28/09/20

Soldati morti quarant'anni fa (4 parte)

 

qui potete leggere l'inizio e la seconda parte
http://grazioliluigimario.blogspot.it/2017/01/soldati-morti-quaranta-anni-fa-inizio.html 

https://grazioliluigimario.blogspot.com/2017/02/soldati-morti-quarantanni-fa-2-parte.html 

 

Allora mi sono seduto sulla cassetta vuota dei medicinali, come nei giorni degli scavi, con il bavero alzato, il cappello premuto sul passamontagna perché non volasse via, le falde del pastrano ripiegate sulle gambe unite, sui pantaloni strappati, i piedi ghiacciati, rannicchiato dentro le pareti del cunicolo nella speranza che mi proteggessero, che il vento mi passasse sopra, e insieme a lui il gelo che mi penetrava le ossa ora che mi abbandonavo alla stanchezza e l’acido lattico prendeva a scorrere incontrastato, che mi passassero sopra le voci dei miei compagni, le loro facce, le facce dei vivi e quelle dei morti, che mi passasse sopra tutto. Poi estrassi dalla tasca il libretto di Platone, quasi senza accorgermene, giusto per offrire alla testa qualcosa da rosicchiare, per imprimere per un po’ un ritmo diverso al respiro. Lo stavo rileggendo di filato, come un romanzo, ora, mi mancavano solo le ultime pagine, ma dopo averlo aperto rimasi lì a fissare il pollice inguantato che premeva il foglio senza nemmeno provare a decifrare le parole. La neve che inzuppava la pagina per un attimo rese l’inchiostro più lucido, come se emanasse un’ultima brillanza scurissima, prima di smarginarsi e liquefarsi in serpentine informi, arabe, prive di significato, che la mia miopia, da dietro i miei occhiali velati di ghiaccio, o velati erano gli occhi? non so, intrecciava in arabeschi tremolanti che alla fine non seguivo nemmeno più, lo sguardo inchiodato alla parete davanti a me, la mano che ogni tanto si allungava a ridurne le asperità, a lisciarla, con meccanica delicatezza.

E prima che me ne accorgessi, cullato dal mio gesto, a dispetto del freddo e del fracasso e della paura che percorrevano la pista come un cavo elettrico, caddi in un sonno profondo. Un sonno senza sogni, precipitato dentro se stesso, sonno che andava giù lungo il proprio pozzo interminabile, lontano da ogni rumore, da ogni distrazione e disturbo o sgomento, in un pozzo dalle pareti bianche, ma opache, nebbiose, morbide, sprovvisto di sporgenze a cui aggrapparmi anche se avessi tentato, perché, mentre anch’io non cessavo di cadere, restavo sempre a distanza, a perpendicolo nel centro, giù, giù, a velocità costante, con le ginocchia al mento, le braccia attorno alle caviglie, a uovo, o come un feto, composto, chiuso anch’io dentro il sogno di me stesso, al sicuro, senza ansia.

Mi svegliò quasi subito, però, il mio vicino, che si era accorto che dormivo quando aveva visto che il libro mi era caduto di mano e temeva che mi congelassi, ma più perché voleva parlare, perché aveva bisogno di qualcuno con cui sfogarsi, un interlocutore vero, non un testimone trascendente, uno a cui fare domande e che avrebbe anche potuto rispondere, perché era uno che studiava e stava ad ascoltare, uno che quindi, secondo lui, capiva e sapeva, e non importa se poi non rispondeva o se le sue parole non erano veritiere, purché lo distogliessero per qualche minuto dalla bufera, e dal pericolo e dalla morte, dal suo pensiero sconfinato, purché mitigassero la paura. E io stavo ad ascoltare e ogni tanto dicevo qualcosa, saltellando nei miei scarponi, dandomi pacche sugli arti e sul petto, e poi spolverando la neve dal libro, soffiando il mio alito caldo sulle pagine per asciugarle e ripassandole con un lembo della camicia estratta dai pantaloni, da sotto il pullover, la giacca e il pastrano, per stirarle con la flanella asciutta, per assorbire meglio l’umidità, e accarezzarle. Mi concentravo su quello che il mio vicino stava dicendo, brevi frasi isolate, frammenti di logiche ignote e che nemmeno pretendevano di essere decifrate, seguendo le parole ad una ad una, così da vicino, così intensamente e distrattamente insieme, con l’ultimo residuo di attenzione che ancora sopravviveva in me, che non mi restava spazio per ricordare le precedenti, e ogni tanto intercalavo qualche sillaba, un grumo di lettere che si potevano facilmente confondere con un sospiro, e che forse solo quello erano, un sospiro condiviso, quanto bastava a entrambi.

Ogni tanto ci distraevano i muli, che sembrano irrimediabilmente disperati anche quando sbadigliano, si muovono con una flemma e piegano la testa verso di te come se avessero sempre bisogno di tenerezza, e allora allungavamo le mani, io al collo e al dorso del suo mulo il mio amico, quello che prima era il mio sconosciuto vicino di fila e ora era il mio amico, per accarezzare anche lui, per ricevere, noi, il conforto che viene da chiunque si lascia accarezzare. Ma appena staccavamo le mani, quello tornava a ragliare, come per mettersi in sintonia con tutti gli altri muli che si lamentavano con voci altissime nella bufera, contagiandosi l’un l’altro in incessante rimando e forse a loro volta contagiati dall’odore della nostra paura, che filtrava oltre la barriera del gelo superando il loro stesso afrore; tanto alte, le voci, che a tratti quelle degli uomini si arrestavano, e un po’ sembrava che si placasse anche il vento, e tutti ce ne stavamo incantati ad ascoltare questo canto irrefrenabile, questa nenia a più registri, come una specie di canone obliquo che declinava la sua formula incantatoria in tutte le tonalità e variazioni, di inno alla fine che conteneva anche il nostro.

 

E ancora pensavo, anzi solo ora potevo pensare, o piuttosto: confusamente sentire, che la prima volta che ero veramente entrato in contatto con dei corpi morti, ancora troppo recenti perché li considerassi cadaveri, corpi che fluttuavano in una condizione intermedia di morti sì, e morti davvero, ma non del tutto, come se anche la morte fosse un processo e non uno stato, e a loro mancasse ancora qualcosa per portarla a compimento, per trapassare allo stato definitivo di cadavere, di materia inanimata che conserva sì traccia della materia vivente, ma come un’eco, una pura forma che viene avvertita appunto come pura, e quindi sull’orlo della impurità, sotto il costante attacco del cambiamento irreversibile, della scomparsa anche della forma, del ritorno all’informe di una materia che della vita non conserva traccia alcuna, quasi che la vita fosse stata solo un incidente di passaggio, fulmineo, insignificante... ero colpito dalla vaga sensazione, più che pensiero, che questo primo vero contatto era stato con i corpi morti di sconosciuti che, a parte minimi dettagli che peraltro allora non ero in grado di individuare, erano esattamente come me, e che anch’io ero come loro, vivo ma non del tutto, cioè morto ma ancora con della vita addosso, corpi che avrebbero potuto essere quelli di miei amici, o commilitoni con cui passavo le giornate e magari ero in confidenza, qualcuno che guardandomi magari pensava che, a parte minimi dettagli, era esattamente come me e infatti era già capitato che ci scambiassero l’uno con l’altro... e che tutti questi corpi che mi era stato comandato di soccorrere senza che io avessi potuto andare oltre reiterati tentativi che sapevo benissimo che sarebbero serviti a poco o nulla, e quel poco solo là dove la salvezza era già assicurata, e che comunque avevo effettuato con tutto me stesso perché andavano fatti, tutti, senza ometterne nessuno, nemmeno quello in apparenza più improbabile... tutti questi corpi sentivo che avrebbero potuto essere il mio, che erano identici al mio, lo sapevo, ne ero certo sempre più anche se non avevo avuto nemmeno il tempo di guardarli bene, di dedicare loro una riflessione, non dico una preghiera perché non pregavo allora come non prego ora, né di almeno commiserarli, preso com’ero dalla spinta del fare, stavo per dire dal dover fare, dal dovere di passare al prossimo, di provare se almeno con quello a qualcosa sarei stato utile, se un qualche risultato che non fosse la frustrazione e l’evidenza dell’assoluta impotenza sarei riuscito a conseguirlo. Anche minimo, impercettibile a tutti ma almeno non a me: un battito, un respiro, un occhio all’improvviso spalancato che sia pure per un attimo mi guardasse, anche senza dirmi niente, ma sì, sì, sono vivo, grazie a te sono vivo. O solo un lampo: sono vivo, e basta. Solo quello.

Nemmeno guardati li ho. Li ho soccorsi, manipolati, agitati, maltrattati, massaggiati, baciati, alzati, premuti, chiamati, coperti, bucati, spalmati, soffiati, stretti, scossi, ma non guardati: nemmeno visti. Ero troppo impegnato per guardarli, troppo vicino per trovare un angolo prospettico qualsiasi da cui osservarli. Gli abiti, la neve che cadeva o che alzavamo con i nostri movimenti, l’agitazione, l’urgenza, impedivano ogni osservazione che non fosse: respira/non respira, batte/non batte, qualcosa/niente si muove. E anche dei feriti non ricordavo nulla, allora, qualche ora dopo, ma già qualche attimo dopo averli soccorsi, perché una volta dati gli aiuti elementari indispensabili, verificato che non c’era pericolo immediato, fatti trasportare o scortati personalmente al coperto, al caldo e al sicuro, c’era sempre qualcosa di nuovo da fare, qualcuno da accudire, qualcun altro da raggiungere, una risposta da provare a dare, senza indugio, veloce, anche a costo di urtare chi scavava, scavalcando chi si era seduto, evitando di travolgere chi se ne stava fermo in piedi a guardare chissà dove pensando chissà che. E quindi nonostante mi sforzassi, non riuscivo a richiamare alla mente nessun lineamento, non dico un volto intero: neppure un dettaglio. Ferite visibili non se ne vedevano, sangue nemmeno, o pochissimo, e comunque non ricordavo, come non ricordo ora, e se anche ricordassi non ne parlerei, non descriverei niente e nessuno. Basta la morte. Nessun orrore che distolga il pensiero. Già da subito, appena ho provato a ricordare, non vedevo che una scena solo bianca, con il colore degli abiti, al massimo, o di qualche fronda o muro in lontananza che però la neve aveva velato, ingrigito e come assimilato a sé. E se pure qualcosa di concreto, anche nel ricordo, non è ineliminabile, lo scempio non deve offuscare la morte, niente la deve nascondere.

 

Chi desiderasse leggere tutto il racconto, può richiedermi il pdf via Facebook o a questo indirizzo:

luigi-grazioli@virgilio.it

 



24/09/20

Svuotato al quadrato


Lo vedo avanzare nella sua tenuta d'ordinanza dai colori sgargianti, ma senza la solita andatura baldanzosa con la quale intende forse sviare l'attenzione da chissà che (immagino), e anzi con passo pesante, la testa china, come oppressa dal pensiero, direi se non temessi di essere offensivo.

Risponde al mio timido saluto (non vorrei sembrare invadente) e quando gli chiedo come va, per pura cortesia, senza aspettare risposta e esserne offeso, con mia grande sorpresa lo sento rispondere guardandomi negli occhi: "Se già di solito, pensando a quel che penso, o che dovrei pensare, mi sento vuoto, ma non per questo più leggero, da un po', e oggi in particolare, mi sento svuotato anche del vuoto".

Basito, non so che dire, il mio repertorio di battutine svuotato a sua volta. Me ne sto lì fermo per un po', evitando il suo sguardo. Finché lo sento dire "buongiorno" e vedo la sua sagoma mettersi in moto.

Quando è già lontano, "buongiorno!", rispondo. Non so se mi ha sentito. Forse mi è uscito solo un suono strozzato. Forse l'ho solo pensato.

 


23/09/20

Gonçalo M. Tavares, Imparare a pregare nell'era della tecnica

Gonçalo M. Tavares ha quarant'anni, insegna teoria della scienza all'università di Lisbona e è autore di un cospicuo numero di opere narrative che gli hanno valso numerosi e prestigiosi riconoscimenti internazionali.

In Italia sono già stati tradotti vari libri ma la ricezione non è stata molto vasta. E' auspicabile che questo romanzo la estenda, con effetto di ritorno anche sui libri precedenti, tre dei quali editi da Guanda (Il signor Valéry, 2005, Gerusalemme, 2006 e Il signor Calvino, 2007). Lo merita: è un uno scrittore notevole, come dimostra anche questo Imparare a pregare nell'era della tecnica, premiato nel 2010 in Francia come miglior libro straniero.

Il romanzo narra la storia della formazione, ascesa professionale e politica e declino per malattia di Lenz Buchmann, figlio di un militare di cui ha assunto in toto visione del mondo e valori, anche se non la carriera. La voce narrante la racconta in modo tagliente, come il bisturi del cui uso il protagonista è un maestro, e con il distacco dello scienziato che segue un esperimento, alternando focalizzazioni su aspetti generali del personaggio e riflessioni astratte ma sempre ricondotte a qualche elemento di concretezza, a piccoli episodi che se suonano in prima istanza come illustrazioni o esempi, vengono poi a costituire tante tessere di un puzzle che pian piano dà luogo a una storia lineare e compiuta.

Il libro è composto di tre parti di lunghezza diseguale, suddivise in brevi capitoli a loro volta segmentati in capitoletti che spesso non arrivano a una pagina, tutti dotati di un titolo che a prima vista, come quello del romanzo, sembra non riguardare il testo successivo, ma agisce in funzione ironica, antifrastica o spaesante, come a suggerire che niente va letto (solo) come si presenta e per cosa dice, a maggior ragione quando il discorso è diretto, esplicito, dichiarativo e descrittivo, quasi a fotografare un dato di fatto, a darne un resoconto oggettivo, o addirittura scientifico. Assieme, questi titoli formano un indice di 9 pagine che vale la pena leggere anche da sole, come un racconto autonomo in cui si rifrange l'architettura del libro e che mostra quanto, attorno a una fabula semplice, la sua scrittura sia complessa e ricca di sfaccettature, pieghe, rimandi, implicazioni, variazioni, scarti e stratificazioni.

Il narratore  è esterno, ma assume spesso il punto di vista del protagonista per meglio esporne la visione del mondo e il comportamento, facilmente riassumibili nei termini dell'arte della guerra a cui Lenz era stato avviato dal padre militare e che aveva approfondito nella sua biblioteca, che lui aveva accresciuto e curato come il fondamento e l'essenza della sua stessa casa, e che non a caso sarà oggetto di profanazione alla sua morte. Di essenza libresca è lo stesso personaggio, come già indicato da nome e cognome, non solo in quanto io sperimentale alla Milan Kundera calato in una specifica situazione per studiarne presupposti e esiti, ma soprattutto come indizio di un tentativo di comprensione della realtà che già programmaticamente passa attraverso la mediazione e la sovradeterminazione, attraverso una narrazione che prende l'andatura e le modalità riflessive del saggio, che a sua volta può affrontare il proprio argomento e radicalizzarne le implicazioni solo in forma narrativa.

Esempio  di tale procedura è già il titolo, che annuncia "Imparare a pregare nell'epoca della tecnica", senza che vi sia poi traccia nel testo di tale apprendimento, né di preghiera peraltro. Almeno in apparenza. Forse non ne ha bisogno. La tecnica infatti, proprio in virtù dei suoi risultati, è anche evocazione e prefigurazione di un dominio delle forze della natura che è sperabile possa, in futuro, diventare assoluto. E' esattamente questa l'illusione su cui si basa la visione del mondo del protagonista, che però si immagina completamente disilluso, cioè cultore di un disincanto che prescinde da ogni trascendenza e morale e che solo nella competenza e efficacia del "fare" tecnico trova il proprio credo.

Egli coniuga il più inflessibile disincanto circa la natura umana, ridotta ai soli dati di cui consentono di parlare le scienze esatte e naturali (chimica, fisica e biologia, incluso il suo risvolto evoluzionistico) e quanto delle discipline umane appare come loro legittima filiazione (tecnologia, medicina, arte della guerra...), alla più incondizionata fiducia in esse. L’unico loro criterio è l’efficacia, così come l’unico per valutare l’uomo è l’efficienza: il saper fare, con la scusa che se non altro questo è quanto di meglio l’umanità ha saputo produrre per contrastare e dominare la natura e il disordine, incluso quello causato dall’umanità stessa nel suo risvolto sociale. La relazione con la natura e con gli altri uomini considerati nella loro essenza naturale anche quando si riveste di abiti civili, è sempre e comunque di guerra: le pause sono recupero, preparazione, rafforzamento; l’idillio e la comunione una strategia per disarmare e colpire con effetti più devastanti. Basta chiudere gli occhi per un attimo, abbandonarsi, dimenticare, e è fatta. Cioè sei fatto; invece di essere tu a fare (che è il verbo per eccellenza, quello che riassume nel sue differenti valenze – inclusa quella sessuale, forse per prima anzi –  quanto di meglio è nelle corde dell’uomo vero, cioè nell'uomo superiore: nel maschio alfa, che come tale mal sopporta di essere subordinato e appena assurto a qualche posizione, subito pensa a come salire, a come sbarazzarsi del suo stesso superiore e sostituirlo, come Lenz con il suo presidente).

E' un mondo di totale disincanto, performativo, ma senza che l’efficienza sia un dovere, l’imperativo categorico; peggio: è già passata nell’ordine delle cose: è il naturale. L'anaffettività che ne deriva è sentita non come una mancanza ma come un pregio: il risultato di un’educazione riuscita; la premessa del ben agire: cioè dell’agire senza freni, impedimenti o incertezze, “con mano ferma” come appunto è richiesto a un chirurgo, nella medicina tradizionale, e in quella sociale, vale a dire come azione politica. Niente giudizi che non consistano nei risultati. Tutto sta nel fare, anche se questo fare può apparire, ed è, violenza, come nella scena su cui si apre il libro: quella del padre che porta il figlio dalla servetta e gli ordina di “farsela” sotto i suoi occhi; vera scena primaria non solo dei rapporti sessuali a venire (moglie, mendicante, pazzo ecc.), ma di ogni rapporto in genere, che sia con gli uomini o con la natura, il mondo. Sembra che anche la servetta subisca (accetti) la violenza come un che di naturale. Se ha qualche reazione, non viene riportata, e comunque non importerebbe. Il suo ruolo è quello: è quanto di meglio potrebbe (le si chiede di) fare, e lei lo fa. Lo lascia fare. Si lascia fare. E' una serva, appunto.

Per Lenz invece sarà l’imprinting del piacere sessuale: perché comunque il sesso è qualcosa che va fatto: se non che il piacere, che in quest’ottica andrebbe inteso solo come il contentino che la natura concede al singolo perché neghi se stesso nella propagazione della vita, prende comunque il sopravvento, anche se lui pensa di controllarlo. Il suo presidente glielo dice chiaro e tondo che è una debolezza e che dovrebbe guardarsene: il capo, quell’uomo rozzo che lui vorrebbe scalzare alla prima occasione e che invece gli sopravvive.

In questo curioso matrimonio tra Sun Tzu e Comte (o la vulgata positivistica), L’arte della guerra funge da guida strategica e il controllo della natura e degli uomini da obiettivo, mentre l'efficacia dell’azione segna la misura dell’andamento della lotta.

Non è raro che i pessimisti  – e tutti coloro che pensano alla natura in termini conflittuali, se non sono gli stessi – approdino su queste rive, magari con gli abiti stracciati. Ma se l'obiettivo è il controllo, allora la concezione della natura come qualcosa di malvagio, e quindi da combattere, è implicita, soggiacente: si veda a p.133 la malvagità della natura come qualcosa che sta nel basso, sottoterra, luogo da lì viene la paura, che è il motore primo di ogni agire, in difesa o in attacco a seconda delle circostanza ma anche della tempra di ogni individuo, destinato a emergere e comandare se forte oltre che capace e competente, o a subire e ubbidire, anche per il proprio "bene", se incapace o debole; nessuna comunanza: "c'era fra natura e uomo un punto di rottura che da molto tempo era stato superato"; "gli uomini e gli elementi della natura ... non condividevano neanche un istante storico".

Anche nei momenti in cui sembra indurre all'idillio, la natura cova qualche catastrofe che non è altro "in fondo, [che] un'esigenza eccessiva di atti da parte degli avvenimenti: gli umani non [riescono] a fare tante cose in così poco tempo" e solo con l'invenzione della tecnica hanno compiuto, secondo Lenz, un grande balzo in avanti nell'ordine della velocità e della quantità di risposte possibili. Per questo "non lo entusiasmava l'ordine degli elementi", al contrario dell'ordine della città dove "il maestro, le leggi e il poliziotto indicano la giusta direzione [e si] sa bene dove va a finire ogni cosa" (p.32) e quindi come con la tecnica si può operare bene: eseguire "la buona azione, l'azione morale, [cioè] l'azione competente" (p. 161).

Lenz però è troppo smagato per nutrire davvero queste illusioni circa la tecnica, eppure è su di essa che regge la propria vita, come unica via percorribile da chi concepisce vita e natura essenzialmente come conflitto per sopravvivere derivato dalla paura. Il romanzo, specie nella prima parte, è l'analisi di questo credo che si disconosce in quanto tale e si presenta come incontrovertibile dato oggettivo, "scientifico", attraverso momenti cruciali della formazione di Lenz e soprattutto della sua attività professionale, di chirurgo prima e poi di politico, che della precedente è solo l'estensione e l'applicazione al campo collettivo. Dalla chirurgia individuale a quella sociale. In questo senso il sottotitolo "La posizione nel mondo di Lenz Buchmann" appare più adeguata a caratterizzarne il contenuto. Ma anche questo spostamento, questo dire indiretto che si presenta sotto la più diretta delle esposizioni, è un dato caratteristico del libro e un indizio sul modo di leggerlo. 

Il lettore è indotto a assumere una posizione di osservatore analoga, e forse ancora più esterna, a quella del narratore e del protagonista nei confronti dei rispettivi oggetti. Tanto il primo e la sua storia, infatti, quanto il tono del secondo non favoriscono alcuna forma di empatia: l'anaffettività che caratterizza il comportamento di Lenz, è la stessa richiesta dalla lettura, che non trova nessun aggancio in facili sentimentalismi o in argomenti di forte impatto e che viene immediatamente raffreddata non appena accenna a riscaldarsi. Il piacere, qui, è l'intelligenza. Se un sapore c'è, è quello del fiele: forte, ma più ancora amaro. Che invece di incantare e suscitare il lieve rimbambimento del fascino, tiene sveglio, vigile.

Lenz non si propone di fare del male: cerca di affrontarlo, anzi; però il male è l'effetto "secondario" (ma anche "necessario": tanto che lui sadicamente ne gode) del suo imperativo del "ben fare" da una parte, e ciò che annienta lui e tutto ciò che gli appartiene dall'altra; e, infine, il male è l'oggetto del libro.

Come si configura nell'era della tecnica? Da dove proviene, dove si trova e come si affronta? In che cosa differisce da ciò che era male nelle epoche precedenti? C'è una forma specifica che è insita nello stesso assumere la scienza e la tecnica come orizzonte di riferimento per osservare e affrontare il mondo? Di questa concezione Lenz incarna forse l'anima più profonda, e che per questo si ha spesso ritegno a mostrare in piena luce e a dichiarare apertamente. Egli la assume in tutta la sua crudezza senza il minimo tentennamento, ne fa proprie le implicazioni basilari e ne trae le rigorose conseguenze nei campi di pertinenza del suo agire: privato, professionale e pubblico. E se questo comporta dolori, violenze o addirittura l'eliminazione fisica di ciò o di chi si frappone come ostacolo, poco importa. La chirurgia deve essere condotta a termine, e se occorre tagliare, si taglia.

C'è quindi il male naturale, che prende la forma delle malattie e delle catastrofi (e della morte, che però per altri aspetti, non fa problema: se "utile" per sbarazzarsi di un diverso male, o di un ostacolo, di un fastidio: come la moglie) e, accanto ma non percepito, quello che deriva dal considerare non pertinente la valutazione morale dell'agire umano. Se il modello della comprensione è la scienza e quello dell'azione è la tecnica, che ha come fine l'efficacia e come strumento l'abilità e le competenza, allora nessun criterio morale tradizionale è valido. La compassione, per esempio, è "un attrezzo inutile per l'esistenza, che tecnicamente non risolve(va) nulla", e l'azione efficace non è buona anche se agli occhi di chi ne beneficia può dare questa impressione (alla figlia di una paziente da lui salvata che gli dice: "Lei è un uomo buono!", Lenz risponde: "niente affatto. Sono medico."). Tutto va quindi affrontato in quest'ottica che certo non viene invalidata dal fatto che catastrofi e malattie affastellano problemi in tale misura e velocità che siamo ben lontani dal poter risolvere: ma la tecnica è l'unica arma che ha saputo aumentare la velocità e l'efficacia delle risposte, anche se una sola morte è già la sconfitta definitiva. Senza contare tutto ciò che nell'uomo stesso, nello stesso soggetto tecnico-scientifico, resta non soggetto alla razionalità decisionale, e che niente riesce a mettere a tacere, a dispetto della facilità apparente di appagamento (della facilità dell'appagamento apparente). Come il sesso, che è sì un "fare", ma anche e sempre un "essere fatto", perché è il soggetto a dipendere da esso e non viceversa. O come il tumore al cervello che, dopo aver tolto di mezzo il fratello maggiore, l'indegno usurpatore del nome di famiglia, colpisce anche Lenz e pian piano erode ogni sua possibilità di agire e lo priva anche della forza più insignificante, come quella di cui avrebbe bisogno il dito per schiacciare il grilletto per farla finita: per decidere anche la morte come invece il padre era stato capace.

Di fronte a questo, in passato non sarebbe rimasto altro che accettare, disperare o pregare. Ma ora? Alla fine sembra che alla domanda implicita nel titolo non si dia risposta. La sola preghiera che conosciamo è quella nata in epoche antiche, quella che loda e ringrazia, ma soprattutto invoca consolazioni e aiuti da forze trascendenti di fronte a tutto ciò che governa e minaccia l'esistenza di fuori di ogni controllo umano. L'era della tecnica, che ha ridotto la religione a strumento di potere per manipolare le menti più deboli, non sembra aver trovato nessuna preghiera che risponda ai propri mutati presupposti: forse però questa carenza non deriva dalla sua inutilità nel nuovo contesto, bensì dal fatto che è la tecnica stessa a costituire la preghiera della propria era. Una preghiera ignota a se stessa, inconsapevole, che non ha altra forma che il proprio nome, altra sostanza che l'invocazione dei propri risultati, anche quando questi si dimostrano limitati, e in sostanza impotenti. E alla fine non resta che recitarne il nome e le giaculatorie, come fa il protagonista morente che ripete il nome di suo padre scritto in un biglietto che tiene sempre in mano, stringendolo e quasi sgranandolo come un rosario anche quando il biglietto viene cambiato per un dispetto crudele, in una ripetizione apotropaica ossessiva, consolante per il solo fatto di essere ripetuta, rosario di un solo nome.

Questo articolo è stato pubblicato in forma più breve su doppiozero.com il 7 marzo 2012 

 


18/09/20

Su alcune difficoltà di narrare (Rovereto, 2004)

“Ciò di cui ho bisogno sono delle storie, ci ho messo molto a saperlo” (Beckett, Molloy, 11)

 

“Non voler dire, non sapere ciò che si vuol dire, non poter dire ciò che si crede di voler dire, e dire sempre, o quasi, ecco che cosa è importante non perdere di vista” (Ib. 28)

 


(citazione)

A chi gli chiedeva perché non scrivesse romanzi, Borges rispondeva che non c’è ragione di scrivere 2 o 300 pagine, quando si può dire tutto in 10 o 20. Inoltre si guadagna in intensità e si possono raccontare più storie.

Non sono sicuro che le cose stiano in questo modo e per di più, non avendo la citazione esatta sottomano, non sono nemmeno sicuro di non avere inserito in questo aneddoto qualcosa di mio, poco o tanto che sia.

Intanto ho già cominciato a raccontare una storia.

 

Ma anche la citazione esatta, per il fatto di essere citata, sarebbe forse già stata una storia, o il suo inizio. Quanto meno l’inizio della storia dei difficili rapporti tra Borges e il romanzo, la storia di un sospetto, o di un equivoco, o di una comprensione lucidissima che però tradisce una concezione riduttiva del romanzo. Che non è il mio, mi sento di aggiungere, per quanto condivida l’esigenza di intensità o di densità del racconto (questo potrebbe essere il mio tradimento), e l’implicito giudizio sull’inutilità di tantissime pagine in moltissimi romanzi. Cioè quelli meno riusciti; perché in quelli riusciti anche le pagine che sembrano superflue non lo sono: ci pensa il romanzo a restituire la necessità che di primo acchito non saremmo disposti a riconoscere loro. E questa è una prima cosa che va detta sul romanzo.

 

Si tratta poi di vedere in cosa consistono queste presunte pagine superflue: descrizioni, dialoghi, caratterizzazioni, squarci storiografici, episodi marginali giustificati al massimo dalla loro gradevolezza, e soprattutto digressioni. Comunque sia, ci sono romanzi bellissimi che sembrano fatti solo di pagine superflue, che non solo inturgidano (mi si scusi il verbo malizioso) l’essenzialità della trama, ma la sostituiscono. Pontiggia lo diceva a proposito delle digressioni nei romanzi di Fielding, che “non rallentano l’azione, semplicemente la sostituiscono”; ma l’osservazione vale per molti altri romanzi del ‘700, come quelli di Diderot, e prima ancora per Sterne, così come, poi, per molti contemporanei (Musil, Gombrowicz, Kundera e Bernhard, per esempio, ai quali aggiungerò anche un grande scrittore che mi piace meno dei citati, Thomas Mann, solo per indicare la differenza con gli altri: in lui infatti ho talvolta la sensazione che la digressione non nasca dalla narrazione ma la orienti, e in un certo senso la determini a priori senza sostituirla).

 

Per molto tempo ho avuto in sospetto i romanzi in cui ogni elemento non fosse strettamente funzionale all’insieme, mentre amavo quelli dai quali non si potesse togliere nessuna frase (come nelle poesie) senza alterare il tutto: ero attratto da una parte dalla citabilità di un testo (ancora Borges, per esempio) e al contempo preferivo quelli da cui era difficile citare anche il minimo frammento (per esempio Kafka, esclusi diari e lettere, sommamente citabili invece, e spesso altrettanto belli dei testi narrativi). Ma poi mi sono accorto che tutto è citabile, perché ogni parola, anche la più banale, è già una citazione, consapevole o meno. L’inizio di questo paragrafo, per esempio, lo è (è una citazione di Proust).

Vi risparmio l’autocitazione del primo romanzo che ho scritto più di trent’anni fa, che era basato sull’uso di citazioni anodine ma tratte da fonti autorevolissime (di Marx citavo l’esclamazione “Politico!”; di Jakobson l’ingiunzione “Questo gioco deve finire”, ecc.), per tre motivi: il primo è che il protoromanzo è tuttora inedito; il secondo perché preferisco lasciare il tempo perduto al suo provvidenziale destino, il lirismo sull’infanzia e la giovinezza ai milioni di nipoti degeneri del grande francese (che alla fine, poverino, si prede anche le contumelie che solo gli altri meritano: a me capita di affibbiarle anche, per motivi analoghi, agli impressionisti), e la memorialistica  a chi pensa di avere qualcosa di interessante da dire su di sé salvo poi finire (se va bene) per costruire un personaggio che con chi scrive ha ben poco da spartire (e meno male, di nuovo); e infine per un motivo che magari rispunterà più avanti, e che ha a che fare con l’uso del pronome io, che io uso sempre, come qui.

E anche questo potrebbe essere l’inizio di un’altro storia.

 


(idee)

Lasciamole perdere entrambe e facciamo un passo indietro, cioè un altro passo in avanti (perché una storia va avanti anche quando va indietro). “Non sono sicuro che le cose non stiano” come dice lo pseudoBorges, ho scritto. Le cose non stanno mai come pensi o dove le metti, e se pure “sono come sono: terribili per gli idioti”, come ha scritto Gabriel Celaya, io confesso che la parte di idiota, in questo come in altri casi (spero non in tutti), mi si attaglia quasi alla perfezione. Il quasi non è superfluo: perché se fosse perfetta, persino l’idiozia sarebbe un merito.

 

Le cose non stanno così perché mentre dici qualsiasi cosa sei già, per restare al Borges vero (ma esiste un Borges vero? Lui sarebbe il primo a negarlo. Lui chi allora? Al problema dell’autore-narratore forse arriveremo dopo), nel giardino dei sentieri che si biforcano. E comunque non è vero che ciò che si scrive in 200 pagine può essere scritto meglio o altrettanto bene in 10 o 20. E se è vero che per molti romanzi 10 pagine sarebbero già troppe, anche in essi la riduzione da 200 farebbe perdere qualcosa: per esempio il tempo, che, come diceva Lukács, il romanzo è la sola forma ad accogliere tra i suoi elementi costitutivi.

Il tempo e il ritmo, che anche nel romanzo è fondamentale (sia detto per coloro che se mai vi accennano è solo per non affrontarlo: il ritmo della prosa e della sintassi, come in Celine, Beckett e Bernhard; quello dettato dalle pause o dalle omissioni, come in Carver o in Pontiggia; e infine quello degli eventi narrati, cioè della loro scansione, come nei gialli migliori ma anche in tanta grande letteratura, come in Gombrowicz e Kundera, che si rifà alle partiture musicali).

Nelle 10 pagine si guadagna in concentrazione quel che si perde in distensione, anche nel senso di una lettura distesa. A me piace molto l’intensità, che di solito si accompagna a un alto NIPP, cioè il numero di idee per pagina che si può usare per valutare la bontà di un romanzo (come suggerisce Bruce Sterling); ma niente impedisce che il NIPP sia alto anche in un libro di 500 pagine, come dimostrano, per esempio, i Promessi sposi.

Resta però da capire cosa si intende quando si parla di idee nei romanzi. Di certo non sono quelle degli scrittori che filosofeggiano in proprio o piluccano o (peggio) applicano filosofie altrui, e nemmeno quelle di coloro che riflettono sullo statuto di ciò che stanno narrando o sulla genesi e le implicazioni di ciò che stanno scrivendo, le cosiddette metanarrazioni (ma anche qui ci sono, tra le innumerevoli cattedrali di inutile noia, nicchie preziose,con porticine segrete che portano in mille direzioni diverse: mille diverse, non parti di una verità che sarebbe unica e completa; e poi condivido le parole di un filosofo, purtroppo recentemente scomparso, quando afferma che non esiste metalinguaggio; anzi addirittura lo capovolgo affermando che tutto è anche metalinguaggio, e penso che proprio la letteratura moderna ce l’abbia insegnato, e proprio laddove sembra essercene di meno). Quindi la parola idea non va intesa nel senso di concetto o insieme di riflessioni di tipo filosofico, per quanto i romanzi nei quali le idee hanno un ruolo importante siano numerosi (da Diderot a Dostoevskji, da Proust e Musil ancora a Gombrowicz e Kundera, e in Italia, tanto per fare 2 nomi per altri aspetti antitetici, a Gadda e Calvino); piuttosto quando si parla di idee nel romanzo sono le idee del romanzo che si deve intendere e individuare, quelle inerenti al romanzo come forma originale che non rispecchia quella del mondo né di alcun sistema di idee anche quando vi partecipa senza saperlo o vi attinge scientemente (per farne uso), ma crea il mondo mentre lo dà a vedere e a conoscere.

 

Prendiamo Kafka, che spesso viene usato in mille modi da una parte perché sembra radicarsi in una tradizione per cui ogni parola è il commento a un testo che non c’è, cioè a un testo di cui non abbiamo né potremo mai avere l’originale, tanto che ogni commento ne ricostruisce, ne inventa uno suo pur restando quello assente l’unico testo “vero”; e dall’altra in virtù della ricchezza di osservazioni metaletterarie che vengono estratte a piene mani, anche per parlare della sua opera narrativa, dalla peraltro meravigliosa congerie di lettere, diari e colloqui che ci sono pervenuti (che pure come opera narrativa possono anche essere talvolta lette, ma non per spiegare i suoi racconti e romanzi: con lo splendido L’altro processo, per esempio, Elias Canetti a proposito delle lettere a Felice non ha fatto altro, a mio parere).

Lasciamo perdere queste storie: dove sono le idee in Kafka? I suoi testi narrativi sono così compatti che non sono citabili, come ho già detto (cioè, sono citabili come tutto, a patto di non attribuirne la responsabilità se non a chi le estrae e ne fa uso), non contengono idee isolabili, riflessioni valide di per sé, per loro forza e coerenza interna, indipendentemente dal contesto narrativo in cui appaiono, eppure forse nessuna opera del ‘900 ha stimolato la produzione di idee più della sua. Come mai? Il fatto è che Kafka racconta e sembra non fare altro che raccontare.

 


(raccontare)

Ma anche qui ci sono dei problemi. Cosa si intende infatti con “raccontare”? Per un verso raccontare è l’attività più scontata e più diffusa tra gli umani, tanto che quando voglio atteggiarmi a provocatore sostengo che non c’è niente che non sia racconto; per un altro verso invece raccontare non è poi così scontato e così semplice. Almeno per uno che nel raccontare vede il suo compito primario e insieme l’oggetto del suo principale sospetto. Almeno per me, quindi.

Sono cresciuto infatti subendo il fascino assoluto del raccontare accompagnato quasi subito dal suo rifiuto, o quanto meno dalla sua messa in discussione. Quando ero ancora ragazzo…

Ma passiamo un’altra volta, perché finalmente sono arrivato a parlare di ciò che indica il titolo di questa conferenza e non vorrei perdere ancora il filo. Alla buon’ora, penserà qualcuno. Eppure io mi illudo di non essermene mai troppo allontanato. Anzi, sono convinto che alcune difficoltà di narrare le ho già quanto meno accennate.

 

Comunque è curioso, e forse anche significativo, che a parlare del narrare sia stato uno che ha sempre avuto difficoltà a farlo. La sezione che mi è stata affidata però si chiama scrivere, che implica un’altra prospettiva rispetto al narrare, ma siccome il titolo complessivo del corso è “La scoperta del romanzo” ne ho dedotto che il mio tema dovesse riguardare lo scrivere romanzi, che implica scrivere storie, cioè, tra l’altro, narrare.

Scrivere romanzi però non è la stessa cosa di narrare. Oggi molti, inclusa la rivista che dirigo (Nuova prosa: un titolo che ho ereditato), a romanzi o racconti tendono a  sostituire il termine “narrazioni” (al plurale), quasi per evitare l’imbarazzo (e per sottrarsi al dovere) di definire cosa si sta facendo o pubblicando, per evadere dalla gabbia che una definizione sembra erigere. Non siamo più d’accordo su niente, così pensiamo che fare supplisca al dovere di (anche) pensare a ciò che si sta facendo. Al massimo si concede una definizione personale, ad hoc, giusto per indicare provvisoriamente qualcosa (il presunto oggetto del discorso) e scansare gli equivoci che al momento sembrano più ingombranti. In tal modo tuttavia si aggira il problema, cosa che è senz’altro utile quando si intende o si deve fare qualcosa invece di restare intrappolati in discussioni senza fine; ma non per il fatto che possono non avere fine, tutte le discussioni sono inutili. Come non lo è la teoria, del resto.

Come le storie contengono della teoria, infatti, anche un discorso in buona parte teorico contiene (o è) una o più storie. La differenza è che la teoria tende a mettere tra parentesi e a subordinare a sé le storie, mentre queste fanno spazio alla teoria, la fanno circolare senza chiuderla o metterle un punto finale. In ogni caso io non riesco a pensare le une senza l’altra (le altre), e viceversa.

 

 

(come se niente fosse)

Il problema, oggi, è che fatichiamo a condividere sia le une che le altre. E che meno ancora ci riesce di condividere, cioè di dare per scontata, una concezione del tempo e della storia (o un insieme di concezioni anche conflittuali ma che possano tra loro confrontarsi) che ci consenta di strutturare e raccontare storie che a loro volta siano condivisibili come a priori. Condividiamo solo l’assenza esplicita di qualsiasi concezione e la sudditanza inconsapevole a quella che deriva dalla frammentazione, della quale ci appaiono schegge istantanee che non riusciamo nemmeno a inquadrare e che sul momento sembrano rassicurarci, mentre invece non accrescono altro che il nostro smarrimento. E’ un dato di fatto, e se è controproducente, più che inutile, rimpiangere le sicurezza del passato, a nulla serve naufragare in questo mare ricco solo di scorie. Anche se alcuni furbastri dicono che sia dolce. Ci servono storie che ci aiutano a vivere, come dice Gianni Celati, e una storia ci riesce solo se la condividiamo, fosse pure una persona alla volta.

Alcuni credono che dando per scontato un mondo condiviso il problema sia risolto: basta narrare “come se niente fosse”, ripetendo convenzioni consolidate e usando il linguaggio per “comunicare”, come uno strumento neutro e malleabile che l’artefice plasma a suo piacimento e adatta all’idea che egli si è fatto dei lettori e di ciò che essi desiderano da lui, o viceversa a ciò che egli pensa che abbiano bisogno di sentire e sapere. (Tra parentesi: in genere con questi presupposti, e a dispetto di ogni rispettosa denegazione, il lettore viene  configurato come un cretino: la sintassi elementare che viene usata ne è la più esplicita dimostrazione, così come la scelta degli argomenti e l’esotismo dell’ambientazione, mentre le derive liriche e/o di saggezza spicciola che dovrebbero affascinarlo non fanno che blandire l’ego di chi scrive. D’altra parte bisogna anche dire che talvolta il lettore si adegua volentieri all’idea dello scrittore, e cretino lo diventa per davvero. A volte è persino gradevole esserlo: e difatti ci adeguiamo tutti. Personalmente, però, del lettore io ho un’idea alta, e credo che lo sforzo che faccio per evitare per quanto mi è possibile la banalità narrativa non debba essere risparmiato nemmeno a lui, quando è il caso, perché, anche se la sua fatica è meno intensa della mia, spero che non minore risulti la felicità che essa gli procura se il gioco vale la candela, tanto più che se non la vale, lui il gioco lo può sempre abbandonare.)

Ma io non credo che tale concezione della scrittura romanzesca che dà per scontata la realtà oggettiva abbia qualche valore, e non mi importa che la stragrande maggioranza di ciò che viene pubblicato e letto la faccia propria. Allo stesso modo anche ogni inquadramento esterno (compreso quello dei generi, che non a caso oggi sono tornati a surrogare il nulla erigendo palizzate certo fragili, ma che in omaggio alla loro passata autorevolezza sembrano comunque servire a delimitare uno spazio condiviso in cui muoversi a proprio agio, o fornire gli elementi con cui, da allegri postmoderni, giocare) puzza fin da subito di ideologia di recupero, e pensare che proprio questo possa introdurre nel giardino della combinatoria e della contaminazione infinita è una beatitudine che non tutti sono (pre)disposti a condividere, senza per questo rimpiangere i tempi andati in cui l’illusione della corrispondenza rappresentativa era percepita, magari in buona fede, come certezza o addirittura vissuta come verità. E per quanto “fare come se” sia probabilmente una delle necessità che non potremo mai eliminare, né accettarla supinamente né disconoscerla né adottare spudoratamente le forme in cui si è già data sembra, almeno a me, la soluzione migliore. Se alla fine ci si dovrà piegare o si sarà in grado di accettarla serenamente (per non dire di volerla niccianamente), che sia almeno dopo aver resistito cercando le forme che sembrano più consone a noi, qui ed ora, e con il portato che la geografia della resistenza sarà stata in grado di produrre. Che la semplicità, per parafrasare molto liberamente Marx, sia non il punto di partenza ma il risultato di un pensare e di un agire (di uno scrivere) che si è fatto carico della complessità che abbiamo ricevuto e che la contiene, sia pure sottotraccia, in forma silenziosa.

 


(complicare la matassa)

Penso quindi che si debba scrivere romanzi non per trovare qualche bandolo che sciolga la matassa di un mondo complesso, ma per complicare un mondo che tutto sembra congiurare a semplificare, cioè a rendere semplicistico, proprio tramite la confusione e la moltiplicazione di informazioni che lo illustrano come inestricabilmente complesso; per estendere i nessi tra ogni aspetto della realtà, tenere aperti i canali (e i cunicoli) per altre possibilità di vita sia individuale che collettiva, cominciando col non perdere di vista la nostra (così distratti e confusi dal resto che spesso ci lasciamo cadere sulla prima occasione che viene offerta per il nostro desiderio di sollievo).

 

E se questo a qualcuno sembra poco allettante, pazienza. Ogni scrittore vorrebbe essere letto da tutta l’umanità, presente e futura (anche da quella passata, se dipendesse da lui); il che non implica però che per riuscirci debba abdicare a se stesso, né che debba per forza conciliare le necessità del romanzo con quelle del numero dei lettori. Non escludo che sia possibile in generale: lo escludo quanto a me.

Del resto è un dato di fatto che non si sono mai scritti e letti tanti romanzi come oggi, e non mi sento proprio di dire che la qualità complessiva si sia abbassata. La proporzione tra opere buone e cattive, anche se fosse sfavorevole rispetto al passato, sarebbe ampiamente compensata dall’accesso alla scrittura e alla lettura di un numero altissimo di uomini appartenenti a lingue e culture fino a pochi decenni fa esclusi da ciò che la nostra tradizione indica con letteratura. Oggi abbiamo la possibilità di leggere un numero così alto di opere significative di scrittori di ogni lingua e cultura che anche a un lettore onnivoro (come il sottoscritto) resta sempre una fame insaziata.

Cionondimeno molti scrittori pensano di dover contrastare ad ogni costo la supremazia di altre forme di narrazione che dispongono di mezzi più diretti e spettacolari per raggiungere il consumatore (parola che desumo dal loro contesto, o da quello dei cosiddetti manager editoriali, non dal mio).

Per farlo il romanzo ha imboccato varie strade, che tuttavia per comodità possono essere ridotte a due.

La prima è stata quella della concorrenza a queste forme adottandone meccanismi e ritmi narrativi, facendosi tutto cose e azioni e sollecitando un’intensa empatia applicata alla gamma delle emozioni più semplici e immediate e favorita dalla scelta di tematiche ritenute rilevanti in virtù della loro comprovata efficacia: è la strada oggi più percorsa, quella dell’asservimento, tanto che anche i libri che non vengono scritti direttamente per queste altre forme, in particolare per il cinema ovviamente, spesso vi ambiscono più o meno palesemente, non distinguendosi dalle sceneggiature vere e proprie che per pochi dettagli o farciture in genere superflue (anche se dal cinema il romanzo ha anche imparato molto, come impara da tutto del resto).

La seconda ha percorso la direzione opposta e ha accentuato la specificità del linguaggio, della scrittura nel suo farsi e della storia interna del romanzo, con largo ricorso all’intertestualità, e spingendo l’artificio e la rarefazione della narrazione fino ad agire contro il lettore nello stesso momento in cui ne postulava uno molto esigente, quasi solo un addetto ai lavori, blandito con un bel certificato di superiorità morale e intellettuale.

La prima è basata sull’impero della trama, la seconda tende alla sua dissoluzione: mentre qui il discorso si avvita o viceversa si espande su se stesso tra i due limiti del silenzio e della speculazione infinita, con in mezzo il vasto continente della chiacchiera, nell’altro non c’è altro spazio che per il congegno, che riveste di abiti odierni un mazzetto di archetipi, le cui ragioni profonde non importano più se non per il maquillage del merchandising e che la critica avvalora di solito senza andare oltre la loro nominazione.

C’è però almeno un’altra via, che consiste nel cercare delle forme peculiari alla narrazione di parole, suscettibili di tutte le variazioni e diramazioni e digressioni che esse consentono (come peraltro è sempre stato caratteristico del romanzo) e che insieme continuino a raccontare quelle storie che solo nella parola possono essere dette.

 

A questo si aggiunge talvolta la necessità di inventare anche la lingua per raccontare, come è avvenuto in passato per ogni grande romanziere italiano: ciò che forse spiega  perché in Italia per lungo tempo nessuna forma si sia affermata come modello. Oggi sembra che una lingua finalmente ce l’abbiamo, ma che razza di lingua è? Rileggendo la trilogia di Beckett un paio di anni fa, ho trovato questa frase che rispecchia bene il linguaggio ora universalmente diffuso: “Ogni linguaggio mi sembrava uno scarto di linguaggio” (Molloy, 126). Anch’io, fin da quando ancora ragazzo ho cominciato a scrivere, sento spesso le parole che mi si sciolgono in bocca come caramelle appestate, un senso di repulsione che si accentua ogni volta che sento qualcuno aprire bocca in televisione, per esempio, tanto che non resisto oltre le prime frasi, anche nei pochissimi casi in cui c’è spazio per qualche discussione seria: saranno le facce di quelli che parlano, sarà il mezzo televisivo, fatto sta che anche le persone intelligenti, e ce ne sono ancora molte grazie al cielo (mai abbastanza però), ne escono più che dimidiate. E’ sempre il decuplo, quantomeno, dei cretini professionali, però non basta. Il linguaggio vi figura in subordine, quasi un altro elettrodomestico. Non c’è che la scrittura dove può essere se stesso, l’ossigeno che respiriamo, che solo ci fa vivere.

Non dimentichiamo poi che, come dimostrano gli studi di Benedict Anderson (in particolare Comunità immaginate, manifestolibri,1996) e di certe correnti dei cultural studies anglosassoni che analizzano le letterature postcoloniali (cfr. a cura di Homi K. Bhabha, Nazione e narrazione, Meltemi,1997), sono stati spesso i romanzi in molte nazioni moderne a creare (o a contribuire a consolidare) insieme la lingua e la comunità che in essa e tramite essa ha finito per identificarsi, comunità che per essere immaginate non sono meno reali.

 


(necessità)

Va bene, ma allora di che cosa può scrivere oggi un romanzo? Ovviamente non posso legiferare per gli altri: quanto a me penso che si può scrivere solo ciò che ha origine da qualche forma di necessità, alla quale poi ciascuno dà la forma che le è propria. Il resto mi può piacere, e infatti spesso lo leggo non solo per informarmi, ma come scrittore non mi interessa veramente. E se non mi interessa come scrittore, in fondo non mi interessa nemmeno come uomo. Infatti io credo che la scrittura debba essere profondamente legata alla mia vita, che naturalmente è la cosa che mi interessa di più (gli scrittori che dicono che la scrittura è più importante della vita mentono, cioè trascurano il fatto banale che anche quando sacrificano molto alla scrittura, in realtà non sacrificano nulla: semplicemente scelgono di dedicare la loro vita alla scrittura perché scrivere è per essi il modo migliore di vivere). La necessità che secondo me dovrebbe essere alla base di ogni scrittura risiede in questo.

Così, quando mi chiedo: “com’è la mia vita?” e cercando di rispondere le do una forma, cioè me la narro in un determinato modo, dovrei invece chiedermi: “in base a quale modello (romanzesco), ricevuto ovvero da me modificato o costruito, do forma alla mia vita?”; o ancora, più radicalmente: “la mia vita diventa la mia vita in base a quale discorso le dà forma e la fa essere?”.  Ovvero, per usare le parole di Philip Roth: “E mentre parlava, io pensavo al genere di storie nel quale gli uomini trasformano la loro vita, al genere di vita nel quale gli uomini trasformano le loro storie” (La controvita).

La mia risposta a queste domande sono le storie che racconto ogni volta che apro bocca e soprattutto quelle che riesco a scrivere. Parlano tutte di me: anzi parlano tutte da me; e meglio ancora: è narrandole che divento me, cioè il me che in quel momento vengo ad essere.

Non nel senso che raccontano le mie faccende, peraltro interessantissime (almeno per il sottoscritto), ma nel senso che nascono tutte dalla mia esperienza, in primo luogo dalla mia esperienza del linguaggio: per capirla, darle forma e comunicar(me)la in ciò che mi tocca più radicalmente. Soltanto se obbedisce (e non uso il verbo a caso) a questa condizione, ciò che scrivo può sperare di comunicare e di avere un senso anche per altri. E poiché la mia esperienza, come quella di tutti, consiste anche di molte persone e cose che mi intersecano da fuori, anche di queste finirò sempre per raccontare, e più queste cose e persone saranno importanti per me, più spazio avranno in ciò che racconto; e poiché vivo queste persone e cose in modo diversi, diversi saranno anche i modi di raccontarle e di raccontarmi: diversi saranno gli io che verrò ad essere nei racconti e diversi i personaggi in cui il mio io si dividerà, assegnando a ciascuna delle sue componenti una sua autonomia e coerenza. Si potrebbero definire, con le parole di Milan Kundera, “Ego sperimentali”, attraverso i quali la speculazione sui vari sensi del mondo viene messa alla prova e sperimentata nelle sue conseguenze, estreme e no.

Ma si tratta di una speculazione che agisce mediante la singolarità e la concretezza di cui è fatta l’esistenza, e non nel modo concettuale e generalizzante che invece pertiene alla filosofia, anche se niente vieta il ricorso alla riflessione, che però qui è affidata alla pluralità irriducibile delle prospettive. E’ però un’opzione alla quale io preferisco ricorrere il meno possibile, perché i personaggi intellettuali si riducono spesso a fare i portavoce di teorie esterne e approssimative, con una spiccata tendenza alla cattiva astrazione, per difendersi dalla quale lo scrittore, quando se ne accorge, finisce per trasformare i personaggi in caricature. Che è un po’ come sparare sulla Croce rossa, con l’ironica differenza che qui la Croce rossa l’ha inventata chi spara, che in tal modo riesce nella gloriosa impresa di sparare a se stesso, colpendosi infallibilmente.

 

(sintassi)

Il legame con l’esperienza, come indica anche Benjamin nel saggio Il narratore dedicato all’opera di Nicola Leskov, è consustanziale al narrare. Benjamin segnalava già settant’anni fa che “l’arte del narrare sia avvia al tramonto”, “come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze”, ma proprio per questo diventa indispensabile cercare forme sempre nuove per tentare di scambiarle, e renderle trasmissibili in quanto esperienze e non come mere informazioni: dove l’esigenza della novità non è un valore legato all’imperativo modernista, ma una necessità dettata dal venir meno, dall’erosione radicale appunto della trasmissibilità. E poiché tale erosione tocca in primo luogo i modi di trasmissione dell’esperienza e la sua stessa condizione, il linguaggio, è su di questo, credo, che deve soprattutto concentrarsi il lavoro dello scrittore. E penso che lavorare sul linguaggio non consista nello scardinarlo, nel farlo a pezzi o contaminarlo nei vari modi che le avanguardie ci hanno resi familiari, e nemmeno nel procedere a chissà che mirabolanti invenzioni lessicali, quanto piuttosto nel servirsi della straordinaria ricchezza che la sintassi consente per dargli vita.

Amo il linguaggio in tutti i suoi aspetti e non mi sognerei mai di distruggerlo, perché è impossibile distruggere ciò che è molto più di noi (anche se ci stiamo dando parecchio da fare per rovinare quasi tutto ciò che è più di noi, che comunque troverà modo di sopravviverci altrimenti), e penso che l’unico modo accettabile di forzarlo sia rispettarlo, portando in certi casi al limite certe sue implicazioni, mettendole a nudo magari, ma senza pensare di potere fare a meno dei suoi vincoli, nei quali peraltro risiedono anche molte delle sue risorse.

Per ciò che mi riguarda (credo lo si intuisca anche da quanto ho detto sinora e da come l’ho detto), preferisco attenermi al linguaggio comune, evitando per quanto mi è possibile il ricorso a preziosismi o tecnicismi di qualsiasi sorta e riducendo quasi a zero il tasso figurale. Il rischio è l’appiattimento, ma ho deciso di correrlo. D’altra parte, specie nel mio ultimo libro che si intitola Lampi orizzontali, non volevo aggiungere inutili complicazioni e motivi di distrazione a una lettura che già richiede sufficiente attenzione sia per il numero dei personaggi che per la sintassi piuttosto articolata che lo caratterizza.

 

E’ proprio la sintassi, infatti, il vero perno della narrazione (nonché ciò che per me è l’aspetto più importante, e mi piacerebbe poter dire anche originale, di gran parte di ciò che scrivo e in particolare di Lampi orizzontali). Una sintassi che ho cercato di usare in modo elaborato ma non pedante, così da potermi muovere in una temporalità piuttosto ampia e varia all’interno di ogni singola frase e storia; ma una sintassi che resta comunque “classica”, senza trasgressioni evidenti. E’ solo per aver trovato questo tipo di sintassi, per aver sentito che questo ritmo mi apparteneva (o viceversa, per essere più esatti), che ho potuto raccontare le storie: che non ho avuto resistenze a raccontarle. Anzi: che ho provato un grande piacere a raccontarle senza che venisse meno la tensione, che è una delle condizioni per me imprescindibili dello scrivere.

E’ una questione di timbro e di ritmo, come dicevo all’inizio. Questo, per me che non sono uno scrittore professionale, ha molto a che fare con la decisione di scrivere, quella concreta e materiale che ricerco o che mi fa prendere in mano la biro o accendere il pc intendo.

In genere all’origine di ciò che scrivo ci sono immagini concrete e dettagliate o un’espressione precisa che mi si ficcano in testa con forza. Quando succede vuol dire che qualcosa è stato toccato dentro di me, ma non ho fretta; le lascio lì a maturare, per verificare se si tratta solo di impressioni passeggere o se hanno la capacità e la costanza di colonizzarla (la testa, intendo). In questo caso, dopo un certo tempo le loro evoluzioni si fanno sempre più frequenti e io comincio a seguirle con interesse finché mi accorgo di non riuscire a pensare ad altro anche quando ad altro, di fatto, penso, pur sapendo che di ciò che allora penso utilizzerò in seguito poco o niente.

Comincio a lavorare materialmente solo quando tutto questo rimestare prende la forma di una frase compiuta, che mi si impone per un suo ritmo che, a torto o a ragione, mi sembra ineludibile, necessario, e per il suo tono preciso e ben individuato, che non lascia spazio a nient’altro. Allora l’unico modo per liberarmene diventa scriverla. La conferma che tono e rimo sono quelli giusti, se lo sono, è immediata: infatti mentre scrivo la frase, se ne affacciano subito altre a una velocità che, per i miei ritmi, mi stordisce, e mentre mi affanno a scrivere anche queste si delinea l’idea netta di ciò che dovrà seguire, o quanto meno la forma che ciò che seguirà dovrà prendere, con gli indispensabili aggiustamenti d’accordo, ma senza revisioni sostanziali.

Ciò non significa che ci si debba limitare a queste circostanze e tantomeno che ci si abbandonare a corpo morto al flusso di intensità che ci percorre in quei momenti. O meglio, ci si deve abbandonare, ma sapendo che non basta (però è bello). La cura e l’abbandono nella scrittura non si escludono, e nemmeno si deve pensare che dove cresce l’una diminuisce l’altra, come se la loro somma fosse costante: anzi, più aumenta l’una più c’è bisogno dell’altro e viceversa. Maggiore è la superficie che si espone alla luce, più estesa è l’ombra prodotta, e maggiore la necessità di tenerne conto.

 

(tempi)

I libri più interessanti oggi mi sembrano meno quelli che raccontano storie, pur avvincenti o sapienti o intense, che quelli che raccontano per dire dell’altro: ma dell’altro che non può essere detto altrimenti che narrando.

Le cose da narrare ci sembra di conoscerle tutti: la conclamata comunicazione totale di ciò che avviene, e in particolare di ciò in un determinato momento si vuole far credere come più terribile o strano, rende sempre meno necessaria l’originalità del cosa e sempre più quella del come (tanto per semplificare). Ma se è un errore quello di chi cede alla logica azzerante dell’uguaglianza che deve essere nutrita sempre di nuovi cosa, lo è altrettanto quello di chi dimentica che nel come è il cosa che viene alla luce, e questo cosa conta eccome. Non si tratta infatti, come fanno alcuni, di disprezzare la comunicazione per il fatto che tutto sembra ridotto ad essa perché nel suo trionfo non comunica più niente all’infuori di se stessa, quanto invece di trovare delle forme per comunicare veramente qualcosa e insieme per mostrare i modi in cui la comunicazione avviene, da dove viene e cosa comporta. Questo mi sembra importante e urgente e può avvenire non mediante un abbassamento “democratico” del modo, cioè il suo avvilimento e asservimento, ma mediante la cura della sua perfezione, senza compromessi. Parlo del romanzo, ma non solo di esso: ma del romanzo tanto più in quanto il suo lettore, scegliendolo invece di tante altre forme, questa cura già se l’aspetta prima ancora di leggere una parola. Altrimenti andrebbe a cercare le sue storie altrove.

 

Raccontare è stato naturale, apparentemente, finché c’è stata una visione del mondo condivisa, come dicevo: all’interno di una definizione della realtà su cui tutti coloro che appartenevano a un gruppo, piccolo o grande che fosse, erano d’accordo (o erano convinti di essere d’accordo, che poi è quasi la stessa cosa), l’interesse convergeva sulle cose da dire, i luoghi da descrivere, i personaggi da evocare e le azioni da selezionare. Accanto a questo c’era spazio per l’abilità retorica, intesa come arte di costruire il discorso e di abbellirlo per convincere o affascinare, in un contesto in cui, però, verità e menzogna erano in via di principio discernibili e separabili. L’inquadramento di ciascuno di questi fattori e il posto che andavano ad occupare nella gerarchia della società e dei valori, erano dati per scontati e, semmai, la porta del cambiamento veniva lasciata aperta per piccoli aggiustamenti che, anche se in futuro (a posteriori) magari si sarebbero rivelati decisivi e assommandosi avrebbero cambiato il volto del mondo, al momento non apparivano che marginali, per quanto utili per affrontare il poco di nuovo che si aggiungeva all’immenso noto.

La storia del romanzo invece parte proprio dal cambiamento e, sin dall’inizio, del nuovo si fa carico (stavo per scrivere la storia del romanzo moderno: ma io sono d’accordo con coloro che pensano che, per quanti antecedenti si possano rintracciare nel passato, come fa Bachtin con la satira menippea, o Pavel con il “romanzo” ellenistico, il romanzo è un’arte a se stante nata nei tempi moderni: cfr. il libro curato da Massimo Rizzante, AA. VV. “Romanzo e romanzesco”, Metauro, 2004). Degli sconvolgimenti che accadevano non c’era forma che potesse farsi carico, e così è nata questa forma mobile che è il romanzo, una forma senza forma che doveva ogni volta inventarsi di nuovo. E se anche a noi la storia del romanzo oggi appare come un panorama di forme quasi continue, ognuna di esse ha dovuto, tenendo conto di quelle che l’hanno preceduta, reinventarsi da capo, tanto che se uno mettesse in fila i capolavori vedrebbe che si tratta ogni volta di un unicum. Ci sono poi molti romanzi bellissimi che esplorano il territorio aperto da questo o quel capolavoro, ma ciascuno di questi ultimi resta un individuo unico e incommensurabile. Poi noi li mettiamo insieme, li raggruppiamo in paesaggi nel complesso omogenei o li infiliamo in collane continue a mo’ di perle, ma questo è solo un derivato del nostro bisogno di fare delle storie che diano un senso per noi a tutti quegli individui, non diversamente da come essi fanno con i loro personaggi.

Ogni romanzo riuscito aggiunge qualcosa a quelli che lo hanno preceduto, ne amplia la comprensione, ne ridisegna i confini e aggiorna la definizione. Non so se e quanto un romanzo possa incidere sul presente o sul futuro: quel che è certo è che cambia il passato. Proietta su di esso uno sguardo dal quale non potremo più prescindere, e forse è proprio per questa via che, dal passato mutato, torna a incidere sul presente, quantomeno sul quello di chi lo ha letto, e da qui sul futuro.

 

Per quanto sembri partire da presupposti simili ai modi di costruire storie che l’hanno preceduto, dato che ogni forma ha presto o tardi trovato gruppi sociali che l’hanno fatta propria, e cioè “naturalizzata”, il romanzo procede in senso opposto al raccontare non romanzesco, tanto che oggi, di fronte a una frammentazione che appare sempre meno condivisibile sino a ridursi a un orizzonte sconfinato di idioletti privati, il ricorso alla forma data (e data come data, cioè come ricevuta da un passato a noi omogeneo che l’ha riempita e variata in ogni modo traghettandocela come pura forma disponibile a qualsiasi imbottitura) appare come l’unica alternativa, il rifugio più efficace e quindi più ricercato. La forza dello stereotipo è l’efficacia durevole che lo ha reso tale.

Oggi sembra però che, riconoscendo lo stereotipo narrativo come forma e usandolo volontariamente per ciò che è (senza cioè esserne inconsapevoli prigionieri), esso si sia trasformato da comoda gabbia in ancor più comodo passepartout per un aperto quanto mai vago, l’euforia paranoica di una libertà senza rischi. C’è da dubitarne.

 


(ordine)

E’ vero che raccontare è mettere ordine, perché anche la scrittura più confusa, o che più alla confusione si inchina, inizia dal desiderio di ridurla e di in qualche modo organizzarla. Tuttavia costruire un ordine provvisorio e aperto, è diverso dall’incasellare ogni aspetto della realtà nelle scansie di un sapere i cui criteri sono aggiustati su quelli della realtà data (quella letteraria inclusa). Chi scrive tenendo conto di cosa è stata (o è) la modernità, inoltre, sa sempre di scrivere almeno in modo doppio, dicendo in ciò che dice anche qualcosa su ciò che dice e sul modo di in cui lo dice, che è un’altra forma di organizzazione della confusione. In particolare io so di farlo anche quando non ci penso (anche se in genere penso ciò che faccio), e quando non ne faccio l’oggetto esplicito del discorso. Anzi, evitare di farne l’oggetto esplicito del discorso è mia massima cura, nonostante talvolta finga di squadernare tutto (ma si tratta di false piste: in Lampi orizzontali quasi tutte addossate alle peraltro fragili spalle di Flavio, lo scrittore). Non mi voglio dilungare sulla dimensione del metadiscorso o della teoria, della quale personalmente non so, né voglio, fare a meno; segnalarne la presenza mi sembra però doveroso. Già che ci sono, però, mi allargo, e dico che la teoria è in tutto ciò che scrivo, che tutto ciò che scrivo è anche, bene o male, teoria. Anche se forse sto solo proiettando desideri destinati a rimanere tali.

 

(candore e disincanto)

Ma allora che fine fa la realtà in tutto questo?, mi ha chiesto qualcuno. Non ti poni il problema del realismo? Se c’è un problema che non mi pongo, gli ho risposto, è quello del realismo, anche se sapessi cosa si intende con questo termine. Quanto ho scritto finora mi sembra lo dimostri sufficienza. Se con realismo si intende il riferimento, che può prendere varie forme, a quello che c’è, o a quello che si suppone che ci sia, bisognerebbe definire tutto ogni volta e trovare un punto d’intesa per capirsi. Non so se sarei in grado di farlo, però so che non mi interessa. L’unica cosa (l’unica realtà) che c’è quando si scrive, lo ripeto, è il linguaggio, e il linguaggio che c’è quando si scrive è quello che si ha nella testa e che ci passa, provenendo da ciò che si è letto, sentito, detto e (se e quando ci si riesce) pensato. Non esiste altra realtà che quella a cui la narrazione dà forma: ogni tipo di corrispondenza con un’altra presunta realtà è una corrispondenza con la realtà che ha in testa qualcun altro, per esempio chi legge. Con ciò che chi legge chiama realtà. Che peraltro già si modifica mentre legge.

A me ogni parola sembra infinita; soprattutto quando scrivo, in ognuna di esse mi sembrano risuonare tutte le volte e tutte le circostanze in cui l’ho incontrata (detta, sentita o letta) e persino quelle che mi sono ignote. Il che, a ben pensarci, è una bella fregatura, perché spesso si traduce in una forma di paralisi (o di completo disorientamento, di assoluta vertigine), a meno che non sia la forma di cui di si fa scudo mia personale propensione alla paralisi. Viceversa però questo mi impedisce di dimenticare che le parole non sono oggetti a mia disposizione, un docile strumento da manipolare come e quando voglio; mi ricorda ogni momento l’irriducibile molteplicità che risiede in ciascuna di esse, la resistenza che oppongono a ogni mio sacrosanto impulso al loro controllo, nonché la resistenza che io devo opporre loro, per quanto mi è possibile, per non soggiacere alla tirannia, o alla tentazione, della presunta naturalezza e semplicità con cui ti blandiscono. Allora diventa evidente che la moltiplicazione del possibile non sono io a deciderla: c’è già, e a me non resta che accettarla proprio mentre, scrivendo, faccio di tutto per arginarla e organizzarne una parte, disincantato.

Ciononostante non vado esente dalla meraviglia, mi pare, perché anche il disincanto ha la sua parte di meraviglia, una parte sottile ma non per questo meno intensa. Quanto meno se il disincanto non è il pedestre cinismo oggi diffuso (in particolare nei cosiddetti noir: l’illusione dell’assenza di illusioni, che è un’escrescenza della paura) o la delusione radicata nel presupposto che ogni passione è spenta, che è la forma preferita della resa incondizionata. Le vite che ho raccontato sono state per me ogni volta fonte di meraviglia, non ultima la meraviglia che sia possibile e doveroso raccontarle. Sarò ingenuo, ma io ho una passione forte, la letteratura, che resiste a ogni sua marginalizzazione o svalutazione, e me la tengo ben stretta.

Del resto qualche sempliciotto che la condivide con me, per fortuna in giro è rimasto ancora. Anche la loro sopravvivenza è per me fonte continua di meraviglia. E di gratitudine. E di ammirazione. Quando qualcosa o qualcuno scoperchia il mio candore, mi meraviglio di averne e sono felice.