di quella sospensione, lasciando tuttavia trasparire di esserne in qualche modo pago. E difatti lo è. Filtrato dal polsino della camicia, sente il motivetto di proposito anodino che gli segnala la scadenza del termine massimo preventivato risuonare indefinitamente, chissà da quanto tempo. Un'altra persona, vicino, lo guarda divertita, non si potrebbe dire con tenerezza però, senza far nulla per richiamarne l'attenzione, a sua volta paga di questa immobilità definitiva, dimentica del poco di ansia che l'aveva trascinata fin lì.
Chiamarlo non è questione: comincia appena a pensare se sfiorargli la giacca o solo muoversi con la testa o di un passo, insoddisfatta di ogni alternativa per lo spostamento che comunque comporta, quando lo raggiunge, con uno squarcio violento, qualcosa di silenzioso, venuto da lontano, mentre il sole ormai svuotato di energia crolla clamorosamente di colpo, come dicono che accada ai tropici o all'equatore, e l'uomo senza occhiali blocca la suoneria, dilatando in un urlo la nota interrotta, prima di andarsene nel sollievo della sera recidiva.


08/11/19

Teti - Achilleide (appunti 4)



Achille era il settimo figlio di Peleo. Gli altri 6 erano stati tutti uccisi da Teti, che a quanto pare gli avrebbe riservato la stessa sorte se il padre (Graves, 594-5) non lo avesse salvato togliendo dalle fiamme illeso, a parte una caviglia già bruciata e che verrà poi sostituita con una presa dallo scheletro del Gigante Damiso dal centauro Chirone, quando si accorse della mancanza. Damiso era stato il più veloce di quei bestioni terrificanti, e proprio per questo, una volta inserita la modifica, Achille è diventato velocissimo a sua volta. La federazione di formula 1 non aveva ancora elaborato i suoi cervellotici regolamenti. E in ogni caso il trucco era invisibile. Alcuni dicono che Teti non voleva ammazzare il settimo figlioletto (forse è una regola che il settimo giorno, o la settima volta, ci si riposi) bensì renderlo invulnerabile; ma sembra che si tratti di giustificazioni a posteriori. Una volta salvo, la mamma si è poi adattata ad amarlo.
Un’altra versione, la più nota, racconta che Teti lo abbia immerso nello Stige tenendolo per il tallone incriminato, non riuscendo appunto per questo ad assicurargli l’invulnerabilità e l’immortalità. In un modo o nell’altro, immortale non lo sarebbe diventato lo stesso. Gli dei non lo permettono ai mezzosangue. Ne sfornano a iosa, con le mortali, così come le dee con gli uomini, ma sono gelosi. Gli vogliono bene fino a un certo punto, sono anche capaci di piangerli per tot minuti o secoli (per loro è lo stesso: l’eternità rende tutti gli intervalli di tempo uguali: uguali a zero).
La seconda versione è quella che ha avuto più risonanza comunque. La madre amorevole faceva più botteghino di quella crudele e infanticida. Ora le cose sono un po' cambiate. Al botteghino, almeno. A casa la mamma è sempre la mamma.

06/11/19

Sogno con due angeli seduti a un tavolo e uomo che affoga (fine anni 80)


La punta stretta e scura della barca sembra immobile sull'acqua, mentre silenziosa scivola verso il pontile che si prolunga come aia in terra battuta confinante con l'erba folta. La prima cosa che vedo sul cascinale dai muri marcescenti, quasi a pelo d'acqua ma perfettamente conservato in una nicchia rettangolare, è un affresco che sembra un frammento di tavola primoquattrocentesca a fondo dorato, con due santi riccamente vestiti di velluti e broccati. Uno di essi, una giovane donna, tiene in mano un ramo di palma e sorride serenamente. Solo più tardi, muovendo lo sguardo come una 'panoramica', dopo la base melmosa del pontile e la porta a vetri di legno tarlato dell'osteria, vedo i due angeli seduti all'unico tavolo di pietra dell'aia. Uno porta un fastoso copricapo da pellerossa e l'altro ha la faccia impastata di lucido nero. Per il resto sono tutti bianchi, dalle mani alle vesti ai piedi alle ali. Il primo, immobile e silenzioso come tutto d'attorno, un gomito appoggiato al tavolo e l'altro braccio abbandonato lungo la sedia, guarda verso l'acqua non so se stanco o rilassato; l'altro sembra che vi abbia appena distolto gli occhi e sta per portarsi un bicchiere di rosso alle labbra. Accanto ad essi, pure con un bicchiere in mano ma con l'espressione tranquilla e indifferente del primo angelo, con lo sguardo fisso sul piano del tavolo, un vecchio contadino, un po' lacero e con la barba e i capelli leggermente più lunghi del normale e arruffati. Nell'acqua profonda davanti a loro qualcuno si è appena tuffato e sta annegando in silenzio, senza agitarsi.
C'è un posto, in ogni osteria dell'isola che si affacci sul mare, chiamato 'del morto'. È sempre libero e, eccetto i rari casi in cui arriva un ignaro viandante (ma anche allora non si sa mai), nessuno lo occupa, nemmeno se tutti gli altri lo sono. È riservato appunto a chi vuole morire. Quando uno sente di star per morire infatti, o non vuole più vivere, va lì e si siede. L'oste accorre solo se fa un cenno, gli altri avventori al tavolo non si spostano, ma nessuno gli rivolge la parola se non richiesto, e la vita del bar, le discussioni e le partite a carte, proseguono al solito ritmo, come se niente fosse. Tutti sanno che il nuovo venuto non si alzerà vivo da quel posto, a meno che non lo vinca l'impazienza e non si getti in acqua; ma nessuno, in nessun caso, cerca di convincerlo a desistere o si offre di aiutarlo. Non è necessario che lo siano ad ogni costo, ma in genere a occupare quella sedia sono i vecchi dell'isola. Ad ogni generazione, qualcuno pensa che la consuetudine finirà, eppure c'è sempre qualcuno che ricomincia e si presenta, tanto che raramente ci sono state delle interruzioni vistose. 


Io sto raccogliendo materiali e facendo sopralluoghi per un'inchiesta televisiva sulla pietà e penso scioccamente alla 'divina indifferenza animale', a un'età precristiana e preromana che peraltro ignoro. I due angeli e il vecchio sembra che nemmeno si accorgano della mia venuta, ma io siedo comunque al loro tavolo, forse perché attorno è tutto deserto. Senza parlare chiedo al vecchio quale sia il 'posto' in quell'osteria e lui piega il bicchiere quasi vuoto verso di me. Tranquillo a mia volta, constato e guardo l'erba folta ai margini dell'aia. Sento da lontano il canto di un tenore: adesso è malato e dimagrito, la pelle rossa e screpolata sulle guance consunte, ma la sua voce è ancora molto bella.



22/10/19

Ricordi di copertura 11. Kerouac è morto 50’anni fa



Era il 1966. Vedo alla televisione quest'uomo che scende dall'aereo barcollante e poi con il bicchiere in mano e l'aria persa, da ubriaco, farfugliare frasi incomprensibili in risposta a un intervistatore ossequioso (credo) davanti alle telecamere, all'aeroporto o chissà dove. Ho 15 anni. L'idea che un grande scrittore, come continuavano a ribadire in tv, potesse essere così (e vivo oltretutto), non mi aveva mai nemmeno sfiorato. Non avevo mai parlato di letteratura con nessuno. Tutto quel poco che sapevo veniva dalla scuola e dai libri che stavo leggendo compulsivamente da due-tre anni. Non ricordo se sono rimasto più colpito o perplesso. È ben vero che da un po' sentivo i Rolling stones e Bob Dylan. Però uno scrittore, dai... Allora sono andato a cercare i libri tradotti. Ho trovato solo Sulla strada, e poi nel tempo anche gli altri, letti tutti con entusiasmo. Da lì sono passato a Henri Miller, i cui Tropici erano proibiti. Ma in casa di un amico ho visto che i genitori li avevano e me li sono fatti prestare. Mentre leggevo in classe il Tropico del cancro il prof mi ha beccato. Di solito tolleravano che leggessi, visto che i miei voti erano buoni, ma quello lì (di matematica) ce l'aveva con me perché studiavo poco ma prendevo 8 o 9 nelle verifiche di fine trimestre e pretendevo di aver quel voto sulla pagella mentre lui insisteva per fare la media con i voti deludenti delle prove intermedie (ma io so tutto da 8 alla fine?, chiedevo; e allora perché non mi dà 8, cosa le importa se nel frattempo non studio o leggo altro? Non capiva... Era una questione di cattivo esempio, o giustizia, o altro, non so...: insomma non gli andavo giù; oggi lo capisco, e questo valga a risarcimento postumo, erano in pochissimi a sopportarmi allora, a cominciare da me stesso) e mi portò dal direttore, un prete abbastanza illuminato (ero dai salesiani) che mi chiese, ma tu daresti un libro del genere da leggere a tuo figlio di 16 anni? Certo!, dissi io, lo consiglio anche a lei. Poco mancò che mi sospendesse. Me la cavai con una comunicazione a casa e sequestro del libro. Allora sono andato dal preside del liceo, il mio prof di filosofia, per farmelo riavere. Lui garantì per me, mi riportò il libro e mi chiese di prestarglielo una volta terminato di leggerlo. Intanto uscivano altri Kerouac. In particolare I sotterranei. La storia con Kerouac e Miller durò un paio d'anni. Nel frattempo cominciavano a arrivare Gombrowicz, Borges, Joyce e Kafka e compagnia bella, così alla rinfusa prima e sistematicamente poi, e quei due passarono in seconda fila e poi in terza e infine in una fila lontana, di quelle che si confondono con il buio. Li ho ripresi qualche anno dopo, nel periodo in cui la mia intransigenza si era fatta più acuta (intransigenza verso cosa e chi, stupido presuntuoso provinciale?) e non riuscii a finire nessuno dei libri iniziati. Capitolo chiuso. Per sempre, credevo (credo). Il mio amico Plinio, ora barone di medicina a Pavia, che è rimasto un kerouachiano a vita, ogni tanto mi spronava a riprenderli in mano. Non so. Un giorno o l'altro magari. Magari sono pronto a seppellire il cretinetto presuntuoso. O magari stavolta a frenarmi sarà il tempo che stringe. Non so. Dovrei pensare a queste e altre cose... Davvero non so.


Ps. Il libro in tasca
La giacca stazzonata della foto con un libro in tasca, mi ricorda quella di velluto di Ferlinghetti a Taormina (sempre in tv) di tanti anni fa, in occasione di un premio dove tutti erano in abito da sera e lui in jeans consunti, molto prima della ridicola moda dei jeans strappati, e stivaletti (e forse anche cappello? non ricordo), barba e capelli grigi lunghi un po’ unti, che toglie un libro dalla tasca e comincia a leggere e tutti si mostrano, sapendo di essere ripresi, attenti e ossequiosi, e nessuno pensa di essere in una bolla di contraddizione e semmai qualcuno pensa ai clown e sorride e dentro di sé (che sarebbe più coerente) disprezza. Oppure pensano di essere, in fondo, suoi fratelli, o almeno cugini (lui il cugino strano, che nelle famiglie non manca mai, il preferito dai bambini), in quanto tutti artisti. Tutti, dal primo all'ultimo.
Mi ricorda anche le tante mie di tutti questi anni, si parva licet, e la scorta di tascabili in macchina e un po' ovunque per ogni evenienza. Non si sa mai. E le tante tasche deformate o scucite, e quelle macchiate da stilo, biro e roller di ogni colore. Evviva!

21 ottobre 2019

14/10/19

La borsa sulla direttrice



Tiene la grande borsa dal fondo rigido a tracolla verso l’esterno, con nonchalance, o imprudenza, anziché verso l’interno, sul fianco e sul ventre, difensivamente, come l’amica con cui sta parlando, e quando sta relativamente ferma, a parte i sussulti della carrozza, non fa altro che coprire con l’angolo basso una parte della pagina di sinistra del libro che sto leggendo (Satin Island, di Tom McCarthy: interessantissimo e molto bello, pure), frapponendosi alla direttrice del mio sguardo verso le righe stampate in alto, spezzate in diagonale così che devo spostare il volume quando volto la pagina; quando invece il discorso o la scomodità della postura la portano a fare piccoli movimenti, lo spigolo della borsa, senza che lei se ne accorga o mostri di darvi peso tanto da spostarsi abbastanza da evitare il contatto (il piccolo urto: così da evitare di urtare), picchietta contro la mia spalla, come per richiamare la mia attenzione distogliendola da quello che sto facendo verso qualcosa di più importante, di delicatamente decisivo, o come fanno quelle persone fastidiose che mentre ti parlano ti colpiscono con un dito il petto o, appunto, la spalla per accertarsi che le stai seguendo perché la tua attenzione sembra che vaghi altrove o che tu non dia il dovuto peso ai loro argomenti, o per provocarti, ma qui in modo leggero, quasi impercettibile, data l’involontarietà, o viceversa ancora più offensivo per lo stesso motivo, in quanto inavvertito da chi lo produce, perché è come se ti dicesse quanto poco conti, come un certificato della tua insignificanza emesso da automaticamente un’entità burocratica superiore anonima, la prova, mentre ti ricordava della sua esistenza, dell’inconsistenza del tuo stesso corpo, che non fa più ostacolo a niente, il sigillo della tua assenza, non futura ma attuale, eterna, già da sempre e per sempre. Aveva ragione Marx: tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria.

08/10/19

Corrotta alla sorgente (appunti per niente, 12)



“Quella di Griaule, – scrive Emanuele Trevi in Il viaggio iniziatico (p. 23, Laterza, 2013,) – è la figura di un “uomo moderno, di un “bianco”, ancora in grado di accostarsi a una sorgente incorrotta, a uno strato ancestrale di conoscenza del mondo”.


Cosa vuol dire “sorgente incorrotta”? (Mi rifiuto di pensare che sia una formula usata così, evocativamente, per comodo: non da uno scrittore bravo e colto come Trevi. E aggiungo che qui non è tanto lui a interessarmi quanto l’uso che di queste espressioni ancora si fa.) Quanta strada ha dovuto fare per essere attinta da Griaule? Quante trasformazioni ha subito prima di arrivare a lui? O così è nata e così è sempre rimasta, fuori dal tempo, dallo spazio, dai cambiamenti che anche la cultura dogon ha vissuto, dai misfatti che ha dovuto subire, e magari perpetrato, e non solo da parte degli europei, ma prima e più ancora dai vicini? Basta che non ci sia stato un previo contatto con i “bianchi” perché ci sia la garanzia di non aver subito influssi e modificazioni? Chi ci dice che la “corruzione” non fosse, o non sia sempre, già alla “sorgente”, ammesso che si possa determinare quale è? Ma scoprirla, determinarla, già non la intaccherebbe in qualche modo e misura?
E ancora: quanto indietro deve spingersi uno “strato” di “conoscenza del mondo” per essere “ancestrale”? e il fatto di essere questa conoscenza ancestrale, radicata qua e là nel passato, storico e soprattutto mitico, cosa ci dice o garantisce di peculiare e significativo? Non sarebbe comunque qualcosa più su noi stessi che sul suo presunto, indeterminato e indeterminabile tempo, tempo fuori dal tempo o prima del tempo? E sarebbe importante perché ancestrale e incontaminato o per tutt’altro? Perché ci parla? Perché ci parla da un altrove che, dal momento che ci mettiamo in ascolto, per quanto alla fonte vogliamo e sia giusto cercare di risalire, è ora e qui?

“Un uomo si avvia verso il sapere come se andasse in guerra”, dice Castaneda in Gli insegnamenti di don Juan, Rizzoli, citato proprio da Trevi (p. 31).
In guerra uno muove sempre se ha già fatto dei passi. In genere parecchi.

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Ps. Tra l’altro sembra che Griaule abbia travisato varie cose, o che non gliele abbiano raccontate tutte giuste ecc… Il che non toglie che il libro a mio parere sia bellissimo.