29/08/22

L'album degli incontri mancati di un soffio

 
Ho da tempo in progetto un album degli incontri mancati di un soffio.
Dovrebbe essere composto solo di foto sbagliate, scattate con un attimo di ritardo. Il tempo di vedere la cosa, di prendere la macchinetta, accenderla, puntare e scattare, o solo di puntare e scattare, pochissimo comunque, e la cosa è già sparita. A volte lasciando una scia, la traccia del movimento, un baffo informe nell'aria, per terra, in fondo al paesaggio. Nella mia testa, l'immagine è fissata al momento prima: tutto presente, nitido, vivo. Nella foto più niente. Lo sfondo, il mondo.
 
Le didascalie sarebbero tutte uguali, tranne il nome di ciò che manca. Poiché ciò che manca viene detto. Nominato il più delle volte. Altre solo indicato, in qualche modo significato. Così:
 
Fino a poco fa qui (o là) c'era.... (per es. un ciclista: canale con una curva sullo sfondo; un pettirosso: rami e foglie...; ecc.; oggi, ho visto un rapace, volato via subito: i rami alti di una pianta della palude)...
 
In chiusura metterei una foto del globo:
Fino a poco fa qui c'erano milioni di esseri di ogni specie che ora non ci sono più.
 
Poi un'altra, identica:
Ora ce ne sono milioni di altri
 
Specificherei che queste ultime due non sono opera mia, naturalmente (ancora non sono stato tanto in alto).

28/08/22

Borsisti (2013)


C’è questa curiosa genìa, numerosissima e in ulteriore crescita, di cripto suicidi, o quantomeno di pervicaci masochisti, mortificatori di ogni intelligenza, poca o tanta, ricevuta in dono alla nascita e poi coltivata a colpi di ambizioni malriposte, debolezze e fragilità progressive, immedicabili, nell’orizzonte della delusione sistematica, o tutt’al più di una sottoccupazione indefinita, e comunque mediocre nel raro caso che dopo lungo patire diventi stabile, molto al di sotto delle più modeste aspettative del più scarso tra i medici e gli ingegneri per esempio, che sono i borsisti e i ricercatori, massime nelle materie cosiddette umanistiche, che sono la spazzatura del moderno sapere, il refugium peccatorum degli sprovvisti di qualità, o di palle. Un mondo vero e proprio, ormai, nell’università di massa subordinata al mercato, che è quasi sempre quantitativa, e quindi vincolata al numero e alla susseguente mediocrità, ma che proprio per questo chiama moltissimi per poi chiudere la porta in faccia ai più. Chi non ha conosciuto, al di là delle centinaia di laureati disoccupati o adattatisi ai lavori più improbabili e meno gratificanti da ogni punto di vista (e non solo per mancanza di capacità e iniziative, come se tutti potessero inventarsi un lavoro o qualche stracazzo di start up), almeno una dozzina di borsisti (attuali, ex o aspiranti tali), spesso alla ricerca di uno straccio di argomento da studiare, magari marginalissimo, ancora poco sfruttato o utile solo a risparmiare un po’ di lavoro al titolare della cattedra, di interesse e importanza minimi, di sicuro non personale però.

Non c’è un solo cenno agli argomenti di studio o di insegnamento. Niente che faccia pensare a qualcosa che rivesta una parvenza di importanza per chi li studia o ne scrive: sempre qualcosa di avulso dai bisogni o dalle forze della loro vita, quando non addirittura in esplicito e feroce contrasto. Coltivatori del nulla che nulla producono. O dell’indifferente, che è poi lo stesso per chi lo coltiva e per chi dovrebbe consumarlo, a meno che non sia lui stesso un nullofago inveterato, un consumatore abituale di vuoto, che se non altro, essendo scarsamente calorico, non ingrassa.

 

***

Un lungo corteo di infelicità

Amicizie, o momentanei avvicinamenti, basati su complicità e bisogni momentanei e rivalità a ogni livello: concorsi, bellezza, sesso, immagine; legàmi di altra natura, nessuno.

L’incompiutezza di tutto e di tutti, come lo è quella degli eterni aspiranti, dei ricercatori a cui l’oggetto di ricerca importa solo come strumento di possibile ascesa, come titolo. Dottorandi, gente incompiuta, che sta per, che va verso, e non è. Uno sperpero di intelligenza, poca o tanta

L’inestinguibile cicaleccio giovanile accademico, infiorettato di gerghi locali o di salotto o solo di coppia, riprodotto nel lessico e nello stile (non si sa quanto volutamente), perché tutto poi in fondo si amalgama nel tutt’uno del brusio informe e vuoto. Un tripudio di intelligenze medie, e però presuntuose, ciascuna convinta di capire tutto o quasi e nient’affatto riluttante a giudicare, legittimata dal titolo o dal ruolo. La massa del personale docente dell’università di massa (accoliti, tirocinanti e aspiranti inclusi), dove il livello di tutti è crollato, piùchemediocrizzato: tutto, anche quello dei docenti, quanto meno nella percezione che hanno di se stessi; o anche il loro, esclusi i compari e i sodali presenti finché lo sono (presenti nel faccia a faccia, dico).

 

Il rifiuto dell’accademico visto come il pericolo maggiore (come impostazioni e ambizioni di scrittura e di pensiero: non come titolo, ovviamente, che quello anzi è il vanto per chi lo è e l’aspirazione o l’invidia per gli altri). Aspirano tutti a essere scrittori, narratori, saggisti: tutto tranne che accademici. Ma studiosi seri, sì, certo: onniscienti, nel loro territorio piccolo o grande che sia, con incursioni di infallibilità anche fuori: nel giudizio, se non nelle competenze.

 

Invidie, malvagità, meschinerie: dinamiche che si ritrovano, identiche, in ogni sottoscala, in ogni tana; anche se poi attribuirgli una valenza più ampia, non si dice universale, è piuttosto difficile. L’ambizione c’è, comunque.

 

23/08/22

Tiziano, Resurrezione (1545)


Di primo acchito vedo solo le piante dei piedi poggiate su niente. Sembra su una nube e invece no. Il pavimento trasparente ipotizzato da chi mi ha appena mandato la foto, lo mettiamo noi, quasi per moto spontaneo, per leggere l’immagine, per non perdere l’equilibrio e farci risucchiare dalla vertigine; invece lì non c’è niente. Una propulsione interna, una forza invisibile spinge il corpo verso l'alto, potente, come dimostrano i panneggi e la bandiera svolazzanti. E poi è interessante che dei quattro soldati due siano svegli certamente da poco, mentre il terzo porta un braccio sugli occhi come per scacciare, per difendersi dalla luce che ha appena interrotto il suo sonno; mentre il quarto dorme ancora pesantemente: testimoni sconvolti da ciò che è appena accaduto, forse svegliati dalla lastra tombale ribaltata con violenza, pesante com'è, distante dal sepolcro, dalla stessa forza irresistibile che spinge verso l'alto il Risorto, che non rinuncia, da parte sua, a un gesto un po' teatrale, che si direbbe di benedizione, e invece indica l'Alto dei Cieli, la fonte e la meta di tutto, a cui Lui appartiene e che sta per raggiungere ora che la sua avventura terrena è finita. Dietro l'aurora comincia a inondare di rosa l'orizzonte, mentre il Cristo, levato, è in piena luce, che però si direbbe emanare da lui, perché il sole è alle sue spalle, non ancora visibile… Il mondo è ancora in penombra. Chissà se accoglierà quella luce, che l’asta e lo stendardo affermano sicura vincitrice. Tiziano non ne dubita. Ma noi siamo incerti. Dopo 2000 anni dall’evento, dopo 500 dall’opera (uno stendardo, a sua volta), siamo ancora qui, come i soldati: quasi brandendo un’arma a difesa come quello sulla destra; o proteggendoci dalla luce abbagliante comparsa all’improvviso, come quello che gli è accanto; o cercando di guardarla, come la figura di schiena sulla sinistra, che rappresenta lo spettatore e forse gli suggerisce come comportarsi: di non distogliere lo sguardo; ovvero continuando a dormire imperterriti come il quarto, quello al centro steso a terra, forse per aver bevuto troppo, o caduti nel sonno dopo un lungo turno di guardia, o per aver vegliato in attesa di chissà che, che non è arrivato; o è arrivato quando ormai non eravamo più pronti ad accoglierlo; o è arrivato per altri, per tutti, ma non per noi.

19/08/22

L’invenzione delle cause. 1


La prima volta che l’abbiamo fatto, senza saperlo, cioè senza sapere cosa stavamo facendo veramente, e tanto meno che sarebbe stata la prima volta, è stato alle elementari. In terza o in quarta, non ricordo. Sono invece sicuro che, come sempre, l’idea è stata di Germano, non mia. Un nostro compagno di classe, mi pare si chiamasse Diego, sì, credo proprio Diego, un piagnone extralusso con dei genitori ancora più rompicoglioni di lui, che poi abbiamo perso di vista perché alle medie si è trasferito senza che nessuno ne avvertisse la perdita, almeno credo, tranne qualche cretinetta che era innamorata meno di lui che di come si vestiva, dei suoi capelli biondi, della sua aria ordinata da signorino... insomma, ‘sto Diego, ‘sto scassamaroni professionista, con lo scassamento atavico, inchiavardato in qualche profonda, catramosa cella genetica, o quel che è..., ‘sto Diego aveva perso una figurina.

La figurina, rarissima a suo dire, del suo calciatore preferito, Guaranì o roba del genere... Poltrinì... un pallone gonfiato già allora, anche se allora meno di adesso che sembra una mongolfiera alimentata con il gas del letame... ma di un letame profumato, di gran marca... un gran giocatore però, due partite su tre, perché la terza faceva flanella ciondolando per il campo con aria sussiegosa, di aristocratica degnazione, scuotendo la testa alle giocate maldestre, irrazionali, storte come le loro gambe, dei quei mangia a ufo dei suoi compagni, tanto per fargli capire che senza di lui non erano capaci di combinare un fico secco, e che non alzassero troppo la cresta, che l’unico gallo del pollaio era lui e nessun altro... che se quegli impediti avevano vinto qualcosa anche senza di lui, era stato solo per caso, o perché il presidente qui da noi contava parecchio... eccome se contava! ...e il campionato del mondo era stato solo una botta di culo che capita una volta nella storia della galassia, e poi più... e era capitato proprio a quei lazzaroni malfatti e deboli di comprendonio, roba da matti! ...che poi gli stessi impediti, o dei loro discendenti diretti, più degenerati ancora, ne avrebbero vinto un altro... ma questa è un’altra storia, la accenno solo di sfuggita, per pura malizia, che dà un gusto più piccante... e lui era là che si mangiava il fegato e doveva sorridere a destra e a manca, e benedire pure! Capitasse anche ad altri, ben più importanti e gonfiati di lui! ...gli crollasse il mondo sotto i piedi, a quei bastardi!

Va be’, quel Diego del cazzo non trovava più la sua figurina del cazzo del suo giocatore preferito del cazzo...  che forse, non era Poltrinì, adesso che ci penso... Poltrinì è venuto qualche anno dopo, 8 o 10, non importa, comunque il concetto è chiaro... e non la finiva, Dieghino, di tampinare tutti se per caso l’avevano vista... e supplicava, prometteva in premio due merendine o simili se qualcuno la ritrovava... che il suo album sarebbe stato incompleto e avrebbe perso di valore, perché adesso quelle figurine non erano più in vendita... e suo papà chissà cosa gli avrebbe detto... che era disposto a pagare, addirittura!, se qualcuno ne aveva un’altra e gliela vendeva... mentre tutti noi in classe sghignazzavamo neanche troppo sotto i baffi, tanto che la maestra ha dovuto intervenire e punirci, noi, e non quel piangina!, che adesso ci piaceva ancor meno di prima, con il compito di castigo che ci aveva fatto prendere. Allora Germano mi fa segno che deve parlarmi, ma non adesso, dopo... adesso siamo in castigo. Mi fa segno con il dito, ruota dito e mano e schiaccia l’occhio. E ride.

Sarà mica stato lui? Grande Germano! Gli rispondo con gli occhi, in silenzio, ma ho la bocca così spalancata che la maestra mi chiede se per caso ho fame, che sto cercando di ingoiare le mosche al volo, con tutti che ridono perché il senso dell’umorismo non ce l’ha nessuno in questa classe di asini, che ridono tutti a bacchetta... un’abitudine che hanno conservato anche oggi con la tv, più asini che mai, irrecuperabili... e: ho fame sì, penso io, ho fame di aria (credo di avere pensato), ma non gliel’ho detto perché il castigo comune già mi bastava, mentre Germano scuoteva la testa e, sotto il banco, ruotava di nuovo dito e mano e poi avanzava e ritraeva la mano aperta e mi indicava l’orologio che mancava poco alla campana e portassi pazienza. Io mica lo so cos’è la pazienza. Non lo so e non mi interessa, la pazienza del cazzo! Allora la pensavo così. Poi ho cambiato idea. E ora l’ho cambiata di nuovo. La vita incattivisce. Lei è buona, magari, ma fa questo effetto, va’ a sapere perché.

Germano non c’entrava, ma aveva la figurina incriminata, cioè non proprio quella di Diego, una uguale, di sua proprietà. Aveva iniziato anche lui la raccolta, ma l’aveva abbandonata quasi subito perché costava troppo o non gli interessava più. Lui è così, si entusiasma, parte in quinta, trascinando tutto e tutti, soprattutto me, poi si disamora altrettanto in fretta, e se non ci fossi io a spronarlo a continuare qualche volta, per puro puntiglio, lascerebbe ogni cosa a metà strada. La sua vita è così anche adesso, o quasi. La mia tutto l’opposto, o quasi. Lui fallisce perché lascia perdere, io perché continuo fino in fondo. Fino al muro! E mica per coerenza! Affanculo anche la coerenza. Per una forma di pigrizia come la sua, invece, ma di segno contrario. Forse è per questo che siamo rimasti amici per tanti anni, tra mezzi compimenti e mezzi fallimenti. Cioè tra fallimenti interi. Mi vien da ridere... Non faceva più la raccolta e quindi della figurina non gli importava un’acca... e poi lui teneva per un’altra squadra, nemica giurata, una squadra che aveva vinto qualcosa nel decennio precedente ma destinata a non vincere più niente in vitam aeternam amen, e che appunto per questo avrebbe visto crescere in proporzione i propri tifosi, perché così ciascuno trovava una ragione concreta al suo vittimismo, al suo sentirsi e essere davvero una vittima... tutta una bella serie di torti documentati da rivendicare e molti nemici con tanto di nome e cognome da odiare, che è una soddisfazione mica da poco... e aveva pensato, il Germ, di fargliela trovare, al Diego, la sua figurina del cazzo, e di vedere cosa succedeva. Di fargliela pagare, magari, a un prezzo più alto dei quattro soldi promessi, che per lui non erano niente... e neanche per noi, del resto, sia pure per motivi diversi: lui perché li aveva, noi perché non avendone ci divertivamo con altro. E così abbiamo continuato, del resto. A non averne, intendo. Ma anche a divertirci con altro, suvvia... A provarci, almeno.

Al ritorno dopo pranzo, prima dell’inizio delle lezioni, io avrei dovuto distrarlo e lui gli avrebbe infilato di soppiatto la figurina in cartella, attento a che nessun altro lo vedesse, perché in classe qualche carogna che fa la spia per compiacere la maestra non manca mai. Di sicuro non si sarebbero fatti pregare due cugini, nostri avversari in tutti i campi, due degenerati marci, entrambi innamorati della maestra... un angelo biondo capitato tra i banchi per caso, per un errore di programmazione del destino, che noi però vedevamo solo come un diavolo perché ci comandava tutti a bacchetta e guai al primo che sgarrava... una sventola che non ti dico, avremmo capito poi, con ammirevole ritardo... perché allora ci sembrava vecchia, come le nostre mamme: roba che aveva almeno trenta-quarant’anni! Poi, sistemata la figurina, saremmo stati a vedere cosa succedeva. Come minimo Diego si sarebbe preso un bel cazziatone per tutto il casino che aveva messo in piedi per niente! Per avere accusato a vanvera i suoi compagni innocenti! Per avere stressato la maestra e averla indotta a dubitare di tutte quelle mammolette! Già ci godevamo tutti gli scenari possibili, io e Germano! Mi meraviglio di te, Dieghino! Tu, sempre così ordinato...! Se ci tenevi tanto a questa benedetta figurina, perché non ne hai avuto più cura, benedetto anche tu? E noi a ridere! Di soppiatto naturalmente, insieme a tutti gli altri, che a sganasciarci ci avremmo pensato all’uscita, tra noi due e basta!

Peccato che le cose non sono andate come preventivato: quando l’ex mater dolorosa ha ritrovato il suo tesoro, dopo un breve istante di contentezza (è schizzato fuori dal banco rovesciando la sedia addosso alla sua compagna – perché lui aveva una delle sue ammiratrici come compagna di banco: dei maschi non lo voleva nessuno –, che si è subito messa a frignare come una fontana... la più scema della classe... una giusta giusta per lui, fatta su misura! ...anche se in fondo a me non dispiaceva: al Germ sì, che però alle superiori qualche mesetto c’è stato assieme, tanto per gradire), ha visto nel ritorno della pecorella smarrita la conferma dei suoi sospetti. Qualcuno l’aveva rubata e ora, in preda al rimorso, l’aveva restituita. Sicuro come due più due fa quattro! Come sei per otto fa quarantotto e diviso due fa ventiquattro, ha detto lui, che doveva sempre fare il di più e lisciare la maestra, che insegnava per l’appunto aritmetica, e che difatti sorrideva compiaciuta. Basta poco a farle contente, le maestre: se la passano così male che la minima soddisfazione le manda in brodo di giuggiole. La nostra poi non rideva nemmeno a farle solletico. Non che fosse antipatica: non rideva per partito preso. L’autorità non ride. E voi zitti e guai al primo che si muove!

Aveva, il Diego, svuotato lo zainetto a casa, aiutato dalla mamma, prima che tornasse il paparino, perché quello capace che gliel’avrebbe anche suonate... per la colpevole incuria (era gente che parlava così), la trasandatezza, il danno alla proprietà, al buon nome... L’avevano passato ai raggi x, avevano sfogliato libri e quaderni pagina per pagina, rivoltato tutte le tasche, le fodere casomai ce ne fossero di scucite, traditrici, pronte a offrire asilo a tutti i transfughi schifosi, alle briciole, alla lanuggine che attrae sporcizia e germi, alla polvere, alla moltitudine degli oggetti in fuga... E non avevano trascurato nemmeno gli abiti... si era spogliato (compagne che arrossiscono)... aveva frugato persino nella tasca nascosta delle mutande (compagne che avvampano)... si era messo nudo come un verme (compagne smaliziate che reprimono invano risolini)... e non aveva trovato niente! Nisba! Zero al quoto! E quindi, se ora la figurina era tornata all’ovile, voleva dire che qualcuno ce l’aveva riportata. La logica non faceva una grinza. Impeccabile. Aristotelica! La maestra approvava con lenti cenni del capo. Lui gongolava come un tacchino. Un colpevole ci doveva essere e lui l’aveva inchiodato. Il trionfo di Perry Mason! L’ispettore Colombo redivivo! Quella testa di cazzo di Kojak! Mancava solo il nome... i nomi... e quindi adesso chi è stato deve saltare fuori!

Non spetta a te, interviene la maestra; però Diego ha ragione: l’autore dello scherzo deve farsi avanti! Silenzio glaciale... teste che ruotano come pale di mulino... occhiate sospettose... sguardi pieni di interrogativi angoscianti... metafisici! Perché se nessuno si fa avanti, il castigo di stamattina vi sembrerà una vacanza! Nessuno che si muove. Sudore freddo a ondate! Una puzza incredibile! Chi è stato si deve prendere le sue responsabilità... non dico il colpevole... l’autore dello scherzo... o gli autori. Perché bisogna sapere che ogni atto ha le sue conseguenze. Non c’è azione innocente! (No, questo credo non l’abbia detto.) Forza, fuori il responsabile! ...e crescete un po’! È anche così che si cresce. Cioè, prendendosi responsabilità di cose che non si sono fatte, penso io, che però qualcosina l’ho fatta. Nessuno fiata, comunque. Tutti si guardano attorno sdegnati, alla ricerca del colpevole, ma nessuno fiata. Qualche occhio accenna a inumidirsi... la maestra li fulmina con uno sguardo... di conseguenza gli occhi si inumidiscono di più... secernono lacrime di propria iniziativa. (Vigliacchi!) Si piange a dirotto, da qualche parte. L’agitazione sale, incontrollabile... È l’isteria collettiva... il trionfo della fifa nera.

Allora Germano alza la mano. Lo sapevo che c’avevi messo lo zampino anche questa volta, Germano!, sentenzia trionfante la maestra. No, ribatte lui, io non ho rubato un bel niente! Solo che avevo quella figurina e visto che Diego non la smetteva di rompere le scatole a tutti... Attento a come parli!, sbotta la maestra; che linguaggio è mai questo!? Siamo forse in una stalla? Scusi... visto che Germano era disperato, ho pensato di regalargli la mia, ma senza dirglielo, per non essere accusato di qualcosa che non ho commesso. Non è vero, interviene il coglionazzo, quella figurina è introvabile, se me l’hai messa in cartella è perché me l’avevi rubata! E poi perché non me l’hai data di persona? Perché avevi la coscienza sporca! Zitto tu, comanda la maestra. Cosa rispondi? L’ho fatto proprio perché sapevo che non mi avrebbe creduto. Credevo che si sarebbe accontentato di ritrovare quella maledetta figurina e che avrebbe smesso di scassare i maroni a tutti! Ma come parli! Chi ti ha insegnato a parlare in questo modo? Portami il quaderno e stai punito. Chiamerò io tuo papà... non tua mamma che ti copre sempre... Non è vero! Taci!, convocherò tuo papà... perché è ora che ti prenda una bella lezione. Il Germ bolle di rabbia ma non profferisce verbo... piega la testa e maledice il mondo a labbra chiuse. Il mondo intero... il mondo noto e ignoto, vicino e lontano, palese e nascosto, fino all’ultimo straccio di atomo! Che non c’entra niente, forse.

Io assisto alla pantomima prima confuso, poi impaurito e infine sdegnato, come direbbe la maestra. Mentre gli altri tirano sospiri di sollievo, e qualcuno, i soliti invidiosi!, persino gongola, io mi sento invadere dall’indignazione. È un’incazzatura mai provata prima... l’anticamera della rivolta... la nascita della coscienza rivoluzionaria! Sono tutto scombussolato... il fenomeno è nuovo e mi trova impreparato, ragion per cui, non sapendo cosa altro fare, alzo la mano anch’io e, con voce tremolante ma alta, dico, tutto d’un fiato: È vero, non è stato Germano, la figurina l’aveva già, sono stato io a controllare che nessuno vedesse quando l’ha messa in cartella! Ho tutti gli sguardi addosso. Anche la maestra mi fissa in silenzio. E poi non è vero che la figurina è così rara, ne ho una anch’io! Sono allibito. Non è vero che ho la figurina. Cosa sto dicendo? Ma ormai la mia bocca parla da sola, va in automatico... Ce l’hanno tutti quella figurina del cavolo! Qualcuno l’ha anche doppia, solo che non vuole mollarla, tanto meno a Diego! Invento, vado a ruota libera... È il vento della creazione! Una specie di entusiasmo che mi travolge. La discesa dell’eroe nell’agone! L’istinto di morte! Sono più allibito che mai. Mi guarderei allo specchio, se ne avessi uno a portata di mano. Parlo nel silenzio generale e non so cosa dico... probabilmente sono tutto rosso, sono teso e rigido come lo pseudorighello quadrato della maestra sulla cattedra, la bacchetta mascherata, quello che sventaglia per minacciarci e che vorrebbe tanto usare, ogni tanto, non fosse che oggi non si può più... finché non sento l’urlo della maestra. Probabilmente è un po’ che cerca di zittirmi. Anche lei hai la faccia tutta rossa, mi sta prendendo per il bavero e mi sbraita sul muso di smetterla.

Adesso sì che la sento! Torno in me, chiudo la bocca e chino la testa. Mi verrebbe persino da piangere, ma resisto. Non posso permettermi questa figuraccia. L’eroe non piange. L’eroe alza la testa e guarda impavido il volto sfigurato dell’aguzzina, le vene gonfie del collo, le mani che continuano a strattonarlo per il bavero in preda a una frenesia inarrestabile... E questa sarebbe una bellezza!, penso. È solo una mentecatta paranoica e perdipiù frigida (ho imparato l’espressione da poco, da un amico di mio papà, con riferimento alla ex-moglie credo, e ne ho preso diligente nota pur non avendo capito cosa significa: perché suona bene, e ampliare il repertorio delle offese è sempre utile, ci fai sempre un figurone). Sconfitto dalla forza, trionfo nello spirito! Non lasciar trapelare nessuna emozione!  Figura ritta, inflessibile! Sguardo sdegnoso! Lo sdegno è l’ultima arma dell’eroe. L’arma segreta, invincibile. Lo sdegno, il sarcasmo, la nobiltà.... quella roba lì.

In conclusione: Diego si è preso la sua bella soddisfazione di vederci umiliati; suo padre voleva denunciarci al tribunale dei minori, ma gli hanno riso in faccia; Germano si è sorbito una ramanzina tanto per la forma, perché i suoi gli hanno creduto e non hanno dato importanza a quello che loro hanno interpretato come uno scherzo da ragazzini; io mi sono guadagnato una sberla da mio padre, una sola, l’unica che mi abbia rifilato in tutta la vita, che però mi ha fatto volare dal salotto al balcone. Come Superman. Me la ricordo ancora adesso, e fortuna che la portafinestra era aperta.

 

 ***

L’invenzione delle cause (prima del 2010 - recuperato il 19-8-22)  (cap. 1. Le fesserie peggiori sono quelle che hanno le radici più lunghe.)

 


 


04/08/22

La sedia vuota (30 aprile 2019)


 

 

Ero lì a Bergamo alla Fiera del Libro, l’altrieri, a sentire Antonio Prete, e accanto, a destra, c’era seduta Federica, mentre la sedia a sinistra era vuota. Ascoltavo quello che Prete diceva, e a un certo punto mi sono voltato automaticamente a sinistra per fare un commento, ed è stato solo allora che ho percepito veramente come la sedia fosse non vuota, ma ingombra di un’assenza, quella del mio amico Lucio, in compagnia del quale sono stato tutte le volte che sono andato alla Fiera del libro o a qualche evento legato al premio Bergamo, di cui lui è stato uno dei fondatori e che ha diretto per almeno 20-25 anni, e mentre fissavo la sedia sorpreso, sgomento, il suo vuoto è trasmigrato, con tutto il suo ingombro e fragore, dentro di me, provocando un cedimento della cassa toracica, con la conseguente caduta dei polmoni e del cuore, e del respiro e delle pulsazioni, contro le viscere, appesantite come se tutta la materia ne fosse stata compressa e l’aria aspirata, in alto o in basso non so, fuori, chissà dove, e mi è venuto un magone, un magone…

E mi è venuto in mente, dopo, che anche a Federica, tra qualche anno, speriamo molti, guardando a sua volta una sedia vuota accanto, verrà magari il magone, anche se le auguro che sia breve, e leggero, e poi, pensando a quello che ho scritto qui, che sorrida.