23/05/22

 
 
Commentando questa foto che non avevo mai visto, da poco mandatami da mio cugino (in seconda) Giuseppe,  avevo scritto, avendo sovrapposto il ricordo di chierichetto in chiesa a uno sguardo più preciso della foto:

Il primo a destra, con il turibolo che mi piaceva moltissimo roteare per aria.
Sono ancora lì.
***
(Grazie a Giuseppe Fumagalli, che me l'ha mandata. Non sapevo dell'esistenza della foto. Lui è quello tutto compunto sulla sinistra. Il portacroce è Virginio Mambretti. Il periodo immagino fine anni '50-primissimi '60)
 
Poi nei commenti Pietro Locatelli, un lontanissimo ex-allievo ormai attempato, uno dei primissimi (1977, Geometri Bergamo) ha scritto :
"Veramente sembra l'acquasantiera. Eri predestinato più a benedire che ad incensare, si vede..."
 
Che dire? Sarei molto contento se fosse così. Ma non ho nessuna autorità per benedire, se non l'affezione e l'etimologia: dire bene. Apprezzare. Ammirare. Amare, perché no?


 

06/05/22

Tanti primi amori

Di un autore famoso alcuni preferiscono il libro A; altri B, mentre C è amato dai patiti di Kafka (che però preferiva B). Io prediligo, ma è una predilezione tardiva perché l’ho letto molti ani dopo i primi tre, e dopo molti altri libri di racconti e poesia, D. In genere, se l’autore è buono e il lettore appassionato quanto un po’ smemorato, si preferiscono gli ultimi libri letti; dei cattivi si preferisce in genere il primo, quando era una scoperta, cosa che ha conferito freschezza e novità che si tendono vagamente a conservare anche quando tutto svanisce nelle nebbie della lontananza, e niente più si ricorda se non l’emozione del primo incontro, idealizzato, come un primo amore, ciò che difatti è. In letteratura, per fortuna, i primi amori sono tanti. Anche da vecchi decrepiti può capitare, senza per questo cadere nel ridicolo. E’ una cosa onorevole, anzi. Tanto che quando capita, uno si inorgoglisce. Pensa te!, si dice da solo. E sorride. E’ una buona indulgenza. Non una debolezza. La testa fa la cresta. Contenta. Bene!

 

05/05/22

Una prosa tranquilla

Sembra una prosa tranquilla, distaccata, governata sapientemente, con ironia, sovrana, nel mentre viene ad essere svolgendosi come un nastro sotto gli occhi sorpresi, e persino meravigliati, di colui che scrive e si guarda lasciandosi scrivere quasi che la scrittura sia autonoma, indipendente da lui, come sempre in gran parte è; e invece è percorsa, la prosa dico, da una sottile, invisibile quanto intensa, inquietudine, da incertezze quasi mai palesate, da sussulti e scarti in ogni direzione, ma tutti e sempre orizzontali, mai verticali. E’ un continuo susseguirsi, un trapasso, un dimenticare l’appena scritto o un negarlo, non esplicitamente, ma tramite la semplice successione, la banale contiguità e alterità di ogni nuova frase, delle parole che una dopo l’altra vengono a disporsi sul foglio, che si affacciano alla mente o mettono in moto, senza poterla arrestare, la voce.
Sappiamo tutti che è così sempre, quando si scrive davvero, quando non ci si limita, o ci si illude di limitarsi, a “comunicare” o a esporre il già pensato, l’acquisito, il consolidato (ma anche lì, poi…), salvo alla fine cercare di dare una specie di logica, di costruire – come per difesa contro l’informe, contro il formicolio frenetico dell’incertezza, lo sgretolarsi inarrestabile di ogni stabilità –, un’armatura di coerenza, di disegnare un filo, imbastire una forma, con rattoppi e rammendi a posteriori, spostamenti, montaggi, tagli e riempitivi, come se il vuoto potesse essere colmato da noi stessi, mentre chi può farlo, semmai, è solo un altro, chi legge, e anche lui solo per un po’, con tutte le incertezze del caso, nel timore di sfumare egli stesso, e di svanire. Come se questa non fosse la cosa migliore che può capitare. 

 

(Quella che cerca chi scrive, del resto. E che, mentre scrive e finché scrive, a volte trova.)