17/03/23

Diego, l’altro Giacometti alla Fondazione Rovati di Milano


Non dev’essere molto semplice essere “il fratello di”, anche se siete cresciuti insieme data la differenza di un solo anno – ottobre 1901 e novembre 1902 – e vi volete molto bene, specie quando il fratello è un artista famoso che già da ragazzo mostrava grandi doti creative in una famiglia in cui il padre era un pittore piuttosto noto, amico di artisti che frequentano la tua casa e l’atelier a cui anche voi bambini avete sempre avuto libero accesso, e tu non hai propensioni spiccate per niente e non sai che strada prendere e cosa fare. Il mito e la fiaba, i romanzi e la cronaca sono pieni di fratelli che covano rancori feroci e finiscono per odiarsi, se non peggio. E invece no. Con Alberto Giacometti, Diego va molto d’accordo. Così è sempre apparso in tutta evidenza, senza infingimenti o frizioni, in una sorta di reciprocità e di affetti esenti da scalfitture. Alberto da una parte è protettivo ma dall’altra mostra di aver bisogno di Diego, di essere come dimidiato senza di lui. E Diego si rende indispensabile, sempre di più. Come dei gemelli, si direbbe. Dei simbionti, come dicono gli studiosi, e come mostrano tutti i documenti e le lettere, presenti in una ventina di esemplari nel catalogo della mostra, che non a caso si intitola Diego l’altro Giacometti, a cura di Casimiro Di Crescenzo, che cura anche la mostra. Alberto crea, preso nei suoi rovelli a caccia di una perfezione che sembra sfuggirgli sempre più crudelmente con l’ombra del fallimento che gli appare incombente nonostante i successi e l’ammirazione che gli viene tributata, e Diego gli fa da assistente, segue le fasi della lavorazione delle sue opere, tiene rapporti e fa ordine nelle attività, sbozza le sculture, le duplica in certi casi… E quando fa qualcosa di proprio si impegna in generi minori, secondo i criteri dell’epoca, dove però sembra accomodarsi con agio e soddisfazione, e produce oggetti di design, si direbbe oggi, lampadari, mobili e piccole sculture; e se si firma è solo Diego, non Diego Giacometti, o non si firma affatto. Solo in pochi conoscono quello che fa; quasi solo amici, gente del giro, anche se poi questi amici e questa gente ne hanno altri, e le creazioni di Diego cominciano a essere apprezzate e richieste. Ma lui insiste a non firmarsi, come se si volesse cancellare. Il fratello gli fa i complimenti per le piccole cose che realizza, ma chissà se non sono complimenti dettati solo dall’affetto e magari anche con un po’ di degnazione. Non dovrebbero, perché il fratello è noto per il suo rigore, per l’intransigenza delle scelte e per le pretese che impone non solo ai suoi modelli (come Diego, sempre lì a disposizione, pazientissimo o come il filosofo giapponese Isaku Yanaihara che ha raccontato le estenuanti sedute di posa, e l’amicizia per l’artista, nel bellissimo I miei giorni con Giacometti, Giometti&Antonello, Macerata, 2021) ma in primo luogo a se stesso. Non dovrebbero. Però…


Diego arriva alla sua opera con passi lenti, e in modo indiretto. Prova a disegnare in gioventù ma abbandona presto, ed è solo quando viene chiamato a Parigi da Alberto, travolto dal lavoro e dalle commesse che gli vengono nel 1929 dall’improvviso grande successo, che pian piano, acquisendo sicurezza con l’esperienza e grazie ai consigli del fratello, e successivamente anche al perfezionamento con lo studio accademico, che arriverà a creare piccoli oggetti e sculture personali. Intanto prepara i gessi e i materiali per Alberto, ritocca gli abbozzi, realizza i calchi per le sculture, esegue le patinature con grande maestria.

Non è un semplice lavoro da subordinato riscattato dall’affetto, bensì una vera collaborazione che Alberto è il primo a riconoscere; ma è anche, si può immaginare, un apprendistato, un processo di formazione e di conseguimento di un modo e di un mondo personale che probabilmente l’assenza di pressione individuale, di quei rovelli infiniti che opprimono il fratello, agevola e favorisce, portandolo ad abitare, quasi senza accorgersi, uno spazio fantastico personale che attinge all’infanzia, ma si rifà anche a modelli antichi, egizi, greci e romani. Ed etruschi, in particolare: cosa che rende particolarmente affascinante l’esposizione delle sue opere all’interno della Fondazione Rovati con la sua magnifica collezione di opere etrusche, con le quali si armonizzano con naturalezza, quasi fossero una loro reviviscenza, moderna ma con un evidente patrimonio genetico comune, un’aura condivisa.


La mostra si apre la scultura di una testa di leone, la sua prima opera originale realizzata nel 1931, a cui seguono poche altre piccole opere distanziate nel tempo. Ma ben presto l’abilità manuale di Diego viene notata da molti amici e collezionisti di Alberto, che cominciano a chiedergli aiuti per la realizzazione delle proprie opere, come Georges Braque, e oggetti di sua mano, tanto che prende un atelier tutto per lui di fronte a quello del fratello, così che la loro vicinanza venga conservata, se non addirittura rafforzata, dagli spazi autonomi dove ciascuno può dedicarsi al proprio lavoro, fermo restando che per lungo tempo quello principale di Diego sarà di supporto alle realizzazioni del fratello. Tra le quali, negli anni ’30, decisiva anche per il suo percorso è la collaborazione con l’architetto di interni parigino Jean-Michel Frank, per il quale i due Giacometti realizzano numerose opere di arredamento (oggetti, lampadari, ecc.) che saranno successivamente l’attività principale di Diego, anche se per lungo tempo le opere verranno attribuite solo ad Alberto. Diego si cura della loro esecuzione materiale, a volte apportando qualche modifica e forse anche cominciando a creare qualcosa di suo, senza firmare nulla. Come i due grandi lampadari per il salone della casa di moda Lucien Lelong, primo tra i molti committenti e estimatori di quel mondo e delle élite che lo frequentano, che saranno sempre tra gli estimatori più costanti dei lavori di Diego, anche dopo la scomparsa del fratello nei primi giorni del 1966: da Guerlain a Elsa Schiaparelli e alla viscontessa di Noailles, prima, alle grandi commesse per la fondazione Maeght di Saint-Paul-de-Vence e il Museo Picasso di Parigi poi.


Saranno dapprima elementi di mobili, basi e angoli per sedie, supporti del cristallo di tavoli, applique, angoliere, che già sono sculture non dissimili da quelle che realizza come opere autonome nel contempo, e sempre più con il passare degli anni. Opere che gli attirano l’attenzione di galleristi, che lo inseriscono in prestigiose esposizioni e gli organizzano anche delle mostre personali, e collezionisti che richiedono le sue opere.

Mani reggitenda, applique, specchi, gli straordinari, inquietanti, Oiseaux presenti in mostra, e poi sedie, i bellissimi tavolini, piccoli animali, forme vegetali, composizioni fantastiche come lo specchio in mostra, del 1942, che lo faranno apprezzare come uno dei maggiori designer del ‘900, con una fortuna tuttora crescente, tanto che le sue quotazioni alle aste hanno raggiunto valori dell’ordine di milioni di euro. Se Diego fosse a conoscenza di queste quotazioni, sarebbe il primo a stupirsi. Ma certo sarebbe anche, giustamente, orgoglioso. Non più solo, o soprattutto, l’amato fratello dell’immenso Alberto, ma Diego, grande artigiano e artista in proprio, con il suo mondo e il suo valore ormai da tutti riconosciuto e amato. Però forse lo stupore e il legittimo orgoglio non lo segnerebbero più di tanto. Come il fratello, anche se in modo meno ossessivo, e come per tutti gli artisti, quello che contava era il suo lavoro, le cose che realizzava, il mondo sempre più vasto e personale, favoloso e leggero, affettuoso, intimo ma con grandi slanci di fantasia, che andava creando e che abitava come il suo vero mondo, quello veramente e integralmente suo.

 

Qui il podcast realizzato in collaborazione tra Fondazione Rivari e Doppiozero, con il testo ridotto adatta alle esigenze del posdcast

https://www.doppiozero.com/diego-giacometti-alla-fondazione-rovati

 

 

 

03/03/23

Le ragazze del bagnino


 

Mentre mi faccio massaggiare piedi e polpacci dalle poche onde che, sfinite, riescono a raggiungere il bagnasciuga, mi lascio incantare dal teatrino delle svampite che si conquistano il periodico privilegio di installarsi coi propri lettini accanto alla postazione del bagnino, assurgendo in tal modo, ai propri occhi e solo a quelli, a protagoniste indiscusse della vita della spiaggia. Hanno, nel cerchio magico del privilegio, movenze fluide, di superiore naturalezza, e al contempo affettate, in perenne posa; combinano sprezzatura e autocontrollo, come se tutti, in ogni istante, non facessero che osservare solo loro (come faccio io, del resto), attente a ogni movimento, a ogni gesto o postura, che esse assumono con nonchalance, convinte di essere i modelli di tutti i poveracci e le poverine che ne sono esclusi. Quando, a tratti, si dimenticano, sono fulgide. La loro momentanea fragilità emette luce. 

In genere sono ragazze modeste, con qualche tratto carino o specioso (una figura snella in un serraglio di ippopotami, un bel culo o due tette sode nel generale debordamento di carni e vene varicose, un viso regolare o solo la pura e semplice giovinezza nel trionfo del disfacimento tipico della tarda stagione balneare), comunque bellezze di seconda o di terza categoria, quasi certamente di ceto modesto e di pretese nulle. Vivono una loro quindicinale apoteosi, uno dei rari climax che saranno loro concessi da una vita che si sta già apprestando a respingerle tra le file sempre più interne degli ombrelloni, dove sto anch’io, dove si confonderanno con le altre smagliature, culottes de cheval, doppi menti, triple balze e mocciosi ipercinetici e frignanti che assomiglieranno indefettibilmente ai loro mariti o ai coniugi dei loro figli. Ma allora avranno dimenticato tutto. Forse.