14/01/22

Piccole correzioni


Pensavo poco fa, mentre inserivo in un articolo le piccole correzioni che un autore mi aveva pregato di apportare, a questa cura che alcuni hanno anche dei loro testi più occasionali, piccoli dettagli che non cambiano niente, un trattino, un corsivo, un sinonimo, un aggettivo più appropriato o da togliere, e a cui nessuno farebbe caso, perché insomma un’analisi stilistica di un commento o di una recensione difficilmente sarà fatta nelle università del futuro, mentre altri mandano pezzi non corretti, con errori grammaticali o sintattici, senza contare i refusi perché o non hanno riletto o l’hanno fatto in tutta fretta (le allitterazioni sono volute), e mi sono commosso, un po’, e mi sono detto: be’, oggi una consolazione l’ho avuta.

11/01/22

Commemorazione di Aldo Zargani


In questi giorni di infinito sconforto, in cui il mondo appare coperto da un coltre grigia di polvere e cenere e ogni cosa perde valore, ogni gesto si fa pesante, ogni parola inutile, e si affievolisce la forza anche solo di abbozzare qualsiasi azione, che appare inutile e insensata, vorrei ricordare, di Aldo, la vitalità, la passione e la gioia presenti in ogni suoi gesto, anche nei momenti più duri, nei ricordi più tristi, anche quando l’esperienza e il mondo lo hanno condotto a quel suo peculiare scetticismo, saggio e ironico, e spesso persino comico, qualità che sono state evidenziate in modo acuto e commovente da coloro che mi hanno preceduto.

Quanto a me, vorrei solo accennare, qui, alla cosa che più mi ha colpito, di Aldo, fin da subito: la sua vitalità e la peculiarità della sua meraviglia, che sono forse la stessa cosa. Vorrei ricordare l’importanza che assegnava spontaneamente agli altri. Sono qualità che apparivano subito evidenti a chiunque lo conosceva o lo abbia incontrato anche solo in un’occasione, e che innervavano tutti i suoi scritti, anche i più tardi, quelli scritti negli ultimi anni per varie testate e soprattutto per noi di doppiozero, che qui in parte pubblichiamo come piccolo omaggio per i nostri lettori e tutti gli amici sconosciuti.

È impossibile prescindere dal fatto che Aldo era ebreo; eppure vorrei provarci e considerare Aldo “solo” come uomo, che è qualcosa di più di un ebreo, e insieme, lo sappiamo tutti, qualcosa di meno. Qualcosa che a me, solo uomo, non ebreo, per esempio, manca e che perciò cerco sempre in quanto l’ebraismo (il libro e la sua molteplice tradizione, la storia, le tragedie, la cultura, la letteratura...) mi offre per essere meno incompleto.

E se provo a pensare a questa cosa impossibile, a Aldo “solo” come uomo, penso a un giovane che a 87 anni era ancora lì, e anzi più lì che mai, a interrogarsi sul mondo, la realtà, i loro fondamenti e misteri, con le conoscenze che aveva acquisito nel tempo e non si stancava di accrescere, di rivedere e risistemare, con la saggezza scettica e bonaria che lo contraddistingueva da adulto e insieme con l’intatto stupore, con l’infinita apertura alla meraviglia del bambino che non aveva mai cessato di essere. L’ultimo testo che ho ricevuto da lui, ancora inedito, lo conferma fin dal titolo La conoscenza imperfetta, ovvero il dente del pre-giudizio, e ancora più esplicitamente dall’inizio: con la mamma che, entusiasta, con un’arancia e una candela spiega il sistema solare al piccolo Aldo seienne. Nel 1939. Alla vigilia della guerra, e a leggi razziali già imperversanti. E subito dopo, a guerra iniziata con le raccomandazioni di come comportarsi sotto i bombardamenti, da parte del papà. Due momenti della sua prima infanzia serena che fortunatamente ha poi lasciato una traccia permanente nella sua personalità e la tonalità di fondo di gran parte di ciò che ha scritto, a partire da quel capolavoro che è il romanzo Per violino solo o da quell’altro capolavoro che è il racconto “Profumo di lago”, pubblicato prima come ebook da doppiozero e poi inserito in In bilico.

E direi che una delle caratteristiche di Aldo era proprio la compresenza, l’inscindibilità di questi due aspetti, meraviglia e distacco, entusiasmo e saggezza scettica. Lo è di molti artisti, si dirà. Vero, ma ciascuno ha il suo modo e quello di Aldo era riconoscibilissimo.

Non si tratta nel suo caso di una meraviglia incantata, pacifica, espressione di una pura innocenza che forse non è mai data a nessuno, ma di uno stato dell’essere sempre in tensione con l’altro da sé, a volte con il suo opposto (incanto e delusione, bellezza e stortura, dolorosa sorpresa, come quella del bambino che, per le famigerate leggi razziali del 1938, si trova da un giorno all’altro discriminato mentre nulla all’apparenza è mutato tutt’attorno) senza però lasciarsene mai sovrastare, e men che meno cancellare: oscurato sì, a momenti, ma mai in via definitiva, come la luce durante le eclissi.

Penso per esempio al bellissimo racconto “Dies irae”, quando alla visione dei documentari della Combat film sui lager e sulle impiccagioni dei criminali nazisti, il ragazzino viene preso da immensa “ira e stupore”: “E ciò avvenne per l’unica volta nella mia vita, perché l’ira e lo stupore mi hanno saziato per sempre nella lontana estate di quando avevo 12 anni”, aggiungeva Aldo; ma il lettore non ci crede, perché, se non l’ira, almeno la capacità di stupore che si riscontra in molte sue pagine non era ascrivibile solo al bambino di allora, ma veniva dritta dritta dall’adulto che scriveva: non era il ricordo del passato, erano il presente del ricordare, e la sua qualità, la sua grana, che cambia di chimica e intensità da individuo a individuo. Ricordare non basta.

E tutto questo, mi sembra, era la conseguenza del fatto che per Aldo, che aveva fatto del testimoniare, o, come diceva lui, dell’“attestare” uno dei pilastri della sua vita, tener viva la memoria era sempre, o quasi, anche parlare dell’infanzia: non tanto non recidere il legame, quanto tener viva l’emozione di quel momento della vita, l’indissolubile intreccio della gioia della scoperta del mondo e dell’affetto ricevuto, con l’altra scoperta, che pure induce stupore, quella della morte e più ancora quella del male, inspiegabile e indicibile, ma sui cui bisogna sempre tornare per provare a spiegarlo e a dirlo, senza chiudersi al presente e al futuro (la profezia del futuro), pur andando incontro a sconfitte e delusioni, ma mai tali da comportare rinuncia e chiusura a sé e agli altri. Basta un colpo d’ala dell’immaginazione, la deviazione dalla norma che la mette in gioco e fa sorridere, l’infinita vitalità che è accettazione della vita e voglia di cambiarla, che Aldo possedeva in quantità inesauribile.

Le sue parole, come tutto quanto ha scritto, erano permeate da una grande saggezza, come da un radicale scetticismo e anche dall’ironia che dalla saggezza derivano, che però non impedivano la gioia, e il suo riso divertito, né, con paradosso solo apparente, una lucida speranza che non nasceva solo dalla volontà ma anche da una vocazione inscalfibile alla felicità. Era come se la maturità non fosse stata conquistata da Aldo liberandosi dall’infanzia ma restandovi radicato e conservandola in sé come la propria onnipresente, inesauribile e sempre attuale, risorsa: come qualcosa che non è mai acquisito una volta per tutte, quindi, ma è sempre da conquistare e rinnovare.

Ho conosciuto Aldo prima nelle sue opere e poi come persona. E se spesso l’incontro con la persona di un autore che ami è deludente, non così è stato con lui. Qui l’ho ricordato anche a partire dalle opere, perché se un uomo resta a lungo nella memoria di chi ha l’ha conosciuto e gli ha vissuto accanto, come la moglie Elena, che non riesco a pensare separata da lui – come un’unica entità platonica una volta tanto felicemente ricostituita –, per uno scrittore sono le sue opere a incidere e rinnovare la memoria ogni volta che qualcuno legge o rilegge ciò che ha scritto. Chi ha avuto la fortuna di conoscerlo come l’uno e l’altro, ha avuto quella supplementare di constatare quanto coincidessero e si rafforzassero a vicenda. La presenza dell’una rende meno intollerabile l’assenza dell’altra. Ma questa, inutile negarlo, resta, e noi la conserviamo come un tesoro. Addio Aldo. 

 

05/01/22

Sassetta (Stefano di Giovanni), Il viaggio dei Magi (1433-35)



 C’è questa carovana che scende un pendio guidata da un cavallo sulla cui groppa è sdraiata una scimmietta. Si allontana da una città che sta sullo sfondo, in cima a un poggio come molti borghi toscani, circondata da mura rosate, o rosse, simili a quelle di Siena, e di Gerusalemme. Al centro della carovana tre uomini a cavallo con un’aureola attorno alla testa, uno vecchio con la barba, uno giovane e biondo e un altro presumibilmente adulto (così completano lo schema delle tre età). Prima e dopo di loro, alcuni uomini a piedi, quasi certamente servitori, e a cavallo, appartenenti al seguito e scorta armata. Il paesaggio è trattato a colori uniformi, con sfumature per suggerire gli strati delle rocce e l’ondulazione del terreno, al quale radi alberi spogli conferiscono un ritmo discreto a cui contribuiscono anche alcuni uccelli sul cocuzzolo di un colle e un altro paio in basso presso le rocce bianche sulle quali risalta una specie di fiore dorato, con una lunga coda verticale che punta verso il basso. Una stella messa lì come una coccarda di luce. Una cometa, quasi certamente. Quindi i tre signori a cavallo sono i Re Magi, e la carovana è il loro corteo. Ma che ci fa la stella cometa lì sotto?


 La scena, nota appunto come Il viaggio dei Magi, è dipinta su una minuscola tavoletta di 21.6x29,8 cm, praticamente un foglio A4, conservata al Metropolita di New York. L’autore è Stefano di Giovanni di Consolo, noto come il Sassetta, un pittore senese nato all’inizio del quattrocento e morto nel 1450, forse il maggiore del periodo nella città toscana, che mi riprometto da tempo di studiare a fondo, senza decidermi mai a farlo. È un pittore tardo gotico, aggiornato sulle novità che in quel periodo si stavano affermando a Firenze, ma non sempre interessato ad applicarle, anche se quando le usava lo faceva molto bene; affacciato, ma non immerso, sui tempi che precipitano verso l’umanesimo e la prospettiva, nella Siena orgogliosa della sua indipendenza e della sua straordinaria tradizione pittorica inaugurata grandiosamente da Duccio e sfolgorata poi in Simone Martini e nei due Lorenzetti, o piuttosto che vi scendono lungo un declivio dolce come quello percorso dal corteo, e che sembra quindi starsene indietro, un po’ in ritardo sui tempi allineati dalle storie dell’arte, ricevendo in dote forse anche da questo scarto l’incanto che le sue opere emanano, questa in particolare per quanto mi riguarda. Io ne tengo la riproduzione tra i segnalibri e così la guardo periodicamente, lasciando che l’incanto mi avvolga, circonfuso dall’ignoranza che non mi affanno a colmare, e mi conduca a fantasie, o a piccole storie ogni volta un po’ diverse, non importa quanto arbitrarie. Per me però tutte necessarie, perché non sapendo da dove vengano, mi metto al loro seguito, come in una carovana che ha una meta, una sua stella guida, che porta dove non si sa, esattamente come quella del dipinto.

 

La stella cometa invece sta lì perché nella piccola pala da cui la tavoletta è stata ritagliata figurava in alto, sopra il monte roccioso che qui vediamo in basso, a perpendicolo sulla testolina del bambin Gesù a cui i Magi stanno rendendo omaggio nel frammento inferiore sopravvissuto al suo disgraziatissimo smembramento, una magnifica Adorazione dei Re Magi, di proprietà del Monte dei Paschi di Siena, come si può notare sovrapponendoli. Ma a chi guarda la tavoletta senza sapere nient’altro, come è capitato a me e come continua a capitarmi anche ora che qualcosa so, appare come un che di strano e sorprendente, che trae dalla mutilazione dell’insieme un supplemento di incanto, come la Venere di Milo dall’assenza di braccia. Come il fatto che il corteo sia guidato, nello spazio dipinto rimasto, da un asino con in groppa, sopra la soma, una scimmietta. O vedere Batman in coda al corteo, intento a chiacchierare con un altro cavaliere vestito di rosso. Tutto allude a tutto, ogni cosa ne simboleggia mille altre, ogni immagine innesca ricordi che, anche loro, portano in mille direzioni, senza lasciarsi frenare da pertinenza e verosimiglianza.

 


La pala era quasi certamente destinata all’uso privato in qualche cappella o a un altare domestico, ed era di una decina di centimetri più larga e alta grossomodo il triplo di questo frammento, come si può desumere dall’altro a cui è stata collegata dagli storici (l’Adorazione è di 31 x 36,4 cm), sommati al segmento mancante che li connetteva e che doveva contenere la tettoia in tegole di cui si nota una piccola striscia in alla base della nostra tavoletta e una trave di sostegno che spunta in alto a destra dell’altra, sopra la testa di san Giuseppe, e univa in una stessa immagine le due scene del viaggio e dell’adorazione, come frequente in quel periodo, per esempio in una tavola di Bartolo di Fredi, del 1380 ca., molto nota a Siena e certamente anche al Sassetta.

I Magi delle due tavolette sono quindi gli stessi, anche se a prima vista sembrano diversi, per quanto poi la forma dell’abbigliamento aiuti a identificarli. Nel Viaggio, visti da lontano, alquanto minuti e con i dettagli delle stoffe poco riconoscibili, non fosse per l’aureola a cui si fa caso solo in un secondo momento, sembrano semplici mercanti all’interno di una lunga carovana di quelle che attraversavano contrade e deserti per i loro commerci, provenienti da posti più o meno favolosi con merci più spesso comuni che rare e preziose. Non fanno minimamente pensare ai personaggi abbigliati in modo sfarzoso che stanno a capo degli affollatissimi cortei che a volte intasano la rappresentazione della scena nella pittura del ‘3 e ‘400,  come appaiono per esempio nel capolavoro di Gentile da Fabriano ora agli Uffizi, del 1423 (che il Sassetta doveva senz’altro conoscere, come dimostrano alcuni dettagli e in particolare le due donne sulla destra dell’Adorazione, assenti dal corteo), che servivano a dare un’idea, magnifica e insieme pallida, dello splendore della loro regalità e ancor più dell’importanza del Re a cui si recavano a rendere omaggio con i loro ricchi, esotici, e naturalmente simbolici, doni; per tacere dei tre cortei più famosi in assoluto, che si snodano sulle pareti della Cappella dei Magi del palazzo dei Medici, ora Medici Riccardi, dipinte da Benozzo Gozzoli nel 1459 a gloria imperitura della dinastia signorile fiorentina. Poche sono le rappresentazioni frugali, o almeno non debordanti di lusso... D’altra parte al cospetto del Re dei Re non si può arrivare in abiti da viaggio impolverati, recando doni sparagnini.

 


Nella nostra tavoletta il corteo è tutto meno che formale, la gente se ne va con andatura lenta, svagata quasi, il passo leggero, come la testa. Quasi tutti sono impegnati a conversare. I tre seguiti dei magi (tutto il corteo è scandito da gruppi di tre, rappresentati in modo vario e vivace, per nulla meccanico: tre addetti alle vettovaglie, tre persone della scorta, uno con un falcone da caccia al braccio, tre servitori o paggi a piedi...) hanno fatto amicizia e si scambiano opinioni sul viaggio, sul servizio di tutto comodo, sui rispettivi signori, brava gente che, una volta tanto, ha altro per la testa che vessare i subordinati, basta adempiere alle mansioni, peraltro poche, e per il resto li lasciano in pace. A casa li invidiano, tanto più che, grazie a questa idea di una nascita straordinaria che i signori sono messi in testa, ora stanno girando il mondo. I sovrani si sono portati appresso anche gli animali preferiti, i cani, un falcone, oltre alla scimmietta... niente a che vedere comunque con i fasti di certi imperatori del passato, come Federico II, che si spostavano con tutto il loro zoo privato, tanto amavano gli animali più strani, e per stupire i sudditi, per offrire anche a loro una piccola dose di meraviglia, da nutrire di ricordi i tempi a venire.

Attorno a loro il paesaggio è più elementare rispetto a quello naturalistico delle predelle del polittico della Madonna della Neve, con le loro colline ben disegnate, dalla vegetazione varia e con quel cielo solcato da nubi striate, apparse per la prima volta nella storia della pittura, pare, proprio ad opera del Sassetta nelle predelle della sua prima opera attestata, la Pala dell’Arte della Lana, commissionata nel1423. Tutto è immerso in un’atmosfera diafana, i colori sono vivaci, i gesti vividi, disinvolti ma non scomposti, per nulla ieratici o di esagerata dignità, come spesso in altri dipinti.

 


I viaggiatori non sanno dove vanno, ma vanno. Sanno che devono andare. C’è questa luce, una stella, che indica la direzione, e loro la seguono fiduciosi. Provenienti da diverse geografie conversano amabilmente, informandosi dei reciproci paesi e percorsi, dell’identica ragione che li ha portati lì, di ciò che li aspetta, che deve essere di importanza capitale se li ha indotti a muoversi ciascuno per conto suo, contemporaneamente, da luoghi così lontani. Qualcosa o qualcuno troveranno, i segni sono chiari. Un grande Re, di sicuro. Sanno interpretare il cielo, loro. Perché il cielo di segni ne manda, basta saperli leggere. Il cielo ha parlato e loro hanno prestato ascolto. E ora vanno senza fretta, sicuri di arrivare puntuali all’appuntamento decretato dagli astri.

Io faccio parte del seguito, sono uno di quelli a piedi, un servitore, o uno che si è aggregato a una delle carovane lungo il percorso, mosso da curiosità, o inquietudine, o da qualche presagio, offrendo le conoscenze della propria regione e rendendosi utile per quello che poteva. Non so perché mi trovo ancora lì, così lontano da casa, da famiglia e amici, ma seguo fiducioso. Non ho grandi pretese. Essere vivo e in forze è già tanto. Intanto chiacchiero con gli altri servitori, anche quelli dei signori appena incontrati, gesticolando per farci capire. Ci facciamo tutti le stesse domande senza risposte, sgraniamo gli occhi, accorriamo se chiamati, poi torniamo placidamente nei ranghi. Ogni tanto taccio, rallento il passo per guardarmi attorno, quelle città sulle cime dei colli, gli alberi che li punteggiano, gli uccelli che ci svolazzano attorno e la fila delle gru in alto sopra le nostre teste, i modi degli uomini e le fogge degli abiti, quella luce che non ho visto da nessun’altra parte, i meravigliosi colori del mondo.