30/10/23

Blanchot l’oscuro

Ha tanti modi di essere, la letteratura, e uno di questi, per me uno dei più forti e significativi, non importa quanto difficile, arduo da seguire e da reggerne il livello, è quello di Maurice Blanchot. Perché a volte è una cosa che fa un po’ paura, la letteratura come la intende Blanchot, che disorienta, che chiede molto, e quindi uno ha la tentazione di negarsi, ma poi è così contento di esser da quelle parti, che infine, sia quel che sia, ci entra e non vuol più stare in nessun’altra.

Si entra in essa come il protagonista di Thomas l’oscuro, il suo primo romanzo ora tradotto per la prima volta per il Saggiatore da Francesco Fogliotti, entra nel mare: l’acqua è calma, lui è un buon nuotatore, abituato a spingersi al largo, conosce il mare, se una cosa del genere è possibile: conoscere il mare, e chi mai?, e va avanti di buona lena, ma poi all’improvviso si alza una bruma scura, non si vede più niente, si perde l’orientamento ma si continua lo stesso, non resta che continuare, e sperare di approdare da qualche parte, non si sa dove, perché da qualche parte, se non si annega, si approderà. Tanto più che ogni tanto la bruma si apre e lascia intravedere una riva, a indicare un possibile approdo. Chissà dove sarà. Come sarà. Come vi si arriverà.

E come a Thomas e al lettore, così accade anche allo scrittore, tanto che vien da pensare che ciascuno dei tre sia un’immagine possibile dell’altro, qualcosa di più di una sua sfaccettatura, e che poi, anche quando avverranno anche altre cose nel libro, e arriveranno altri personaggi e si seguiranno altri pensieri, che ruoteranno attorno ad altri temi, come l’amore la morte la notte la luce e la loro compenetrazione in una profonda e veritiera identità pur nel suo apparente paradosso, sia sempre anche di loro che si tratta, quindi anche di me, che leggendo scrivo e scopro quello che sto leggendo, mentre chi scrive legge e scopre ciò che sta scrivendo.

È difficile raccontare di cosa parla questo strano e misterioso romanzo, che molti reputano il capolavoro di Blanchot, che in Italia è conosciuto soprattutto per la sua importantissima opera saggistica, mentre la narrativa, pur avendo conosciuto varie traduzioni, è dispersa in tante edizioni validissime ma talvolta di diffusione minore. Scritto negli anni ’30, il romanzo fu pubblicato nel 1941 grazie a Jean Paulhan in una prima versione che fu poi ripudiata, nel 1950, in favore di una seconda ridotta a meno della metà, quella ora tradotta, considerata definitiva dall’autore che ha sempre rifiutato la ristampa della prima, poi ovviamente effettuata dopo la sua morte. Gli editori, i filologi, i cultori, i professori, gli eredi... Uno può dire quello che vuole ma quando una cosa c’è, resta lì a disposizione di tutti, prima o poi. Noi non ce ne occuperemo. Come non ci occuperemo delle altre opere di quel periodo fecondissimo a cavallo tra gli anni ‘40 e ’50 di testi sia narrativi (Aminadab, La follia del giorno, La sentenza di morte, L’altissimo), che critici, molti dei quali raccolti in Passi Falsi e Lo spazio letterario, che pure con questo libro condividono molti aspetti della scrittura e alcuni temi fondamentali che poi prenderanno altri nomi (la notte, la morte, il neutro…) senza uscire dai confini qui tracciati, sia pure in modo oscuro.



E proprio l’oscurità, già dal titolo chiarissimo di questo primo romanzo, è messa da Blanchot sulla soglia della sua opera a inaugurarla e ad avvolgerla, e a indicarne uno dei nuclei. È quella del linguaggio in cui si confonde in continuazione ogni cosa che viene detta, anche quando l’espressione appare cristallina. È il fondo di ogni cosa detta, il buio al centro del giorno più abbagliante, la morte che sta all’inizio e accompagna (intride, costituisce nel loro intimo essenziale) i personaggi e il lettore fino alla fine, che non finisce mai.

La vicenda, se tale può essere definita, è ambientata in una stazione balneare, tra spiagge, boschi, bagni in mare e stanze di un albergo i cui ospiti sembrano, e forse sono, in buona parte affetti da qualche malattia, più suggerita che nominata o descritta, prossimi a una morte che tutti li minaccia e alcuni li raggiunge.

Un uomo solitario, Thomas, ha una strana storia d’amore con una donna di nome Anne, che poi gli rivela, con la sua morte, molte cose che lui stesso ignorava del loro rapporto e su di sé.

La morte, il morire, la sua impossibilità, e insieme “ogni istante della mia vita come istante in cui stavo per abbandonare la vita” percorre tutta la narrazione, tra momenti realistici, altri riflessivi, sogni e divagazioni, in un contesto che sarebbe tentati di definire fantastico se lo smantellamento e la dissoluzione dei confini di tutti questi generi discorsivi non fossero la procedura costante di tutto il libro. “Tutto il mio essere parve confondersi con la morte”, dice Thomas, “non avevo che la morte come indice antropometrico. È anche ciò che ha reso il mio destino inesplicabile”.

Questa prossimità sempre imminente della morte di derivazione esistenzialista, heideggeriana ma con inflessioni religiose e vicine al romanticismo tedesco, che caratterizza in modo esplicito non solo Thomas l’oscuro, ma tutta la prima produzione narrativa;  la sua presenza costante nella vita , che rende morti in vita, ma proprio per questo veramente vivi, vivi nella morte, è la stessa che Blanchot pone alla base della scrittura, di ogni scrittura propriamente detta per lui, e certamente della sua. Si veda in merito il grande saggio “La letteratura e il diritto alla morte”, in La follia del giorno, con  due saggi di J. Derrida e E. Levinas, tradotto per Elitropia nel 1982 da F. Facchini e G. Marcon, scritto negli stessi anni della riedizione di Thomas l’obscur di cui condivide alcuni dei temi più significativi.

A raccontare, se di un raccontare si tratta, è una voce narrante indefinita e sfuggente, che parla di un personaggio altrettanto sfuggente di cui niente si sa e poco si viene a sapere durante la narrazione (oscuro, appunto) se non attraverso reazioni altrui. La sua dimensione è quella della solitudine, dell’incapacità, o meglio dell’impossibilita di relazioni in cui si ritrova anche quando una sembra instaurarsi con Anne, per la quale però egli risulta inafferrabile nella sua prossimità come lo è per il lettore (e per la voce narrante, che lo scopre e lo insegue in continuazione senza riuscire mai ad afferrarlo), salvo poi ritrovarsi in una desolazione senza remissione quando la perde.

“Thomas non è nulla al di fuori dell’atto letterario che lo pone”, come ebbe a scrivere Starobinski (“Thomas l’obscur, capitolo primo”, in Riga 37, Maurice Blanchot, a c. di Giuseppe Zuccarino). “Se vi è qui una mancanza, in rapporto all’intelligibilità abituale dei racconti, è per farci sperimentare meglio il valore assoluto dei termini che ci vengono proposti” lungo tutta la narrazione.

All’inizio Thomas guarda il mare dalla riva nella tipica posizione teoretica, di chi osserva da fuori gli eventi, come nel topos lucreziano del naufragio con spettatore studiato da Blumenberg, poi vi entra. È abituato a nuotare al largo ma stavolta sceglie “un itinerario nuovo”. Avvolto da una bruma improvvisa, non vede più nulla e si perde. Decide di continuare a nuotare senza sapere se approderà da qualche parte né tanto meno dove. Potrebbe essere benissimo un’immagine della scrittura, e in particolare della scrittura del libro che qui sta iniziando. Lo stesso accade al lettore. Che non solo fatica a immaginare cosa potrà accadere, ma nemmeno l’orizzonte di cosa potrà dire la frase successiva, e talvolta non riuscendo addirittura a immaginare il nesso, o i nessi, con quella precedente, che spetterà a lui costruire, se proprio lo vorrà. E lo stesso pensa che capiti anche a chi scrive. Cosa farà? Approfondirà quanto appena detto in modo enigmatico? Lo chiarirà? Si dirigerà altrove? O sorprenderà proseguendo in linea retta? Perché anche questo può accadere. E allora il prevedibile diventerà a sua volta enigmatico. Ma anche così, questo produrrà al contempo per chi legge una specie di sollievo, una pausa; tuttavia sempre con l’aspettativa (con l’ansia: con il fiato sospeso, con la sospensione del fiato mentre ancora lo si sta tirando), ma anche con il desiderio, di essere di nuovo deluso, spiazzato, costretto a cambiare posizione, a scoprire se, e in che modo, ne sarà capace. Scrivendo il libro che sta leggendo in un modo non dissimile da chi lo leggeva mentre lo stava scrivendo.

È esattamente questa alternanza, fatta di sospensione e scoperta, di frustrazione e desiderio continuamente rilanciato, che si esperimenta leggendo i testi narrativi di Blanchot, già a partire da questo suo primo romanzo. Si è all’oscuro, come il protagonista eponimo, e ci si inoltra nel buio. E il buio è l’occasione per vedere, anziché esserne l’impedimento. A meno che, spaventati, non vi si getti uno sguardo per subito distogliersi e chiudersi la porta alle spalle verso la luce, il giorno (con la sua follia, come titola il bellissimo racconto citato). Se non che il giorno, allora, abbaglia, sia pure per un attimo, che mostra come la cecità sia al centro della luce, che è a sua volta buio, come in quello del buio soggiorna la luce. È un istante decisivo, un istante in cui appare la morte al centro della vita rivelando la propria essenzialità costitutiva, che consegna ogni individuo alla solitudine, da cui nessun possibile legame, come quello di Thomas con Anne, lo potrà liberare, e come avranno entrambi modo di verificare, vivendo la morte l’una, e morendo la vita, l’altro. (Le pagine dedicate alla malattia e all’agonia di Anne, a questo proposito, sono tra le più alte del libro. 96-7 e poi fino a 102)


Narra qualcosa, la storia di un uomo solo, che ha una relazione e poi torna a essere solo, ma soprattutto insegue, e cerca di dire, il venire alla luce delle parole che subito sprofondano nel buio a causa della loro necessità di dire e nominare perché nel farlo si condannano a morte a causa della loro essenziale parzialità, dell’isolamento e dell’interruzione che istituiscono estraendoli dalla totalità e dalla continuità che sole potrebbero dare un senso di verità alle cose e al pensiero da cui erano state messe in movimento e portate ad essere. Insegue cioè il processo di creazione, l’atto di nascita e le condizioni, dell’opera letteraria a cui le parole danno luogo (spazio) e che esse stesse sono. (Li indagano come nei testi critici, che a loro volta assumono a volte un’andatura di finzione, narrativa, per non condannarsi ai termini astratti che porterebbero a termine la loro stessa condanna a morte).

Le parole che servirebbero a dire esplicitamente una cosa, a specificare un’azione importante o addirittura decisiva, a illustrare una situazione o un evento, vengono sistematicamente omesse: al loro posto è tutto un fiorire di immagini, di figure (soprattutto retoriche) e di gesti e sensazioni e emozioni si direbbe senza referente, che acquisiscono un carattere astratto anche quando sembrano denotare qualcosa, e comunque indiretto: non potendo stare in se stesse, perché prive di consistenza, o meglio vuote, proliferano in ogni altra direzione che da esse si allontana solo per ricondurvisi dopo un largo giro, ma ritrovandola non più la stessa, mutata, o piuttosto negata. Nel frattempo il filo si tende e attorciglia, o si spezza, compie un salto, cambia percorso, e il lettore si smarrisce, abbagliato da illuminazioni e da ampie zone buie, che si scambieranno i ruoli e di segno o di posizione gerarchica, a una seconda e ad ancora successive letture. C’è di che restare incantati, ma anche molto irritati. La delusione non si tollera troppo a lungo. La frustrazione fa anche bene, ma deve trovare uno sbocco, un appiglio. Che però Blanchot si ingegna sistematicamente a negare. Per poi rilanciare il discorso oltre, aldilà, senza alcuna contraddizione.

Tutto ciò comporta la necessità di una lettura lenta, e non di rado di una rilettura che richiede una partecipazione attiva al lettore, e amplifica il suo statuto di co-autore del testo che già qualsiasi lettura in vario grado implica. Il lettore scopre sì leggendo, ma non lungo un percorso tracciato, bensì per via di connessioni e stratificazioni e diramazioni che gli viene richiesto implicitamente di istituire, che si ritrova lui stesso a istituire se, e finché, decide di restare nello spazio del libro: uno spazio a venire (per alludere a uno dei più noti libri di Blanchot), ma anche in divenire costante, che si riavvolge su se stesso e torna modificato dalle differenti azioni del lettore, come delle differenti parole della voce narrante.

Niente viene detto delle cause, delle motivazioni o delle fonti o di quanto succede ai personaggi o viene riferito come da essi pensato o immaginato, neppure quando, magari poco dopo, viene affermato l’opposto o qualcosa di logicamente estraneo o incompatibile. Quanto appena detto, o scoperto, o visto o constatato, viene subito rilanciato in un’altra direzione, oltre, con un passo al di là, che, giusta l’ambiguità dell’espressione francese usata per un importante libro di saggistica, dell’aldilà è anche una negazione (Le pas au-delà, Gallimard, 1973; trad. it., Il passo al di là, Marietti, 2000)

Cose che si possono dire solo lì, così, sul filo tra il dire eccessivo e il non dire niente, continuando comunque a parlare. Come se ogni volta, per citare un suo titolo dedicato a Celan, si fosse l’ultimo a parlare. Ogni volta ciascuno, e ogni libro, l’ultimo. Ma decisivo. Imprescindibile, come un’origine cancellata da cui ripartire.

Proprio oggi che la letteratura e la critica hanno perso gran parte del loro fascino e della loro importanza e autorevolezza e sono spesso ridotte a un chiacchiericcio sentimentale o al massimo umorale, è il momento di insistere su di esse, sul loro valore e sulla loro specificità, in qualsiasi forma si presentino, sulle domande che solo esse sono in grado di porre, e tanto più su quelle insensate, apparentemente, o senza risposta. Quelle che solo esse sono in grado di tenere vive, quando tutto spinge verso ciò a cui si può e deve trovare risposte, per tradurle poi in concreto, in fatti e in cose: già morte ancor prima di aver trovato una qualche realizzazione.

È nel momento in cui essa cessa di avere importanza, in cui quello che al massimo le si chiede è di intrattenere, di entrare nella macchina produttiva e produrre svago (necessario) e distrazione (imprescindibile), e quindi nel momento in cui non ha più niente da dire a nessuno, che la letteratura può liberamente parlare, dire ogni singola parola e parlare di ogni cosa e insomma di tutto, senza dover dire (il) tutto. È nel momento della sua massima inutilità che si palesa la sua necessità.

Non si tratta di una scaramuccia di retroguardia, nata dalla sconfitta e dalla nostalgia di pochi, ma di un’azione d’avanguardia, di una pacifica guerriglia asimmetrica, se si vuole, per il futuro di molti.

Non viene raccontato quasi nulla, e allora solo cose insignificanti che però acquistano, chissà perché, aloni giganteschi, mitici e producono echi interiori smisurati. Al loro posto riflessioni e analisi che hanno pochissimo di psicologico per quanto sembrino affondare nelle fibre più profonde dei personaggi, spesso da loro stessi ignorate. Chi le fa? Chi parla? Non si sa: a volte sembra il protagonista, Thomas, ma più spesso una voce anonima, neutra, che mostra di capire, o quanto meno di voler sviscerare, anche l’incomprensibile, e anzi soprattutto quello. I riferimenti concreti che ciascuna di queste (queste cosa? riflessioni? speculazioni?) che ciascuna di queste frasi, poiché tali in fin dei conti si riducono ad essere (tali in fin dei conti sono) dice, le rare volte che sono accennati, o descritti, sembrano perdere corpo e concretezza, diventare anch’essi astratti, sono occasioni, o elementi (meglio) delle frasi che di fatto le originerebbero. Si fluttua in esse, si nuota nella loro tempesta, come Thomas all’inizio del libro quando si addentra nel mare che sembra calmo e poi viene coperto da una foschia che tutto confonde mentre le acque si agitano all’improvviso e rischiano di travolgerlo.

Sono solo parole messe in fila che poi ruotano su se stesse, e si alzano e creano onde e gorghi che trascinano il lettore a fondo e poi lo riportano a galla, dove può per un momento lasciarsi andare, riposare sulla liscia superficie, per essere presto di nuovo inghiottito e sballottato. È letteratura. Solo letteratura. Letteratura e basta. E questo è tutto. E questa letteratura, per Blanchot, e per il lettore, è tutto. Deve essere tutto. O altrimenti non è niente. Anche questo è possibile. Molti ci vivono bene. Qualcuno no. Io, per esempio, sì. E sono certo di non essere il solo. Ho le prove.


 

 


28/10/23

Kim Young-ha, L'impero delle luci, 2013



L'impero delle luci è opera di uno dei più importanti scrittori sudcoreani, Kim Young-ha, ancora giovane (è nato nel 1968), le cui opere sono tradotte in tutto il mondo (da noi i racconti Cosa ci fa un morto nell’ascensore?, Trad.di Imsuk Jung , O barra O Edizioni, Milano,2008, p. 135, E.10) e “hanno ispirato film e serie televisive di notevole successo” (cito dal risvolto). Si presenta come una spy story ma ha l'ambizione, in buona parte riuscita, di essere molto di più: una riflessione sui rapporti tra le due Coree e sui relativi modelli di vita, anche il discorso è prevalentemente rivolto ai cambiamenti che il Sud ha vissuto negli ultimi decenni.

Niente di nuovo, per chi ha ormai acquisito la pretesa di thriller e gialli e compagnia bella di proporsi come formato privilegiato, se non esclusivo, di analisi della cosiddetta realtà (manifesta e soprattutto occulta, ovvio); con la differenza che qui la struttura e le tecniche di un romanzo di genere ben condotto, con radici peraltro in testi più nobili, e sguardo dettagliato su alcuni aspetti macroscopici della società della penisola coreana si motivano reciprocamente, a parte alcune sbavature nella gestione della narrazione e delle informazioni relative al passato dei protagonisti da parte di un narratore il cui statuto è a volte incerto, anche se in genere funzionale agli effetti della suspense (cosa che però a mio parere non basta: il rischio è che tali effetti decadano a trucchi risaputi), che si aggiungono ad altre, più strutturali, che nascono proprio dal desiderio di dire un po' tutto a dispetto dell'equilibrio narrativo. Desiderio peraltro benvenuto, per chi come me ignora quasi tutto di quei paesi e non fa certo lo schizzinoso se notizie e strumenti di comprensione che possano aiutare a conoscerli provengono da una spystory, specie se di livello come questa, invece che per le tradizionali vie ideologiche o mediante un'informazione stereotipa e sommaria.

Del resto, sia detto per inciso, la tenuta strutturale (la coerenza, le motivazioni di certe scene e azioni, la distribuzione misurata di ruoli e funzioni...), almeno secondo i nostri criteri che legano verisimiglianza e equilibrio a un certo rigore compositivo (per non dire a una certa rigidità, salvo poi l'allegro sbragamento di tutto il resto una volta salva questa forma di apparenza), mi sembra che non sia poi così fondamentale né per questo scrittore coreano, né per altri scrittori orientali che mi è capitato di leggere (anche se alcuni giapponesi contemporanei le rispettano con rigore: ma sono quasi tutti autori che hanno studiato in Occidente o ne hanno risentito in modo profondo l'influsso, come lo stesso Young-ha peraltro).

L'azione (come nel'Ulysses di Joyce, che è uno dei padri nobili a cui Young-ha afferma di essersi ispirato per questo libro: ma i prestiti non si fermano qui: i tre personaggi, la condizione di “esiliato” del protagonista – rappresentante della folta schiera di coreani del Nord fuggiti al Sud, numerosi in realtà spie come lui –, la moglie insoddisfatta...) si svolge nell'arco di un solo giorno, dalle 7 alle 7 del giorno successivo, ed è scandita ora per ora. Il tempo circoscritto ha lo scopo di concentrare l'azione e i vari percorsi che dal passato confluiscono a dare un senso a ciò che accade e ad accrescere la tensione relativa agli eventi e alle decisioni che il protagonista Kim Kiyong, deve prendere prima dell'alba per dare una svolta alla propria vita troncando con il passato prossimo e riallacciandosi a quello remoto, o viceversa tradendo quello originario per continuare il filo della vita che sta vivendo. Le decisioni principali riguardano solo lui, ma coinvolgono il futuro anche dei membri della sua famiglia, moglie e figlia adolescente, ognuna delle quali è a sua volta impegnata a prenderne altre nella propria sfera vitale, in relativa indipendenza reciproca. Questo porta a estendere i territori da descrivere e di conseguenza il ventaglio delle azioni e delle informazioni (dialoghi, notizie sulla storia e la politica coreana recente, cultura, cinema, letteratura, scuola, mondo del lavoro...) che vengono trasmesse al lettore.

Tutto prende avvio da un’email apparentemente innocua ricevuta da Kiyong, il cui significato e le cui implicazioni vengono rivelate poco alla volta, assieme alle informazioni sul suo passato che si allarga fino a diventare l'unico, insospettabile, orizzonte di comprensione, lineare nelle premesse ma complesso nelle implicazioni che un decorso temporale ricco più di pause che di episodi favorisce. La premessa è semplice: il protagonista è una spia della Corea del Nord alla quale poco o nulla per moltissimo tempo è stato chiesto e che proprio per questo ha quasi dimenticato di esserlo, nell'illusione di essere stato a sua volta dimenticato dai suoi mandanti, che invece con quella mail cifrata lo richiamano in patria già il mattino successivo, per quali ragioni e con quali scopi non si sa. E' il destino che si fa vivo all'improvviso, cieco, capriccioso, che qui assume la forma occasionale, ma terribile, di un regime la cui logica sfugge anche a coloro che lo hanno fedelmente servito. Forse perché logica non ne ha: se un sembiante di coerenza viene abborracciato, in questi casi avviene, più ancora che nella vita comune, solo a posteriori.

Chiarimenti a posteriori, tecnica dell'effetto ritardato, reticenza, distribuzione misurata delle informazioni comportano la necessità, per il lettore, di rivedere in continuazione non solo le proprie interpretazioni ma di ristrutturare a fondo anche la stessa percezione dei fatti, presentati come “tali e quali” senza mai esserlo, a maggior ragione quando la paranoia diventa metodo. Dico “diventa”, perché a trasformarla in metodo è l'ingresso a piccoli passi nel mondo, e nella dimensione mentale, dello spionaggio man mano che si rivela fondativo, anche se per un coreano le motivazioni di base sono certo (o erano) più solide che per noi: per lui, anzi, l'interpretazione paranoica dovrebbe essere un “dato” naturale e non una visione acquisita o che si impone a un certo punto (della Storia: e qui della trama).


La rivelazione dei vari aspetti del passato dei protagonisti è centellinata in modo da accrescere la tensione, ma insieme anche per dotare retrospettivamente di senso eventi di cui sfugge in prima istanza la ratio (le strategie per verificare se i cassetti della scrivania sono stati aperti), o per disambiguarli, nello stesso gesto con cui si arricchisce e completa il loro senso (la mail) o le relazioni tra i vari personaggi, anche minori, e le loro storie, che affondano in passati differenti e in buona parte ad essi stessi oscuri, dal momento che si reggono su silenzi e menzogne reciproche. Tutti sembrano chiusi nella propria separatezza: il non poter parlare (perché poi il farlo è certo che peggiora la situazione), il non riuscire a dire, la reticenza, il segreto che ogni personaggio racchiude, acuiscono l'isolamento che l'individualismo esasperato suscitato dai cambiamenti radicali e accelerati della società sudcoreana già favorisce. La mancanza di rapporti è simile, se non identica, a quella delle due Coree, da pochi decenni divaricate in due direzioni opposte e conflittuali, tenute ancora insieme, oltre che dalla geografia e dalla lunghissima storia comune, proprio dall'attrazione che nell'opposizione conclamata si rifugia, ma in modo sempre più tenue ormai, se è vero che tra le nuove generazioni a desiderare la riunificazione non resta che una minoranza che si va facendo sempre più esigua. I governi si spiano, ogni tanto si lanciano minacce, ma sembra una sceneggiata tenuta insieme dai rispettivi poteri alla quale le nuove generazioni rischiano di fare l'abitudine e di non prestare più orecchio. Come succede alla fine, alla figlia, che sembra intuire che tra i genitori qualcosa, forse anche di grave, è accaduto, ma insomma, lei di indagare il mondo incomprensibile degli adulti non ha voglia né tempo: ha la sua di vita da vivere, e deve andare a scuola. Certe cose, in fondo forse non sono così rilevanti.

 

Kim Young-ha, L'impero delle luci, traduzione e postfazione di A. De Benedittis, Metropoli d'Asia, 2013, pp. 374, E. 16,50


 

 

 

 

22/10/23

Achilleide x, Ettore, morti anonimi, donne (appunti)

 


E c’è nel campo avversario un altro eroe, altrettanto feroce, quando gli capita, come per esempio quando uccide il più caro amico del suo nemico, ma un po’ meno forte, che però attira più simpatie, perché mostra paura, perché tiene famiglia e sa che destino atroce aspetti la moglie e il figlioletto, e il padre e la madre e la città tutta, se lui sarà ucciso, come è evidente che accadrà. Eppure accetta di affrontare il nemico lo stesso, e questo gli fa onore; e gli fa ancora più onore che a un certo punto la paura lo invada e lo spinga a fuggire, perché avere paura è legittimo, è un tratto che nobilita anche gli eroi posti di fronte alla propria mortalità, al nulla che li attende appena oltre il limite del respiro, e proprio per questo tanto più onore gli fa che a un certo punto riesca a vincerla (non per nulla è un eroe) e ad accettare il destino, sia quel che sia. Tutto è scritto. Ma noi è sicuro che sappiamo leggere? E comunque a ciò che è scritto non importa che noi lo si sappia leggere o meno: accade lo stesso. E lui muore e tutti vedono dagli spalti la propria rovina, e noi siamo sugli spalti e dimentichiamo le sue efferatezze e vediamo solo la sua agonia, e la sua morte, e il dolore dei suoi cari e dei concittadini. E lo strazio atroce che subirà il suo corpo, la ferocia inaudita del suo vincitore, che non per questo sarà appagato, o solo pacificato. E poi il padre si umilierà per recuperare il cadavere, e al selvaggio uccisore si addolcirà un poco il cuore. Ma a nessuno si addolcisce il cuore per tutti i morti lasciati tra la città e il mare, e lungo il viaggio, e nelle regioni di passaggio e limitrofe saccheggiate e bruciate, tutta quella gente portata lì dai suoi signori e mandata al macello, soldati senza nome, solo singole unità di grandi numeri elencati nei cataloghi assieme alle navi, e per le donne schiave, che in quei numeri non rientrano neppure, se non le poche oggetto di predilezione e di controversie e di baratto, perché le donne, se non sono madri e spose, contano zero, e quelle oggetto di predilezione e baratto ancora meno di zero, a dispetto delle apparenze. Perché l’umiliazione per ciascuna ha il suo nome, senza quel minimo di pietà che il silenzio e l’anomia comunque assicurano: la loro vergogna, invece, l’ignominia che avranno subito, sarà per loro sigillata in eterno dal nome proprio e dal corredo di quelli dei famigliari, che le inchioderanno a una singolarità senza equivoco, incancellabile. Nemmeno sparire senza lasciare traccia sarà loro concesso.

06/10/23

Sandro Chia, La passeggiata

 



C’è un uomo con un coltello in pugno appostato accanto a una porta, come in attesa che entri qualcuno o qualcosa di minaccioso che egli intende colpire, per difesa o offesa non si sa. L’inquadratura è in diagonale, cosa che conferisce dinamicità drammatica all’immagine, che da una parte assomiglia a un manifesto di film noir degli anni ‘40 o ’50 o alle copertine dei primi gialli economici, mentre dall’altra rimanda a una scena famosa di un film di Cocteau del 1930, Le sang d’un poète, nella quale il protagonista si appresta a entrare in uno specchio al cui interno effettuerà un viaggio in un mondo inquietante. Intitolata La passeggiata e dipinta da Sandro Chia nel 1979, immediatamente prima del lancio della Transavanguardia (1980), l’opera è composta di due pannelli che si incontrano in mezzo al rettangolo scuro accanto all’uomo. La fenditura che lo percorre separa le sue due parti, che, pur nell’unità della forma, restano distinte sia a causa del loro colore, diverso anche se simile, sia dal fatto che sulla superficie di sinistra sono scritte alcune parole, che compongono una filastrocca che allude a tanti possibili sensi, nessuno dei quali certo. Nessuna versione esclude le altre, che convivono e si confondono nella duplice unità dell’opera. Il principio di non contraddizione è preso in contropiede o messo da parte. Tutto sta, può stare con tutto: l’indecidibilità non sospende il senso ma ne permette molti, compatibili con il filo che di volta in volta si individua, che va al fondersi con gli altri, indistinguibili nella dimensione del quadro, l’unica che conta.

Così la forma rettangolare può essere porta, tela, lavagna, specchio scuro, voragine, apertura, soglia, spazio di irruzione o anche di fuga, luogo da cui difendersi o in cui addentrarsi per passeggiare: l’ingresso in una zona oscura, conflittuale, l’invito a una flânerie pericolosa, paurosa e insieme eccitante, dove scoprirsi o perdersi. Perdersi per scoprirsi, ma anche perdersi per non tornare.

Attorno al rettangolo scuro c’è una parete molto luminosa di color arancione, percorsa da segni gialli che la animano partecipi della stessa tensione della scena, di cui assecondano e quasi rafforzano il senso di apprensione. Dietro l’uomo si staglia la sua ombra (termine che è un anagramma parziale dell’ultima parola graffita: “tromba”, la cui prima lettera, forse a suggerirlo, è nettamente staccata dalle altre), che lo raddoppia, ma anche lo continua e quasi si fonde con lui, come la linea di contorno che segna i tratti del suo volto e il profilo sul muto per poi proseguire non lungo quello dell’ombra stessa ma attorno al corpo, lungo il braccio destro, la mano e il pugnale kriss, la cui punta potrebbe anche aver tracciato le parole, così come potrebbe aver operato il taglio che separa le due metà dell’opera. Duplicità, raddoppiamento, unione, fusione. Il pugnale potrebbe allora essere un pennello, un gessetto, una matita, o niente; come niente potrebbe essere il riferimento a Cocteau, uno dei tanti prelievi di diversissima provenienza, delle citazioni che Chia usa nel suo modo insieme rispettoso (perché citare è pur sempre un riconoscimento, un omaggio, anche quando rovesciato in parodia) e dissacrante e divertito.

Sul braccio sinistro dell’uomo c’è la stessa linea serpentina del pugnale, un altro raddoppiamento, che torna in molte altre opere, per esempio nelle numerose versioni di Hand game, ma non nel contemporaneo Ossa cassa fossa, che con La passeggiata forma un’altra coppia, speculare ma con importanti differenze, come l’uniformità del colore del riquadro che è staccato dal pavimento, come una tela.

In entrambi la figura è immobile, ma piena di tensione, pronta a scattare in un corpo a corpo, magari solo con il proprio doppio acquattato nel buio, a sua volta in attesa di aggredirlo e di sopraffarla. “L’arte è un mostro che non si sa da dove venga e nemmeno dove sia esattamente. Ma l’artista ha la responsabilità di entrare nel labirinto e poi uscire con la sua testa”, per quanto debole, timoroso o menomato egli possa essere. Ma l’uomo di questo quadro è deciso, robusto e armato, e la menomazione aggiunge, e non sottrae, un che di eroico, e insieme di ironico, alla figura. Ciò che sta per sopraggiungere può essere pericoloso, addirittura mortale, ma l’uomo, l’artista, ha il dovere di non sottrarvisi. Anzi, si definisce proprio per questo. L’opera stessa lo esige, perché non esisterebbe senza che lui lo affronti, superando le proprie angosce. L’interno è l’opera, la porta una tela. Dentro di essa brulica, come i segni sulle pareti, il lato oscuro presente in ogni cosa che ci si appronta a fare, il mistero che l’opera e le parole e l’agire stesso sempre celano, la grande zona in ombra che può sempre, e anzi deve, affiorare, come una minaccia di morte (tomba) che esplode come una bomba, ma anche come un tripudio di gioia (samba, tromba) in cui scatenarsi a danzare.

 

 

05/10/23

Robert Walser - appunti per "L'assistente"



Anche qui egli era un bottone ciondolante che non ci si dà la briga di riattaccare, ben sapendo che la giacca non la si porterà più per molto. (I fratelli Tanner, 22)

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Come essere umano è certo stato un esemplare di grande interesse, che difatti non gli viene fatto mancare da parte di studiosi e curiosi (distinguere a volte è difficile); ma se è vero, come lo è, che a coloro che “vorrebbero trarre dai libri qualche insegnamento per la vita […] con mio grande rincrescimento devo dire che non scrivo per quel genere di persone, peraltro del tutto rispettabili”, non gli faremo il torto di usarli per capire la sua vita, né quello più volgare di usare la vita per parlare dei libri, come se questi non bastassero da soli.

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E ci sono queste bellissime descrizioni della natura, dei boschi, del lago, del cielo, dei monti e dei paesi e del venti e del sole e dell’acqua gelida in cui immergersi e nuotare, che poi, a ben guardare, non si vede niente: io almeno fatico a figurarmi qualcosa di concreto, ma bastano le parole a incantarmi. Mi figuro paesaggi che non saprei definire, solo flussi di emozioni che mi attraversano e mi fanno felice o mi commuovono, nei quali avanzo leggero a volte, e altre pesante, gravato di tutto il peso del corpo, che si fa sentire per ogni cellula e muscolo e organo, e non opprime, ma è un peso che sprigiona gioia, anche quando immalinconisce o affatica.

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Sparire è quello che fa, ma non certo come un’arte (L’arte di scomparire, come ha titolato un suo libro il filosofo Pierre Zaoui): sarebbe dare troppa importanza, prendere un’iniziativa forte, imporsi come soggetto agente in base a una decisione; invece lui non fa che allontanarsi da un luogo per andare in un altro, a volte lì accanto, dove però non si ferma 20’anni a spiare la vita della moglie come il Wakefield di Hawthorne, ma fa le sue cose alla luce del giorno, finché non si sposta di nuovo.

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Assistente è colui che assiste, principalmente nel senso di aiutante, subordinato, dipendente, servitore, impiegato, spalla, commesso, complice; ma è anche colui che si prende cura, che dà una mano; e infine colui che assiste, che guarda, che è fuori, distaccato, anche quando è dentro, coinvolto.

Tutto declinato al condizionale, nel caso di Joseph Marti, il protagonista del romanzo; tranne, quasi sempre, l’ultima accezione.

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“l’umiltà insolente, la modestia provocatrice” (Sauvat, 15)

“essere cortese come quando lo si è quando non si prova nulla” (cit. da  Sauvat, 94)

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Prestare attenzione ha un che di assai vivificante. La disattenzione spossa. (Il brigante, 21)

E tuttavia, spesso basta niente a distrarre i suoi personaggi, a dispetto dei migliori propositi. Il loro regno è la fantasticheria.

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Sempre sul bordo del corteggiamento, senza che mai provi non dico a varcarne la soglia, o a affacciarsi, ma nemmeno a pensarlo, o addirittura a desiderarlo. Gli basta la sua remota possibilità, fa ricorso a qualche vaga, e casta, fantasia, e è contento così. O così sembra. Come se andare oltre, anche solo con l’immaginazione, fosse per lui impensabile, prima ancora che impossibile.

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Essere grati a chi ci comanda, che ci solleva dal fardello di decidere (Cfr discorso signora Tobler)… di decidere cose di cui poco o nulla importa, e solo perché importa a coloro con cui si è in quel momento a contatto: così per un po’ si sa cosa fare, si tengono impegnate la testa e le mani (cfr passaggio su “attività servili e fisiche”).

“La dipendenza assicura l’estraneità”, come scrive Magris in Dietro le parole, 282.

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“I suoi personaggi – nella maggior parte dei casi suoi alter ego – si trovano sempre sulla soglia dell’età adulta, ma non la superano” (V. Ottoboni, “Verso l’insignificante”, in R. W. , ed. Joker, p. 15). Joseph Marti ha 23 anni

 

E’ vero. Al massimo giocano a fare i grandi, ma vorrebbero quasi saltare la maturità a piè pari per trasbordare dall’infanzia, scansando regole e responsabilità, con pochissimi vincoli (almeno nel desiderio), tutti provvisori e presto abbandonabili, alla vecchiaia che da quei vincoli si è liberata, riconquistando uno sguardo vergine sul mondo: non originario, ma di una verginità riconquistata, quella che disfa formule schemi e sapere perché li ha conosciuti e può liberarsene a ragion veduta, direi quasi con una leggerezza di secondo grado, una leggerezza al quadrato.

 


 

 


02/10/23

Pietro da Cortona, Adorazione dei pastori

 

 


 

Nell’Adorazione dei pastori di Pietro da Cortona, c'è una Madonna stupenda, con il collo e la testa leggermente inclinati nell’angolo millimetricamente esatto per manifestare la cura amorevole, e insieme l’ansia e la tristezza che tradiscono il suo sguardo pensieroso e dolcissimo; cura che rafforza il gesto del braccio sinistro, con la mano che sembra pronta a proteggere il remoto, ma sempre possibile scivolamento del Bambin Gesù dal pagliericcio leggermente inclinato su cui è adagiato. Un gesto delicato e rispettoso, avvolgente, carezzevole, pur senza toccare direttamente il corpicino luminoso su cui si chinano i pastori, uno dei quali alle spalle di Maria, sta conversando con un vecchio, quasi decrepito San Giuseppe. E’ proprio questa minima distanza, l’astensione dal contatto pur nella massima prossimità fisica e affettiva, a conferirle dolcezza, quella sua infinita tenerezza.
Mi fa pensare alla distanza che tengono le persone veramente premurose, raramente le mamme che l'amore spinge spesso ad eccedere, quando sono in apprensione per qualcuno ma non vogliono darlo a vedere, e allora lasciano che sia lui ad avvertire la loro presenza dovesse mai aver bisogno di qualcosa, mentre loro restano ai margini estremi della sua percezione, appena dentro, o appena fuori (meglio), che basta un piccolo spostamento degli occhi per vederle, semmai, mentre loro si prendono velatamente cura, cosa difficilissima se si vuole evitare di essere untuosi, e a volte si struggono, invisibili, fuori fuoco.