27/04/21

Intervista a Giovanni Giudici (31-5-83)

 


Giovanni Giudici è nato vicino a La Spezia nel1924 e vive da tempo a Milano. La vita in versi (1965), Autobiologia (1969), Obeatrice (1972), Il male dei creditori (1977), Il ristorante dei morti (1981) sono le sue principali raccolte poetiche, tutte edite da Mondadori che ha pubblicato anche negli Oscar, Poesie scelte (1957-1974). Critico letterario di L’Espresso e L’Unità, ha raccolto parte dei suoi interventi in La letteratura verso Hiroshima (Editori Riuniti, 1976). Della sua notevole attività di traduttore conviene ricordare almeno l’Evgeij Onegin di Puskin negli Oscar e Addio, proibito piangere e altri versi tradotti (Einaudi1982).

 

Dice Giovanni Giudici, in assoluto uno dei più importanti poeti del dopoguerra, che alcuni hanno potuto scambiare ciò che scrive “per una poesia molto semplice e dimessa, mentre in realtà la semplicità è solo una maschera”. Una scelta, cioè, e il risultato di un lavoro complesso.

 

E’ un’osservazione che in un certo senso vale anche per la sua persona, composta e misurata e “di solido buon senso”. A prima vista. Perché il suo atteggiamento anti-intellettualistico, l’attenzione verso la concretezza e la dominante razionale del suo discorso si aprono non di rado ad un uso non spettacolare, ma appunto per questo più significativo, del paradosso e ad una diffusa frequenza ironica che, lungi dall’essere la solita forma di difesa, si rivela come un diverso aspetto della razionalità e l’effetto della consapevolezza che certe cose, le più importanti in poesia, mal combaciano con una forma esclusivamente argomentativa. Niente impedisce che ne abbiamo una, certo: solo che è sempre opportuno ricordare che c’è una sfasatura. Così come niente impedisce che ironia e argomentazione entrino nella poesia.

Chiedo allora a Giudici che ruolo hanno nella sua.

“C’è nella parola stessa un’ironia oggettiva. Come la parola ha in poesia una sua virtù autoliberatoria, tanto importante in un’epoca in cui tutti i significati paiono cancellarsi anche per ragioni tecnologiche,così ne ha anche una autoironica, poiché è in sé fortemente ambigua e sfiora aree di significato contigue. L’ironia e il lapsus, la poesia lo sapeva prima della psicanalisi, sono già nella lingua”.

 

Cosa intende esattamente per “virtù autoliberatoria”?

In poesia non siamo noi che diciamo o decidiamo di dire le parole, sono esse che si dicono attraverso di noi, liberando i significati. Come suggerisce il vecchio concetto di ispirazione, al quale io credo ancora, noi dobbiamo solo lasciare spazio a questa capacità della parola di autoliberarsi. Bisogna chiedere pochissimo alla poesia, anche se poi questo minimo, come ciò che chiede K. nel Castello: una casa, una moglie… è il massimo.

 

E’ come dire che bisogna escludere l’intenzionalità dalla poesia?

E’ l’eccesso di intenzionalità ad essere molto pericoloso. E’ un peccato contro lo spirito, un tentarlo: il più grave peccato. Come l’oratore deve pensare a svolgere una propria argomentazione e non al possibile effetto delle sue parole sugli ascoltatori, così, dice Leopardi nello Zibaldone, il poeta non deve pensare all’effetto della sua poesia o ai critici, ma dovrà limitarsi a narrare, esortare e compiangere, a seguire cioè la spinta del sentimento che lo porta a scrivere, a esprimerlo in modo autentico, certo con l’ausilio di tutti gli strumenti dell’arte, e poi aver fede nella propria parola, e il resto (cioè la possibilità di riuso del testo poetico) sarà dato in sovrappiù.

 

Che spazio potranno avere allora gli elementi narrativi e argomentativi?

Goethe diceva che per fare una poesia è innanzitutto necessario un buon argomento, come ci dev’essere un interesse iniziale del lettore che faccia da stimolo e lo attiri nella poesia, anche se poi scoprirà che magari l’essenziale è altro. Quanto all’argomentazione è uno degli elementi meno considerati della poesia, ma secondo me uno dei più importanti. C’è nella lingua poetica anche una pseudologica che porta a delineare sillogismi e pseudosillogismi che esprimono certe cose con estrema lucidità, elementarità ed essenzialità. Shakespeare ne è ricchissimo. Naturalmente, come ogni altro in poesia, è un elemento che non vive isolatamente. Ma perché è molto persuasivo? Perché è scritto in versi, ha un certo suono, un certo ritmo, una certa ricordabilità. Quasi come un’espressione aritmetica.

 

E gli elementi, diciamo, fisici della lingua poetica?

Certo, sono fondamentali, tanto che la lingua io non la chiamerei language ma tongue. E’ una cosa e l’altra cioè, è una funzione corporea preminentemente, ma anche etica e esistenziale. Una cosa è sicura: la lingua non è la linguistica.

 

L’ultimo suo libro è di traduzioni? Può dirne qualcosa?

Il libro inizia con la traduzione di un poeta (J. Donne) che in un certo senso rappresenta quello che in passato, e per pura suggestione dell’epiteto, avrei voluto essere: un poeta metafisico, e termina con quella di un tipo di poeta che, anche se temo di non poterlo più, vorrei ora diventare: un poeta romantico. Una parola questa che, usata oggi, comporterebbe un lungo discorso, ma con essa io a grandi linee intendo un poeta capace di coinvolgere i sentimenti di altre persone e soprattutto di liberarsi dal proprio io personale, facendo veramente in modo che, come dice Rimbaud, io sia un altro e non sempre io.

 

Può specificare il senso di questa formula che ormai tutti usano ma poi ciascuno intende a modo suo? Crede che l’io della poesia sia fittizio?

L’io di ogni poesia non è fittizio; quando scrivi è vero, anche se, nel momento in cui la poesia si configura e si pone come poesia, non è più un io privato, non è più legato all’identità dell’autore e può essere l’io di qualunque persona legga la poesia e ne partecipi il senso, si senta coinvolta e dica (per semplificare): succede proprio così anche a me.

 

Vorrebbe ritornare sul poeta romantico, che mi ha incuriosito?

In questo senso molto importante per me è stata la traduzione di Puskin, che ho appena rifatto quasi completamente e che ora uscirà come opera mia: l’Onegin di Puskin, in versi italiani di G. Giudici. L’ho fatto per cercare di recuperare qualcosa che nella nostra tradizione è mancato. Non abbiamo infatti una grande poesia romantica: l’unico grande poeta romantico da noi è stato il Manzoni, che peraltro molti disprezzano come poeta (io invece darei tutti i miei libri per aver scritto Gli inni sacri e i cori dell’Adelchi).

Mancando la poesia romantica ci sono mancate anche determinate esperienze stilistiche, per esempio il verso giambico, un verso che sia armonioso, cantato, popolare e naturale soprattutto, e che non sia una cantilena.

 

Per finire potrebbe dire qualcosa a proposito della recente polemica, che lei ha contribuito ad innescare, sull’uso troppo rigido ed esclusivo di metodologie formali e strutturali?

Anche tralasciando i loro aspetti sociologici e pratici, io non condivido queste metodologie “scientifiche”, che sono troppo limitative e dimenticano inoltre il giudizio del valore. La poesia poi, finché potrà sopravvivere, deve avere e ha dei fini che trascendono la sfera puramente letteraria e poetica. Recentemente sono stato colpito leggendo ciò che diceva H. Sienkiewicz, l’autore di Quo vadis?: scrivo per confortare (nel senso sostanziale della parola) i cuori dei miei compatrioti. Ora io non so se scrivo per confortare, o per fortificare, i cuori, ma sono convinto che se la letteratura viene meno ai suoi effetti extra-testuali si può anche chiudere bottega: va bene solo per i seminari universitari.

 

20/04/21

Intervista a Angelo Maugeri (agosto 1981)



La fase folcloristica della “rinascita” della letteratura della poesia, pur giustificata dalla lunga quarantena semi-ufficiale precedente e non priva di qualche merito se ha potuto allarmarne il pubblico, è fortunatamente passata, ma la produzione della poesia altrettanto fortunatamente continua ad arricchirsi.

Finito il momento delle assunzioni di massa e dei pronunciamenti generali e astratti, è giunto forse quello di cominciare a operare delle distinzioni, andando a vedere una per una le varie personalità e tendenze e lasciando a ciascuna una parola che sia, se possibile, la sua.

Senza pretendere all’esaustività né a classificazioni di tipo sportivo, abbiamo allora pensato di condurre una piccola inchiesta intervistando alcuni dei poeti che hanno maggiormente segnato questa rinascita.

 

Tra di essi Angelo Maugeri, classe 1942, non è forse il più giovane ma appunto per questo, risalendo più indietro i suoi esordi e tenendo conto della forte originalità che caratterizzava i suoi ultimi lavori, I sensi meravigliosi (in Quaderni della Fenice, n. 43, Guanda, 1979) e I fiumi i falchi la distanza il vento (in Almanacco dello specchio, n.8, Mondadori, 1980), può risultare inutile come inizio, seguire il suo percorso.

Tanto più che la sua poesia non ha mai voluto segnalarsi per trovate pirotecniche o per la ricerca di novità immediatamente evidenti e provocatorie, ma si è basata fin dai primi tentativi sulla ricerca di uno spessore e di una individualità di tono attraverso il costante confronto culturale.

Non è una poesia di difficile comprensione nemmeno a lettura immediata, ma non per questo è meno arduo e complesso approfondirne le stratificazioni, dato che è frutto di una forte tensione meditativa e insieme di un pudore che non prevarica nell’ostentazione sentimentale o esistenziale: indica, suggerisce, evoca mediante un lessico e una sintassi “puri” ed essenziali.

 

Quali siano state le tappe che lo hanno portato a questi risultati, è stata la prima domanda.

C’è chi ipotizza che in fondo è lo stesso libro che ciascuno legge o scrive, e anch’io, come tutti, da quando scrivo inseguo sempre lo stesso libro, così che ogni nuovo verso, se da un lato è un altro verso strappato alla morte, o aggiunto alla vita, dall’altro è un accostamento a questo libro, che sia “mio” e non, alla Mallarmé, quello che racchiude tutti i libri possibili. Mi è sempre interessata la parola aurorale, quella che sorge come dal nulla e inaugura prospettive inedite, ma dato che so che una poesia non sorge dal nulla, ho cercato, iniziando a scrivere, di trovare la mia confrontandomi con quella che nello stesso solco la precedeva, senza dimenticare però le esperienze contemporanee.

E’ naturale dunque che abbia avuto molta importanza per me la rivisitazione dell’ermetismo, di ciò che in esso era stato dimenticato e travisato, e la sua reinvenzione, alla luce però delle acquisizioni della neoavanguardia degli anni ’60 e dello strutturalismo, come risulta dal mio primo libro Mappa migratoria (Geiger, 1974).

 

Mi pare tuttavia che il tuo linguaggio, sebbene essenziale, non sia di tipo aureo e elevato.

Questo accade perché, quando scrivo, mi pongo nell’assoluta dimenticanza  della mia cultura, e spesso capita addirittura che io parta da versi letteralmente sognati (come i titoli messi tra parentesi di certe poesie di I sensi meravigliosi) o suggeriti da stati onirici durante la veglia, anche se è soltanto nella rielaborazione successiva, nel momento in cui ti provi con la poesia, in questa specie di lotta con l’angelo, che le parole si caricano di quell’ambiguità di cui tu stesso non conosci né l’orizzonte né la direzione.

Ciò non toglie che io abbia sentito che era per l’impegno sulla parola tipico dell’ermetismo che si doveva passare. Ma questo lavoro sul linguaggio ho sempre voluto dissimularlo, per far risaltare invece le immagini, sia quelle più ossessive che mi perseguitavano che quelle entro cui cercavo di spiegare una certa emozione, un certo flusso, di paura o felicità (la morte, il respiro, l’amore, il corpo, la metamorfosi, il “sistema / dei minimi dialoghi…”).

 

Sono temi che tornano anche nei libri successivi.

Sì, anche se il mio secondo libro, Verbale di s/comparsa (Geiger, 1976), trova la sua occasione più immediata nelle discussioni che si facevano allora sulla possibilità di una rifondazione della poesia, dopo che l’analisi linguistica su cui si era retta la neoavanguardia aveva toccato il fondo riducendosi più che altro alla ricerca di giochetti di facile effetto. Su queste discussioni si erano poi innestate rabbie e disillusioni di varia natura che in quegli anni avevo subito, o vissuto.

Attraverso una forte tensione cercavo allora un’espressione molto concentrata, tagliente, che mi permettesse il recupero di immagini della quotidianità che venivano a cozzare tra di loro producendo nuovi significati. Alla fine però mi sembrava di essere come una freccia ferma il cui bersaglio si allontanasse sempre di più. E’ per questo che nei testi successivi ho sentito il bisogno di allentare un po’ la corda linguistica, di ripiegarmi in me stesso, diventare più tenero e dolce, e nel contempo di trovare una voce più distesa, più capace di costruire un periodo, un discorso, anche una narrazione, qualcosa che desse un’unitarietà alla frammentazione delle poesie.

 

Oltre che perfettamente aderenti al discorso contenuto, trovo che i titoli dei tuoi libri siano molto belli. Vuoi commentarli?

Verbale di s/comparsa vuole mantenere già nel titolo l’ambiguità costitutiva del linguaggio poetico. Ciò che compare e insieme scompare, segnalato dalla barra, è l’io, portatore, soggetto del linguaggio. Come è noto tutta la poesia moderna si struttura, schematicamente parlando, attorno ad un io che non è l’autore ma la protezione di una miriade di fantasmi. Di questo io sono state date molte interpretazioni: negli anni ’60 si parlò (Giuliani) di un io ridotto; ma poi si sentì l’esigenza di ulteriormente eliminare la sua presenza e così lo troviamo ora disperso (Cucchi), disseminato (De Angelis), utilizzato in senso antropologico (Conte). Per parte mia invece mi attengo a una concezione che ne metta in risalto la fuga, la fuga del senso dal senso.

Dove con senso – ed eccoci ricollegati a I sensi meravigliosi – si intende tanto il senso semiotico, del discorso, quanto i cinque sensi, ovvero sei, se vi si aggiunge quello della poesia. L’io cioè si perde, perde senso per riacquistarne sempre un altro, per ritrovarsi sempre mutato in altro, come avviene nella metamorfosi, che non a caso è uno dei miei temi ricorrenti.

 

Potresti specificare il legame tra senso corporeo e poesia?

La poesia è il linguaggio più elevato del corpo, corrisponde al segno come eccedenza linguistica. Non di un corpo centrale, robusto, ma di un corpo giocato sul suo margine, sul suo profilo, nei sensi che fuoriescono dalla superficie, come ciò che essa affiora o viene secreto (i peli, la saliva, le lacrime ecc.), la parte più salvabile del corpo, la più noncurante, ma che, appunto come la poesia, ne traduce la più radicale interiorità. Come i sensi inoltre, anche la poesia è un prolungamento del corpo che si proietta verso l’esterno per produrre significati.

 

Pensi che questi significati siano comunicabili?

Forse non si tratta di produrre una comunicazione, dato che la poesia (almeno la mia, come io la intendo) non tende ad affermare verità o ad afferrare qualcosa che sia come un centro della realtà: solo vi si accosta, gli gira attorno, ne descrive i bordi nella loro mutevolezza e cerca di instaurare una comunione di queste esperienze, diciamo con cointeressenza. C’è poco da fare: si scrive per durare, per potenziare la vita e raggirare la morte, ma anche per trasmettere. Se fossi solo al mondo non credo che scriverei: sono illusioni che lascio ad altri, queste. Si scrive per entrare in contatto con l’altro, non per autoconsolarci, ma per con-solarci reciprocamente, per dire: senti, è possibile salvarci, per ritrovare i punti della nostra bellezza attraverso le angosce e le paure.

 





10/04/21

Intervista a Giovanni Raboni (1983)



Ho commesso l’errore di andare a intervistare Giovanni Raboni nella sede della casa editrice da lui diretta. Così, nonostante la sua grande affabilità e intelligenza, ne sono uscito con un po’ di amaro in bocca. Perché non mi è stato possibile indurlo a lasciarsi andare e a dire cose che non scriverebbe mai pronunciandosi sulla sua poesia in particolare o su problemi più generali. E la colpa non è della naturale pacatezza e riflessività di Raboni, ma di un maledetto telefono che continuava a squillare. Lui rispondeva pregando per lo più di richiamare e subito ritornava a me, ma ogni volta, per riprendere il filo del discorso, doveva compiere uno sforzo di concentrazione, che poco spazio finiva col lasciare agli abbandoni e alle vie traverse che io invece prediligo in questi colloqui. E’ servita a poco anche la mia arma segreta, la più disarmante in genere, e cioè la moltiplicazione delle domande cretine, che nessuno, non fosse altro per cortesia, ha mai il coraggio di rinfacciarmi, almeno apertamente.

Raboni infatti, esercitato a un costante autocontrollo per la sua attività editoriale e di critico (vedi per esempio Poesia degli anni Sessanta Editori Riuniti, Roma, 1976), trovava sempre il modo di farle sembrare quasi intelligenti, ciò che, in fin dei conti, tornava a maggior lusinga sua più mia, e senza benefici di ritorno. Ahimè doppiamente gabbato così: sconfitto da un telefono e ferito nel narcisismo. Meglio rimuovere allora, e trascrivere l’intervista.

 

La tua generazione è quella dell’avanguardia, eppure nella tua poesia non c’è traccia di violenza linguistica. Come mai?

Io assumo la lingua in blocco, come un dato, senza per questo mimare il linguaggio quotidiano, perché credo che la lingua sia un meccanismo troppo delicato perché possa permettermi di scherzarci. Ho l’impressione cioè che la poesia sia un modo non di violentare il linguaggio e di montarlo pezzo per pezzo, ma di usarlo rispettandone le strutture, in un’altra direzione. Si tratta però di un atteggiamento personale che non pretendo valga per tutti; e infatti ci sono alcuni poeti che lavorano sulla lingua che io amo molto.

 

Mi sembra che, specialmente nei primi due libri (Le case della Vetra e Cadenza d’inganno, Mondadori, Milano, 1966 e 1975), ci fosse invece una grande attenzione per gli oggetti.

Partire dall’oggetto, ma sempre in qualche modo spiazzandolo, è una mia tecnica ricorrente. Allora ero molto attento a certi paradigmi culturali e a una certa idea, o mito, dell’oggettività, così che a volte mi nascondevo dietro una serie di parametri, di oggetti-maschera, di “correlativi oggettivi”, mentre in seguito c’è stato un progressivo smascheramento.

 

C’era anche una forte presenza del sociale, specie in Cadenze d’inganno, e dell’ambiente, soprattutto cittadino.

L’attenzione all’ambiente e al sociale si radicava in una certa idea della città come corpo, che spesso corrispondeva all’uso di un linguaggio comune e basso, e della vita urbana, che si basava su motivazioni di natura più poetica che ideologica: per esempio in Baudelaire [che Raboni ha tradotto infatti].

 

Cosa ti sembra sia cambiato in maggior misura in Nel grave sogno (Mondadori, Milano, 1982)?

C’è da una parte un tono più febbrile una maggior rilevanza dell’elemento onirico e dall’altra una maggior frontalità, una prospettiva più assiale, una minor tendenza a estromettere dalla poesia il suo oggetto e a farne un antefatto. Si ha forse l’impressione di una maggior presenza della realtà, ma si tratta soprattutto di una diversa tecnica prospettica.

 

Prima hai accennato a un progressivo smascheramento. Come si è manifestato in pratica?

Attraverso una più forte compromissione della persona. Prima cioè il discorso era prevalentemente calato o nascosto negli oggetti, poi, a poco a poco, è diventato il discorso di una prima persona che finge di essere una terza persona, che non si confonde con l’autore quindi, fino giungere alla quasi coincidenza attuale, diffratta attraverso la finta semplicità del linguaggio e la logica asimmetrica del sogno.

 

Questo percorso asintotico di avvicinamento all’impossibile coincidenza, che modificazioni ha introdotto nel tuo linguaggio?

Mi ha indotto a cercare, dal punto di vista strutturale e lessicale, una maggior trasparenza; ciò che non impedisce tuttavia al discorso di essere più sostanzialmente oscuro. Il linguaggio più puro e cristallino l’ho perseguito probabilmente proprio per permettere di vedere l’oscuro. E’ sempre un offrire uno sguardo su di un buio. Ci sono sempre oggetti ecc., ma come sintomo di qualcosa d’altro, non più nella loro materialità.

 

E quali sono i problemi sorti dall’uso della prima persona che naturalmente la compromissione maggiore ha comportato?

L’io poetico mi ha creato soprattutto problemi di registrazione dei toni. Prima mi veniva più spontaneo pensare che intervenendo altre voci, il tono potesse essere o quasi materico o ironico o comunque distaccato. Quando senti invece che l’intervallo tende a restringersi e ad annullarsi quasi, quando la voce recitante, il soggetto, è in prima persona, allora è chiaro che il distacco non funziona più o devi recuperarlo in un altro modo, perché d’altra parte c’è sempre il desiderio di evitare un certo tipo di liricità o di enfasi. Non mi sento di alzare troppo il tono come per esempio tentano di fare alcuni nuovi poeti, né di rinunciare alla linearità e all’effusione. Ho cercato allora di ottenere effetti di velatura, in termini di sonorità. Il problema resta di mantenere nel proprio registro vocale la manifestazione “diretta” di quanto uno ha da dire.

 

Anche rispetto a questo qualcosa si sono verificati degli spostamenti. Per esempio per quanto concerne la morte.

C’è meno in senso letterale, forse perché c’è una maggior vicinanza reale. Nei libri precedenti c’era spesso una poesia contro la morte, che era soprattutto però la morte degli altri; ora invece è come uno sfondo costante. In Nel grave sogno è più presente l’amore, la tenerezza. Ho avuto l’impressione che fosse una svolta necessaria, il modo per ricominciare.

 

E’ tutto dettato da una specie di urgenza vitale allora?

Si parla sempre da una qualche mancanza, o vuoto, che si è venuto a creare… la scrittura nasce sempre da un vuoto: non nell’infelicità né nella mancanza di vita o di desiderio; anzi al contrario. La scrittura non è un surrogato della vita, anzi la vita diventa più vita nella scrittura, così come la scrittura diventa più vera in ragione della quantità di vita che ci metti.

E’ più un vuoto di attenzione, di concentrazione, momenti come di cedimento nei quali la necessità di caricarsi, di fare esperienze, subisce come un piccolo arresto, aprendo in tal modo lo spazio alla nuova concentrazione che ti serve per cominciare.