24/09/19

Episodi della vita dell’uomo che saluta alzando l’avambraccio di scatto (l'ultimo è inedito)



1
C’è questo signore sui 45-50’anni di media statura, il corpo snello, i capelli castani, i lineamenti regolari, che stranamente incontro solo quando non c’è nessuno in giro, almeno che io ricordi, e che vedo da lontano venire verso di me con un passo regolare, un po’ meccanico, gli occhi spalancati fissi su qualche punto lontanissimo davanti a lui, o dentro, tanto chiuso in se stesso da far dubitare che abbia mai visto davvero qualcosa, e quindi nemmeno me, quando mi incrocia, e che pure, se sono io a guardarlo, alza di scatto l’avambraccio destro, come spinto da una molla, tenendolo addossato al corpo, il palmo della mano in avanti, le dita serrate le une contro le altre, chinando impercettibilmente la testa (a meno che non sia una proiezione mia), senza espressione, ma come chi si arrende, a cosa o chi non si sa, e poi prosegue con lo stesso ritmo, allontanandosi senza una parola. Altre volte invece mi passa accanto e se ne va con quella sua andatura monotona, il corpo rigido, non dando segno di aver nemmeno notato la mia sagoma, lo spostamento d’aria prodotto dal passaggio, l’ombra che il mattino proietta su di lui, come se io fossi un fantasma. E anche meno. Niente.
Nessun gesto, nessuna occhiata, nessun cenno, nemmeno l’abbozzo di un saluto, una sillaba, un sibilo, l’eco del respiro. Eppure già a scorgerlo da lontano un po’ mi inquieto, lo sento, in modo vago, minaccioso, non per qualche violenza che venga da lui, ammesso che ne sia capace, e che se ne accorgerebbe quand’anche la esercitasse, ma da me, da qualche punto che da grandi lontananze (eppure accosto, appena dietro una parete fragilissima) si risveglia al suo apparire e che, per quanto io cerchi di rassicurarmi, mi fa paura. Una paura che mi avvelena ogni fibra e mi fa vergogna.
Mi sento chiamato in causa senza appello, sollecitato dall’assenza di sguardo, più ancora che come mi capita con i ciechi, perché qui gli occhi hanno la potenzialità di vedere, vedono senza vedere, vedono senza vedersi vedere, non vedono ciò che guardano. Non: vedono ma non guardano, bensì: né vedono né guardano, sono spalancati sull’abisso del vedere, del puro vedere senza soggetto né oggetto. Quello in cui potremmo cadere da un momento all’altro, e forse in cui sempre siamo.



2
Ieri mattina quando ho incontrato l’uomo che saluta alzando l’avambraccio di scatto stava maneggiando per prendere una sigaretta direttamente dal pacchetto senza toglierlo dalla tasca. Alla fine c’è riuscito, proprio mentre ero giunto quasi alla sua altezza, tanto che ha rimediato al ritardo del saluto estraendo la mano in tutta fretta e alzando il braccio con uno scatto ancora più rapido e secco del solito con la sigaretta spenta tra le dita rigide, quasi stritolandola, ma nel farlo qualcosa gli è caduto di tasca senza che lui se ne accorgesse. Sorpreso dalla manovra, ho risposto al suo saluto con un buongiorno più sonoro del solito e solo un attimo più tardi mi sono accorto del pezzo di carta che svolazzava verso la polvere dello sterrato. Nel frattempo lui mi aveva già superato e io ho evitato di farglielo notare, con la scusa di non interrompere la sua andatura veloce e meccanica per qualcosa che certo non aveva importanza, un fazzoletto sporco o cose del genere (a volte mi tratto da anima bella), ma di fatto già pensando di lasciarlo allontanare fino a dopo la prossima curva per tornare io a raccoglierlo e vedere cos’era, nella speranza inconfessata neppure a me stesso di scoprire qualcosa su di lui. (E’ quando faccio il cinico che cerca di illudere il se stesso ingenuo, che sono davvero un’anima bella fino al midollo: il midollo dell’anima). L’idea, mentre mi chinavo a raccoglierlo e lo mettevo in tasca con un gesto furtivo che ora mi fa un po’ ridere (il 20 %) e per il resto mi imbarazza profondamente, era che avrei potuto restituirlo oggi o domani, o lasciarlo dopo avergli dato un’occhiata sul ciglio della strada dove era caduto.
Si trattava di un foglio a quadretti piegato in quattro con un margine un po’ slabbrato come se fosse stato strappato da un quaderno, riempito di sui due lati da una scrittura minuta e piuttosto fitta, che non rispetta le righe ma tende a fare una curva verso l’alto dalla metà in poi come se chi scriveva fosse in una postura scomoda, di lato, o il piano di appoggio fosse irregolare, ma tutto sommato leggibile, a parte alcuni brevi passaggi dove l’inchiostro non ha fatto bene presa o è stato sciolto in qualche macchia, di unto o altra materia che non intendo indagare.
C’è scritto questo:

C’è quest’uomo anziano, con gli occhiali e un cappellaccio in testa d’estate e d’inverso (diversi per materiale e colore, ma simili) che incrocio spesso sulla via sterrata lungo il naviglio o nel tratto asfaltato successivo, verso Groppello: io che salgo, lui che scende, mai il contrario. Cammina con passo spedito, a volte con gli auricolari o che maneggia il cellulare, altre con un libro in mano, che si affretta a chiudere quando mi vede da lontano, mettendolo in tasca o tenendolo nella sinistra quasi incollata alla coscia, come se questo bastasse a nasconderlo. Altre invece è così assorbito nella lettura che mi vede solo all’ultimo momento, come capita anche a me, che in questi casi lo saluto alzando di scatto l’avambraccio senza proferire sillaba, al che di solito lui risponde con un cenno della testa o, più raramente, con un buongiorno. Non è che io saluti tutti in questo modo, ma mi è capitato di farlo con lui un paio delle prime volte che ci siamo incrociati, forse sovrappensiero o per qualche maneggio in cui ero impegnato, e poi ho ripetuto il gesto ogni volta perché mi è parso di capire, da un lampo strano nei suoi occhi, che lo gradisse. Vai a capire perché. Forse gli piace questo saluto veloce e silenzioso perché non disturba la sua lettura, quella che continua nella sua mente anche a libro momentaneamente chiuso, o i suoi pensieri. Mi guarda quasi di sfuggita, come se mi vedesse sui margini del suo mondo pronti a inghiottirmi e dimenticarmi in un attimo, e saluta anche lui in modo veloce per tornare appena può alle sue occupazioni. E’ uno che immagina cose, temo… Temo che gli piaccia.
Se non legge, cammina con la testa china di chi esplora il terreno, più che dell’uomo depresso. Magari lo è pure, ma chi può dirlo? Oppure basta pensare per essere depressi? Non so. Allora lui è insieme depresso e attento, depresso e svagato, depresso e curioso, perché qualche volta che l’ho osservato in questi frangenti, mentre era intento, mi è parso che alzasse e muovesse la testa a guardare di là dal canale alla sua sinistra, verso gli alberi e le ville dell’alta riva, o giù verso la boscaglia e, sotto, il fiume alla sua destra, o in altro verso il cielo, le nubi, la luna, nei mattini che è visibile a ovest.
E’ in genere ben vestito, non certo con eleganza da occasioni ufficiali ma sempre un po’ al di sopra di quello che ci si aspetterebbe da uno che va a passeggio, mai in tenuta sportiva comunque, a parte i bermuda nelle giornate più calde, di discreta qualità comunque e accompagnati da camiciole di lino o da belle magliette polo dai colori ben combinati. E’ sempre ben rasato, con i capelli più bianchi che grigi tagliati corti, da quel che ho notato le rare volte che era senza cappello, e, come si suol dire, dimostra un po’ meno degli anni che ha o dovrebbe avere, che sono, o dovrebbero essere, un po’ di più di quelli che dimostra. Quanti di preciso non saprei. Sopra i sessanta ad ogni buon conto. Nonostante questo decoro esteriore che di solito è caratteristico di uomini che abitano con una donna che li tiene sotto controllo, o per una lunga consuetudine di vita, per dovere professionale (ha l’aria di essere un impiegato o piccolo funzionario in pensione), mi dà l’idea di essere un uomo solo. Totalmente, irrimediabilmente solo; e non tanto perché non l’ho mai visto in compagnia (qualche volta fermo a scambiare qualche breve battuta con qualcuno sì, però), ma per la sua postura complessiva, per come si muove: non nel modo spontaneo, funzionale, e quindi bello, o quasi, di chi si muove come è opportuno farlo in relazione a ciò che sta facendo, ma come per dare l’impressione, anche quando non c’è in giro nessuno che lo veda, o che lui veda che lo sta vedendo, di essere solido, felice (o press’a poco), sicuro e soddisfatto di sé.
Anch’io passeggio sempre da solo, ma lo faccio per respirare, per prendere una pausa da tutta la compagnia che mi sta addosso giorno e notte, che apprezzo e anzi amo tantissimo, ma che rischia di togliermi quel po’ di autonomia a cui mi sono assuefatto fin dalla giovinezza. Lui invece credo che non abbia di questi bisogni. L’unica pausa a cui forse ambirebbe è quella da se stesso, di cui però sono certo che va orgoglioso. O che almeno sbandiera in tal senso, tanto che alla lunga probabilmente se ne è convinto lui stesso. Interrogato direbbe che meno gente ha attorno, meglio sta; che stare solo gli piace. Con tutto che, quando l’ho visto parlare, mi è sembrato gradevole e gentile. Ma a sembrarlo sono capaci tutti. Meglio che non fare nemmeno finta, in ogni caso. Un amico che una volta gli ha chiesto come mai camminasse sempre a capo chino, anche quando non leggeva, che peso gravasse sulle spalle o nella testa, ha risposto: “Niente, sto solo controllando la strada per non inciampare. Guardo i sassi, gli esseri viventi nell’erba, nell’acqua o sui muriccioli. Ho le spalle un po’ curve sin da piccolo. Me lo diceva sempre mio papà (che da vecchio era diventato quasi gobbo)...” 
Sarà, ma io qualche sospetto lo nutro. Per esem-”.


La scrittura sul verso del foglio finisce con questo mozzicone di parole. Forse c’è un altro foglio su cui continua, forse il signore che saluta alzando l’avambraccio di scatto si è stancato di scrivere o ha perso interesse per l’argomento. Non mi sento di biasimarlo.
“Proprio così”, ho pensato di scrivere io nella riga sotto, di quadretti tagliati a metà, con la mia scrittura altrettanto minuta, dopo avere a fatica decifrato questo presunto, inaffidabilissimo mio ritratto, perché è di me che si tratta, non c'è dubbio. Ma poi ho deciso di limitarmi a riportare il foglio dove era caduto, in modo che fosse visibile ma non esibito, come è consuetudine con le chiavi o altri oggetti trovati per terra, che vengono appesi in bella vista a un ramo o appoggiati su un paracarro o a una colonnina del guardrail. Ci sono andato un po’ più presto del solito per non incontrarlo, poi ho fatto un lungo giro su un percorso diverso e quando sono passato di nuovo di lì il foglio c’era più. Forse l’ha preso lui; forse un altro dei rari passanti su quello sterrato; forse è volato via. Forse non è vero niente. A parte il vago senso di amarezza che mi sfarfalla tra i lobi frontali e l’esofago, che potrebbe però derivare da tutt’altro e non mi abbandona.

3
Era tanto che non incontravo l’uomo che saluta alzando l’avambraccio di scatto. Oggi non l’ha fatto. Quando l’ho visto da lontano che mi veniva incontro, mi sono come preparato a un cenno di saluto. Un sorriso no, sarebbe stato troppo; nemmeno una parola a voce alta, un saluto esplicito, convenzionale. Sono sempre imbarazzato quando l’incontro, ho paura di infrangere in modo violento, per lui, anche se per altri potrebbe essere impercettibile, la membrana protettiva che lo avvolge e separa dal resto del mondo, e così mi regolo di volta in volta, sperando di non sbagliare. Oggi mi è uscito una specie di buongiorno appena sussurrato, più un borborigmo che una dizione scandita chiaramente forse, ma comprensibile a chiunque ascoltasse, decifrabile come saluto, quanto meno, ma lui non ha mostrato di avvertirlo. Né di avvertire me, peraltro, la mia presenza, che gli era quasi di fronte e tra un attimo gli sarebbe passata accanto. I suoi occhi sono rimasti fissi davanti a sé senza il minimo scarto verso di me o qualunque altra persona o cosa vicina, spalancati con una tensione che a me sarebbe parsa dolorosa e a lui invece chissà. Le braccia ondeggiavano un po’ rigide, come le gambe, mentre i piedi pestavano il suolo con più forza del necessario, ritmati, come a riprodurre, o a produrre, un ritmo solo suo, che in qualche modo lo appagava, o che viceversa scaricava a terra per esserne meno squassato.


02/09/19

Nabokov, Lezioni di letteratura, Adelphi 2018 (versione completa)



“La letteratura non ha alcuna valenza pratica, salvo nel caso specialissimo di uno che voglia diventare, per quanto incredibile sembri, professore di letteratura”, scrive a pag. 197 di Lezioni di letteratura (recentemente riedito da Adelphi dopo la prima edizione Garzanti del 1992), Vladimir Nabokov che, forse sorprendendo se stesso, professore per amore o per necessità a un certo punto della sua vita lo è davvero diventato. E di certo, a dispetto del suo innegabile snobismo, non un professore qualunque, ma un ottimo insegnante, come stanno a dimostrare gli appunti che sono poi stati riuniti per comporre queste postume Lezioni (nonché quelle sulla letteratura russa, Garzanti, 1987 e quelle sul Don Chisciotte, Garzanti, 1989). E come testimonia anche, a dispetto del disprezzo per i critici (che, di nuovo con raffinata arte della contraddizione, non gli ha impedito di annoverare per un lungo periodo tra i suoi migliori amici americani il grande critico Edmund Wilson, quello tra l’altro di La ferita e l’arco e di Il castello di Axel per intenderci, per cui si veda la corrispondenza inedita in Italia), oltre ai volumi citati e alla monografia Nikolaj Gogol (bellissima; Adelphi, 2014), tutta la parte critica perfettamente funzionale alla narrazione contenuta nei suoi libri, nel commento alla sua traduzione di Puškin e, sia pure ribaltata in parodia, in Fuoco pallido.


Alla vigilia della sua ennesima partenza in seguito all’emigrazione forzata dalla patria a causa della Rivoluzione del 1917, stavolta verso l’America dopo l’Inghilterra la Germania e la Francia, l’ultima prima del ritorno in Europa, in Svizzera, della vecchiaia, Nabokov prepara la sua sopravvivenza in terra straniera sotto forma di un centinaio di lezioni sulla patria invece che porta sempre con sé e che non lo abbandonerà mai, la letteratura. Sono abbozzi già abbastanza rifiniti e tarati sui 50 minuti dell’ora accademica, che gli serviranno per il lavoro di insegnante che gli verrà offerto prima al college femminile di Wellensley e poi alla Cornell University, dove avrà tra i suoi studenti Thomas Pynchon (uno tra i pochi ad averlo visto, quindi, per quanto allora questi fosse un giovanotto tra gli altri, magari un po’ più bruttino a giudicare dalle pochissime foto note, che però è bello immaginare aver tratto lo spunto del suo futuro personaggio invisibile proprio dal contatto con il grande mistificatore russo), tra il 1941 e il 1957, a parte la parentesi ad Harvard, dove, mettendo a frutto una delle passioni della sua vita, è stato curatore della collezione di farfalle nel museo di zoologia comparata.



 Pertanto il lettore di queste Lezioni non deve mai dimenticare che, nonostante la loro grande leggibilità, si tratta di appunti, quasi mai sistemati (a parte quelli che confluiranno nel Gogol) né sviluppati in riflessioni critico-teoriche approfondite come in molti suoi libri, ad esempio nel capolavoro del periodo “russo” Il dono, dove la dimensione metanarrativa ha un ruolo di primaria importanza. Come per tutti i grandi scrittori, però, per quanto valida possa essere quella esercitata direttamente, la vera e decisiva critica letteraria è quella non contenuta, ma costituita dai loro libri stessi. E non mi riferisco all’intertestualità, in Nabokov quasi onnipresente, quanto alla struttura, lingua e forma delle loro opere “creative”, al di là spesso delle loro stesse intenzioni e elaborazioni esplicite, comunque di grande spessore nello scrittore russo.
Ma in queste lezioni Nabokov parla a un uditorio di studentesse e studenti in genere non molto attrezzati dal punto di vista teorico e anzi probabilmente già guastati dai pregiudizi del lettore comune o, peggio, dalla chiacchiera giornalistica e scolastica (quasi tutta, esclusa la sua). Con questa base chissà che magnifiche lezioni, tenuto conto dei commenti e degli sviluppi orali che nelle lezioni non mancano mai e che è improbabile che un uomo mordace e competitivo più o meno con tutti (si veda anche il suo côté sportivo), ma anche “magnetico” e “appassionato” (Updike) come Nabokov si sarà negato.  Lo immagino, e non è difficile anche senza aver visto sue immagini né letto le interviste di Intransigenze (Adelphi, 1994), che parla con distaccata benevolenza, effetto collaterale dello snobismo e del desiderio di comunque piacere e affascinare, elargendo giudizi sferzanti e digressioni divertite e maligne senza darlo a vedere, per i pochi in grado di capire, sebbene senza disprezzo per chi non ci arrivava (erano giovani, erano innocenti, erano belli).

Questo a dispetto del fatto che nella sua ultima intervista (riportata nel numero monografico che gli ha dedicato “Riga” a cura di M. Sebregondi e E. Porfiri, n. 16, Marcos y Marcos, 1999), per giustificare il fatto che le concedeva solo scritte, aveva detto (scritto): “Io non parlo in modo fiacco, parlo decisamente male, parlo in modo disastroso. […] penso come un genio, scrivo come un autore eminente e parlo come un bambino”. Affermazioni di cui è doveroso dubitare. A Nabokov è opportuno non credere mai. Le testimonianze dei suoi studenti che parlano del silenzio assoluto e dell’atmosfera tesa e quasi magica in cui il grande incantatore si esibiva, stanno a dimostrarlo.

Il titolo originale di Intransigenze suona Strong Opinions, e forti (e speziate) sono le interviste e dichiarazioni in esso contenute lo sono eccome, contro la cultura di massa e i colleghi, in particolare. Colleghi… Insomma, gente così. Divertentissimo e irritante, il suo discorso è spesso intriso di una malignità che sfiora l’astio e talvolta lo raggiunge e oltrepassa, ritorcendosi contro di lui con cantonate anche gigantesche, come quella su Molière, ridotto a un commediante di terza categoria, o Faulkner per esempio (la sua idiosincrasia per Dostoevskij meriterebbe un discorso a parte, soprattutto alla luce dei tratti e delle influenze dell’aborrito scrittore che gli attribuisce in Nabokov e la sua Lolita, Passigli 2002, Nina Berberova, che lo aveva conosciuto).  D’altra parte, grande visione, grande cecità. La cecità dei grandi non è la nemesi della loro grandezza, il suo rovescio o necessario corrispettivo, bensì una sua componente fondamentale. Per vedere e mostrare il mondo in modo nuovo occorre gettare su di esso un fascio di luce di qualità e direzione mai vista, intensa quanto il buio attraverso cui si fa strada; occorre distorcere quello consueto, rivoltarlo e svuotarlo, e molte cose sotto gli occhi di tutti vederle male o non vederle affatto, salvo poi accorgersi che sono ancora lì con un altro volto, un’altra forma e spessore. Con forza però. Facendo sì errori, ma grandi, tanto che al loro stesso interno luccicano scaglie di verità insospettata. O indizi, imbocchi di sentieri, che verso essa, con un supplemento di distorsione e cecità da parte del lettore, possono far cenno e orientare.

Non ha, Nabokov, verso i concorrenti (verso gli adepti della stessa religione) nessuna condiscendenza o tenerezza (se poni il tuo ideale a un certo livello, o sei intransigente o non sei nulla), come non ne ha per quasi tutti i suoi personaggi, specie femminili (a meno che non siano le balie e le istitutrici della favolosa infanzia o, con riserva, qualche ninfetta o giovinetta che non ha perso tutta la sua innocenza, cosa che di solito arriva a grande velocità), quasi tutti “only a pawn in [his] game”, per dirla con Bob Dylan, un gioco che curiosamente dovrebbe avere per scopo di suscitare emozioni estetiche nel lettore mentre a lui, in apparenza, ne suscitano molto meno degli organi genitali delle farfalle (stupefacenti e affascianti, per carità…), che studia per anni con grande passione. E certo! Quelli sono vari, belli e non pericolosi, verrebbe da pensare in modo grossolano, mentre una donna lo è sempre, specie per quei maschi così stupidi da pensare di essere scafati e di poterle gestire e manovrare, come i personaggi dei romanzi, appunto. Chiedo scusa dell’illazione. Del resto “la fantasia è fertile solo quando è futile” (Gogol, p. 78).

Come si distendono invece il discorso e la sintassi e la lingua, che diventa morbida, affettuosa e ricca (fiorita) di osservazioni precise e spiazzanti buttate lì in un inciso o in alcune secondarie impreviste, quando parla di coloro che ama e illustra i momenti che per lui incarnano la “vera” arte! In particolare nelle pagine su Proust con il quale molto Nabokov si è confrontato, se non addirittura ispirato (non sia mai!) in vari suoi libri, come per esempio Ada o le originali memorie (per la forma) Parla, ricordo. Nessuno si ispira a nessuno. Ogni libro fa da sé. Legami, fili e parentele si tracciano per comodità e gusto personale, ma niente aggiungono (né tolgono, allora) a un’opera di valore. Ogni capolavoro è un mondo a sé, autonomo, compiuto, perfetto. Il resto non è niente. Quasi tutta spazzatura.

Le lezioni partono da Jane Austen, scelta su insistenza di Wilson dopo una certa resistenza sulle leziosità della signorina inglese, e si chiudono con Joyce (l’inarrivabile: quello dell’Ulisse però, che reputa il libro più grande del ‘900,  non del Finnegan’s Wake), passando per Dickens, Flaubert (uno dei modelli supremi della prosa nabokoviana: della memorabile descrizione del berretto del giovane studente Charles Bovary farà persino il disegno…), Stevenson (a sorpresa), e poi Proust e Kafka, con la dimostrazione che quello della “Metamorfosi” non è uno scarafaggio, che “naturalmente non ha senso” al suo esame di esperto entomologo, ma un coleottero dotato di “ali sotto la corazza del dorso”: cosa che ha dimenticato, con il suo autore, anche lui, come molti di noi del resto quanto alle nostre, altrimenti magari sarebbe volato via…

Le lezioni sono composte perlopiù di riassunti, fatti con grande arte, leggibilissimi (essi stessi, come tutti i riassunti, già esercizi critici in sé: basta confrontarli con altri possibili delle medesime opere), con osservazioni “tecniche” di stampo didattico per far notare allo sprovveduto auditorio alcuni puntuali aspetti di metodo, stile e struttura, temi e figure, come delle istruzioni per l’uso, seguite poi da un’ampia sintesi basata sull’antologizzazione dei passaggi più significativi, in pratica eccellenti reader’s digest, che a volte precipita incontro al finale, che gli interessa poco in quanto convenzionale (come per Jane Austen).


Molte delle categorie usate nell’interpretazione delle opere sono datate, anche se in buona parte possono essere trasposte nel lessico narratologico (si vedano le definizioni con definizioni di stile, intreccio, tema, struttura a p. 55), o del “new criticism” diffuso in quei decenni, come segnalato da Updike nell’Introduzione a queste lezioni, o meglio ancora dei suoi coetanei formalisti russi che certo avrà almeno sfiorato per quanto nelle lezioni non li citi mai, pur essendo uno dei suoi migliori amici in America Roman Jakobson: con i suoi capisaldi di ‘arte come atto individuale, non impegnato, autonomia del testo ecc.’, e dicono almeno altrettanto, se non più, sul suo modo di intendere la letteratura che sugli autori che illustra per la gioia di giovani e inesperte studentesse (e studenti) americane, tra le quali qualche Lolita appena un po’ cresciuta da incantare, sol da lungi beninteso, ci sarà pure stata; ma essendo Nabokov un grande scrittore e non un teorico che ci tiene a essere aggiornato, va bene anche così. Poi si può fare anche un passo ulteriore e adottare questo o quello dei suoi strumenti per applicarlo alla sua opera, tanto più che egli ambiva a un controllo totale delle sue creazioni, fino a definire i suoi personaggi “galeotti condannati ai remi”, e talvolta, appunto per questo, a rischio di apparire più simili a figurine bidimensionali asservite al volere tirannico del narratore che dotate di spessore e vita (narrativa) autonoma: burattini dai movimenti un po’ meccanici e, una volta capito il meccanismo e nonostante la cura dell’autore di predisporre trappole e sorprese come franchi tiratori dietro l’angolo, non di rado prevedibili, incanalati in vie discendenti, gravitazionali, tracciate secondo una logica narrativa prefissata e inaggirabile. La volontà di costruzione e coerenza è nel progetto e, poi, nella sartoria e negli aggiustamenti a posteriori, raramente quando si scrive. La scrittura, dice Nabokov, non deve sorprendere chi scrive, ma andare a comporre e incastrare alla perfezione i frammenti da cui è composta (Nabokov lavorava anche ai romanzi per schede autonome); non deve condurre per mano, o peggio: travolgere l’autore, ma essere maneggiata con perizia, strategicamente, in un gioco di specchi, finzioni, mise en abyme, false piste, rimandi, spostamenti, in uno spazio e tempo che è solo quello della finzione, l’unica realtà che per Nabokov conta, l’unica cioè che costruisce l’immagine di una realtà che poi, se si vuole, qualcuno può anche ritrovare fuori, sebbene non egli specifichi mai dove (perché non gli importa).

La sua prima preoccupazione era di impedire, smontandone i presupposti e irridendone le modalità, tutte le letture ingenue, sentimentali, realistiche, contenutistico-ideologiche e via di questo passo, fino a restare con l’unico vero nucleo e valore, quello estetico, basato sulla percezione sensoriale, sempre personale, imperniata sul dettaglio e sulla memoria, e sulla sempre sensoriale risposta: il brivido lungo la spina dorsale (il vecchio, tenero frisson) come principale, e forse unico criterio di giudizio. Criterio totalizzante che condensa in sé tutto ciò che la lettura può e deve dare, e tutto ciò che un lettore dovrebbe pretendere. Assoluto, per Nabokov; meno, per altri.

C’è uno speciale accanimento nel definire cosa non è questo o quel libro, o il romanzo o l’arte in generale. Per tutta la vita, a quanto pare, prima in Europa e ora in America (e per fortuna non nella Russia sovietica, dove a regnare nell’arte erano “aspirazioni fondamentalmente e compiutamente borghesi. […] la cortina di pizzo dietro la cortina di ferro”), aveva dovuto scontrarsi con tutta una serie di pregiudizi e equivoci critici, sia nel pubblico e nell’industria culturale che tra i cosiddetti addetti ai lavori di ogni livello e categoria, come capita a tutti del resto; solo che lui, che dell’arte, e in particolare della sua, aveva un’altissima considerazione, se ne irritava ogni volta. Proprio non ce la faceva a passarci sopra, a dover sempre spiegare il perché e il percome, come certo è tenuto a fare il bravo insegnante, ma non lo scrittore. Troppo aveva dovuto combattere per la propria arte contro le idee imperanti, e ogni sospetto di stupidità lo infiammava immediatamente con forza irresistibile. Amava la vita, ma preferibilmente senza i viventi. Quelli umani quanto meno. Quasi tutti.

(Eppure “Bellezza più compassione – questo è il concetto che maggiormente si avvicina a definire l’arte” ha scritto, e stavolta gli crediamo, perché quando parlava dell’arte abbassava ogni difesa. “Dove c’è bellezza c’è compassione, per il semplice motivo che la bellezza è destinata a perire: la bellezza muore sempre, la forma muore con il contenuto, il mondo muore con l’individuo”).


Date le peraltro comprensibili urgenze tra gli esuli dell’emigrazione europea per i quali la politica ricopriva ovviamente un ruolo fondamentale, per tacere delle direttive di regime in patria, e la forte incidenza anche tra i suoi ospiti statunitensi (Nabokov era convinto che in ogni abitante di quel paese ci fosse qualche goccia di sangue marxista o comunista, che nel frattempo deve essere in gran parte evaporato però), non sorprende che il suo bersaglio principale fosse l’importanza attribuita, in letteratura, alle idee e a tutta la varietà di implicazioni socio-politiche (e di mercato). Qualsiasi forma di impegno che esuli da quello linguistico e formale gli suonava posticcia e ridicola. Anche in uno scrittore come Proust, da cui si è spremuto tutto e il contrario di tutto (descrizione degli ambienti sociali, riflessioni filosofico-estetiche, ecc.)  Nabokov si focalizza principalmente sulla memoria e sulla “letteratura dei sensi, la vera arte”, contrapposta alla “letteratura delle idee, che non produce vera arte a meno che non origini dai sensi” (per questo, mentre ammirava senza riserve la prima metà della Recherche, ne aveva sulla seconda, sulle idee a suo parere troppo basata).  E infatti molti tra gli esempi che sceglie nelle ampie citazioni che costituiscono l’ossatura delle lezioni, in Proust e in quasi tutti gli autori affrontati, sono quelli dove la dettagliatissima capacità di percezione, di cose, espressioni, paesaggi e gesti, legata alla memoria fiorisce in pagine meravigliose, profumatissime.

A volte tali giudizi vertono su passaggi di tale accuratezza nella descrizione e analisi delle percezioni e delle sensazioni, che potrebbero risultare a certi sguardi (il mio per esempio) un po’ indisponenti, o sull’abile ricamo dei dettagli e della sintassi con derive che, come accade anche nei suoi romanzi, si prolungano rizomaticamente all’infinito senza che, a maggiore provocazione del lettore frettoloso e apprensivo a cui sembrano di proposito indirizzate, ci sia una vera necessità di chiudere dove chiudono e non prima, o dopo, a dispetto che poi la superiore abilità di Nabokov riesca a riportare tutto nell’alveo di un accuratissimo equilibrio interno e narrativo. Come in Gogol, i cui “personaggi [scrive con un’annotazione che a me pare straordinaria] vengono generati dalle proposizioni subordinate delle varie metafore, similitudini ed esplosioni liriche in esse contenute”.  (Cionondimeno a me è capitato in varie occasioni, in Lolita per esempio, di continuare da solo alcune frasi per qualche pagina mentale sull’abbrivio di quelle appena lette, a metà tra il divertito e l’irritato.)

Per Nabokov la letteratura è fatta solo di opere, sempre singolari, con poche e poco rilevanti relazioni con le altre opere dello stesso autore, e ancor di più con l’autore stesso, inteso come persona, e con il suo tempo e ambiente. Le informazioni storiche e socio-culturali negate come funzione (e attrattiva) primaria del romanzo, e per questo sistematicamente elise dai suoi nei quali il tempo tende a ergersi in una propria dimensione assoluta che interseca la storia solo per errore (o parodia, spesso denegata comunque), vengono recuperate come interesse e delizia secondari, finché il loro ruolo assolve anche ad altri scopi (caratterizzazione dei personaggi, momento e /o innesco dell’intreccio per far progredire il racconto…).

Le opere hanno però un grande e molteplice commercio tra di loro, come dimostrano i suoi stessi libri. Ogni opera è assoluta, ma gli assoluti, in quello strano universo che è la letteratura, non vivono senza comunicare tra di loro, nella mente di chi scrive e anche in quella di chi legge (in quella di Nabokov a maglie fittissime e a velocità vertiginose). Quelle di cui parla Nabokov, le uniche di cui mette conto di parlare, sono sempre opere di “geni” (parola ricorrente nel suo lessico, anche in relazione a se stesso, come già visto: mica ci abbasseremo alle manfrine della falsa modestia?), o semi- o quasi-geni, per i quali i rapporti con la tradizione e i contemporanei hanno scarsa o nulla rilevanza. Forse perché, ipotizziamo sulla scia di Borges, sono loro a creare il tempo da esse stesse confutato, e di conseguenza la relativa tradizione, il presente e il suo passato. Per la verità questo è ciò che fa anche il lettore, a modo suo. Nel suo piccolo. Come io nel mio. Ma questo nelle Lezioni non c’è. O meglio, c’è se adattiamo a questo contesto la speldida annotazione contenuta nelle Lezioni sulla letteratura russa, che “in realtà, di tutti i personaggi creati da un grande artista, i più belli sono i suoi lettori”. Ogni scrittore crea il proprio lettore; tutti, e non solo i grandi. I cattivi scrittori creano cattivi lettori, anche se nessun lettore sarà mai cattivo come un cattivo scrittore. Spesso i lettori sono migliori dei cattivi scrittori che vorrebbero crearli a propria immagine; raramente sono all’altezza dei grandi scrittori che pure li creano; sempre sono migliori di quando hanno cominciato a leggere però. Lo capiscono anche loro, per quanto non sappiano darne la misura. Un indizio irrefutabile è che li leggeranno ancora.

Il particolare è tutto: quanto ne esula, o pretende di indicare, significare e valere al di là di esso, e quindi di incorporarlo, ridurlo a esemplificazione o componente di un insieme più ampio e trascendente, è automaticamente rigettato. Per questo Nabokov lo evidenzia in ogni analisi, ricostruzione e giudizio, e di conseguenza si focalizza anche sul dettaglio stilistico e espressivo, diffondendosi per esempio sulle implicazioni dell’uso di uno specifico verbo o sostantivo (Flaubert fa scuola anche qui, e non solo come matrice di gran parte delle eroine nabokoviane, come è stato notato, per le quali lo scrittore russo ha certo meno compassione, o solo comprensione, di quello francese che sia pure celandola tuttavia spesso ne prova, e su cui riversa piuttosto un acido disprezzo, che a volte viene l’impulso, ma senza cadere nella trappola, di ritorcere contro di lui) e ne trae delle deduzioni sui caratteri di personaggi e ambienti ecc.: cioè li fa tornare a essere parte di una narrazione: stavolta la sua. Perché è l’occhio dello scrittore che, anche quando riassume e illustra a un auditorio sprovveduto, o ritenuto tale, sempre legge, (ri)scrive e narra tenendo il filo del racconto di riferimento e del proprio, che sta imbastendo in quel momento.

Niente segreti, cose concrete, lì, evidenti, sotto gli occhi del vero lettore, quello che non si lascia incantare dalle storie e dai personaggi, e non perde mai di vista come i libri sono costruiti e funzionano. Il lettore rilettore. Il lettore scrittore, insomma.

Nabokov ha tutto per dispiacere agli odierni alfieri del cosiddetto “ritorno alla realtà”, dell’“impegno” magari sotto forma di noir, o di letteratura “storica”, a volte degnissimi ma scritti quasi sempre “come se” (come se niente fosse, come se fosse una sceneggiatura o un reportage, come se non ci fosse una storia del romanzo, come se la lingua fosse plastilina, come se il lettore fosse un deficiente), e può mostrare anche un po’ di corda per un eccesso di sensibilità e di raffinatezza e estetizzazione, di attenzione al dettaglio, quasi assolutizzato, e insieme di immaginazione, di sintassi, di sottaciuto, di articolazioni e connessioni, di artificio e gioco, di maschere, di ironia e parodia e intertestualità, di abilità costruttiva, di minuzia, e infine per “un’eccessiva fiducia nelle parole” (come confessa il protagonista di Il dono). Ma per chi pensa che la letteratura consiste proprio in queste cose; che la realtà in letteratura non è un dato ma una costruzione di parole (“la realtà è una maschera”, scrive nel libro su Gogol) ma che proprio per questa via anche lo sguardo sulla realtà anche storica può essere più acuto, senza bisogno di essere sbandierato; che intelligenza e sensibilità (entrambe formidabili nel nostro autore) non solo non vadano per forza disgiunte ma possano anzi rafforzarsi a vicenda, e che solo da esse può venire il brivido lungo la schiena che garantisce la qualità di un’opera, e poi tutti i supplementi che ciascuno vorrà e potrà aggiungere, per costoro Nabokov era e resta insuperato, e leggere queste lezioni è un ottimo modo per conoscerlo meglio e entrare indirettamente e in modo gradevolissimo (credo che mi avrebbe fucilato per questo aggettivo…) nel suo laboratorio. Anche se, come sempre capita ai grandi scrittori, le sue idee, quelle che le Lezioni tradiscono, sono talvolta meno innovative e brillanti di quelle espresse dalle sue opere.



Su Nabokov in doppiozero si possono vedere anche questi articoli, rispettivamente di Daniela Brogi, Claudia Zunino e Laura Beani