28/09/20

Soldati morti quarant'anni fa (4 parte)

 

qui potete leggere l'inizio e la seconda parte
http://grazioliluigimario.blogspot.it/2017/01/soldati-morti-quaranta-anni-fa-inizio.html 

https://grazioliluigimario.blogspot.com/2017/02/soldati-morti-quarantanni-fa-2-parte.html 

 

Allora mi sono seduto sulla cassetta vuota dei medicinali, come nei giorni degli scavi, con il bavero alzato, il cappello premuto sul passamontagna perché non volasse via, le falde del pastrano ripiegate sulle gambe unite, sui pantaloni strappati, i piedi ghiacciati, rannicchiato dentro le pareti del cunicolo nella speranza che mi proteggessero, che il vento mi passasse sopra, e insieme a lui il gelo che mi penetrava le ossa ora che mi abbandonavo alla stanchezza e l’acido lattico prendeva a scorrere incontrastato, che mi passassero sopra le voci dei miei compagni, le loro facce, le facce dei vivi e quelle dei morti, che mi passasse sopra tutto. Poi estrassi dalla tasca il libretto di Platone, quasi senza accorgermene, giusto per offrire alla testa qualcosa da rosicchiare, per imprimere per un po’ un ritmo diverso al respiro. Lo stavo rileggendo di filato, come un romanzo, ora, mi mancavano solo le ultime pagine, ma dopo averlo aperto rimasi lì a fissare il pollice inguantato che premeva il foglio senza nemmeno provare a decifrare le parole. La neve che inzuppava la pagina per un attimo rese l’inchiostro più lucido, come se emanasse un’ultima brillanza scurissima, prima di smarginarsi e liquefarsi in serpentine informi, arabe, prive di significato, che la mia miopia, da dietro i miei occhiali velati di ghiaccio, o velati erano gli occhi? non so, intrecciava in arabeschi tremolanti che alla fine non seguivo nemmeno più, lo sguardo inchiodato alla parete davanti a me, la mano che ogni tanto si allungava a ridurne le asperità, a lisciarla, con meccanica delicatezza.

E prima che me ne accorgessi, cullato dal mio gesto, a dispetto del freddo e del fracasso e della paura che percorrevano la pista come un cavo elettrico, caddi in un sonno profondo. Un sonno senza sogni, precipitato dentro se stesso, sonno che andava giù lungo il proprio pozzo interminabile, lontano da ogni rumore, da ogni distrazione e disturbo o sgomento, in un pozzo dalle pareti bianche, ma opache, nebbiose, morbide, sprovvisto di sporgenze a cui aggrapparmi anche se avessi tentato, perché, mentre anch’io non cessavo di cadere, restavo sempre a distanza, a perpendicolo nel centro, giù, giù, a velocità costante, con le ginocchia al mento, le braccia attorno alle caviglie, a uovo, o come un feto, composto, chiuso anch’io dentro il sogno di me stesso, al sicuro, senza ansia.

Mi svegliò quasi subito, però, il mio vicino, che si era accorto che dormivo quando aveva visto che il libro mi era caduto di mano e temeva che mi congelassi, ma più perché voleva parlare, perché aveva bisogno di qualcuno con cui sfogarsi, un interlocutore vero, non un testimone trascendente, uno a cui fare domande e che avrebbe anche potuto rispondere, perché era uno che studiava e stava ad ascoltare, uno che quindi, secondo lui, capiva e sapeva, e non importa se poi non rispondeva o se le sue parole non erano veritiere, purché lo distogliessero per qualche minuto dalla bufera, e dal pericolo e dalla morte, dal suo pensiero sconfinato, purché mitigassero la paura. E io stavo ad ascoltare e ogni tanto dicevo qualcosa, saltellando nei miei scarponi, dandomi pacche sugli arti e sul petto, e poi spolverando la neve dal libro, soffiando il mio alito caldo sulle pagine per asciugarle e ripassandole con un lembo della camicia estratta dai pantaloni, da sotto il pullover, la giacca e il pastrano, per stirarle con la flanella asciutta, per assorbire meglio l’umidità, e accarezzarle. Mi concentravo su quello che il mio vicino stava dicendo, brevi frasi isolate, frammenti di logiche ignote e che nemmeno pretendevano di essere decifrate, seguendo le parole ad una ad una, così da vicino, così intensamente e distrattamente insieme, con l’ultimo residuo di attenzione che ancora sopravviveva in me, che non mi restava spazio per ricordare le precedenti, e ogni tanto intercalavo qualche sillaba, un grumo di lettere che si potevano facilmente confondere con un sospiro, e che forse solo quello erano, un sospiro condiviso, quanto bastava a entrambi.

Ogni tanto ci distraevano i muli, che sembrano irrimediabilmente disperati anche quando sbadigliano, si muovono con una flemma e piegano la testa verso di te come se avessero sempre bisogno di tenerezza, e allora allungavamo le mani, io al collo e al dorso del suo mulo il mio amico, quello che prima era il mio sconosciuto vicino di fila e ora era il mio amico, per accarezzare anche lui, per ricevere, noi, il conforto che viene da chiunque si lascia accarezzare. Ma appena staccavamo le mani, quello tornava a ragliare, come per mettersi in sintonia con tutti gli altri muli che si lamentavano con voci altissime nella bufera, contagiandosi l’un l’altro in incessante rimando e forse a loro volta contagiati dall’odore della nostra paura, che filtrava oltre la barriera del gelo superando il loro stesso afrore; tanto alte, le voci, che a tratti quelle degli uomini si arrestavano, e un po’ sembrava che si placasse anche il vento, e tutti ce ne stavamo incantati ad ascoltare questo canto irrefrenabile, questa nenia a più registri, come una specie di canone obliquo che declinava la sua formula incantatoria in tutte le tonalità e variazioni, di inno alla fine che conteneva anche il nostro.

 

E ancora pensavo, anzi solo ora potevo pensare, o piuttosto: confusamente sentire, che la prima volta che ero veramente entrato in contatto con dei corpi morti, ancora troppo recenti perché li considerassi cadaveri, corpi che fluttuavano in una condizione intermedia di morti sì, e morti davvero, ma non del tutto, come se anche la morte fosse un processo e non uno stato, e a loro mancasse ancora qualcosa per portarla a compimento, per trapassare allo stato definitivo di cadavere, di materia inanimata che conserva sì traccia della materia vivente, ma come un’eco, una pura forma che viene avvertita appunto come pura, e quindi sull’orlo della impurità, sotto il costante attacco del cambiamento irreversibile, della scomparsa anche della forma, del ritorno all’informe di una materia che della vita non conserva traccia alcuna, quasi che la vita fosse stata solo un incidente di passaggio, fulmineo, insignificante... ero colpito dalla vaga sensazione, più che pensiero, che questo primo vero contatto era stato con i corpi morti di sconosciuti che, a parte minimi dettagli che peraltro allora non ero in grado di individuare, erano esattamente come me, e che anch’io ero come loro, vivo ma non del tutto, cioè morto ma ancora con della vita addosso, corpi che avrebbero potuto essere quelli di miei amici, o commilitoni con cui passavo le giornate e magari ero in confidenza, qualcuno che guardandomi magari pensava che, a parte minimi dettagli, era esattamente come me e infatti era già capitato che ci scambiassero l’uno con l’altro... e che tutti questi corpi che mi era stato comandato di soccorrere senza che io avessi potuto andare oltre reiterati tentativi che sapevo benissimo che sarebbero serviti a poco o nulla, e quel poco solo là dove la salvezza era già assicurata, e che comunque avevo effettuato con tutto me stesso perché andavano fatti, tutti, senza ometterne nessuno, nemmeno quello in apparenza più improbabile... tutti questi corpi sentivo che avrebbero potuto essere il mio, che erano identici al mio, lo sapevo, ne ero certo sempre più anche se non avevo avuto nemmeno il tempo di guardarli bene, di dedicare loro una riflessione, non dico una preghiera perché non pregavo allora come non prego ora, né di almeno commiserarli, preso com’ero dalla spinta del fare, stavo per dire dal dover fare, dal dovere di passare al prossimo, di provare se almeno con quello a qualcosa sarei stato utile, se un qualche risultato che non fosse la frustrazione e l’evidenza dell’assoluta impotenza sarei riuscito a conseguirlo. Anche minimo, impercettibile a tutti ma almeno non a me: un battito, un respiro, un occhio all’improvviso spalancato che sia pure per un attimo mi guardasse, anche senza dirmi niente, ma sì, sì, sono vivo, grazie a te sono vivo. O solo un lampo: sono vivo, e basta. Solo quello.

Nemmeno guardati li ho. Li ho soccorsi, manipolati, agitati, maltrattati, massaggiati, baciati, alzati, premuti, chiamati, coperti, bucati, spalmati, soffiati, stretti, scossi, ma non guardati: nemmeno visti. Ero troppo impegnato per guardarli, troppo vicino per trovare un angolo prospettico qualsiasi da cui osservarli. Gli abiti, la neve che cadeva o che alzavamo con i nostri movimenti, l’agitazione, l’urgenza, impedivano ogni osservazione che non fosse: respira/non respira, batte/non batte, qualcosa/niente si muove. E anche dei feriti non ricordavo nulla, allora, qualche ora dopo, ma già qualche attimo dopo averli soccorsi, perché una volta dati gli aiuti elementari indispensabili, verificato che non c’era pericolo immediato, fatti trasportare o scortati personalmente al coperto, al caldo e al sicuro, c’era sempre qualcosa di nuovo da fare, qualcuno da accudire, qualcun altro da raggiungere, una risposta da provare a dare, senza indugio, veloce, anche a costo di urtare chi scavava, scavalcando chi si era seduto, evitando di travolgere chi se ne stava fermo in piedi a guardare chissà dove pensando chissà che. E quindi nonostante mi sforzassi, non riuscivo a richiamare alla mente nessun lineamento, non dico un volto intero: neppure un dettaglio. Ferite visibili non se ne vedevano, sangue nemmeno, o pochissimo, e comunque non ricordavo, come non ricordo ora, e se anche ricordassi non ne parlerei, non descriverei niente e nessuno. Basta la morte. Nessun orrore che distolga il pensiero. Già da subito, appena ho provato a ricordare, non vedevo che una scena solo bianca, con il colore degli abiti, al massimo, o di qualche fronda o muro in lontananza che però la neve aveva velato, ingrigito e come assimilato a sé. E se pure qualcosa di concreto, anche nel ricordo, non è ineliminabile, lo scempio non deve offuscare la morte, niente la deve nascondere.

 

Chi desiderasse leggere tutto il racconto, può richiedermi il pdf via Facebook o a questo indirizzo:

luigi-grazioli@virgilio.it

 



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