26/09/16

Due e due e due

Persegue fiaccamente un moderato abbrutimento. Bastasse l'intenzione. Ritorni di fiamma dovuti all'abitudine, peraltro sempre più radi, intralciano l'opera con speranze inopportune, ma confida che questa nuova abitudine le spenga una volta per tutte. In ambedue i casi nessuno si illude. Ci pensa però, guardando la tele. Un bambino che piange in cortile, con beneficio inatteso, lo distrae, subito seguito, non appena smette, da un altro che lo imita molto bene. Due benefici sono troppi però. Dalla finestra, in tutta naturalezza, entra un paesaggio di colori innaturali, prevedibili comunque. Le cose non lo sono meno; di più non possono fare, a dispetto della buona volontà. Pazienza. Preso atto dello scenario indegno, subito lo dimentica, invece di approfittarne. Difetta di senso tattico, inutile negarlo: un punto a suo favore. Dimenticare tuttavia potrebbe rivelarsi, alla lunga, la strategia migliore: nessuno la beve. Insiste saggiamente con la televisione, allora; il suo futuro è lì. Lì davanti, possibilmente senza vederla, o solo a sprazzi, quale utile sussidio; oppure ancora seguendo tutto con la massima attenzione, come ogni trasmissione merita. Il telefono una volta tanto non suona, non potrebbe desiderare di meglio. Se suonasse, però, sarebbe meglio ancora, specialmente se avessero sbagliato numero. In linea di principio non desidera intrusioni, ma vengono accettate con una certa riconoscenza, per quanto stizzita. Reazioni inconsulte non sono previste: sarebbero un regresso, l'indizio di una solidità, e non una sconfitta, certo preferibile. Non mancano pressioni, ad ogni buon conto. Tutto starebbe a sviarle, avendone voglia; ma è appunto questa che andrebbe più di ogni altra cosa evitata. In ambedue in casi perde, cioè vince. Per fortuna lo soccorre una scarsa resistenza; sforzi prolungati non li regge, né rientrano nelle sue ambizioni. La stanchezza, se non l'abbattimento, lo coglie sempre d'anticipo: un altro punto a suo favore. Non per questo indulge a riconoscenza scomposta. Se ne distoglie e passa ad altro. Armeggia una mezz'ora con la pipa, che non sa usare e comunque non gli piace, ricavandone sei boccate. Due e due e due. Benissimo.

24/09/16

I giovani ci stanno solo provando (1986)


 
La città moderna e industriale si è sviluppata tutta sul lato destro del fiume schiacciandovi contro il centro storico, che oggi appare come dislocato e fuori mano, seppur sempre intasato di gente, uffici, monumenti e turisti. Uomini e mezzi a motore di ogni tipo ne sono attratti anche senza una ragione specifica e vi si muovono sgomenti, percorrendo strade e marciapiedi come se fossero i margini di una ferita sulla quale ci si deve affacciare proprio per poterla rimarginare distogliendone gli occhi, ed emettendo suoni nei quali non riconoscono la propria voce, ma un'altra, che pure la comprende, per quanto non la giustifichi.
Basta però attraversare un ponte e già ci si muove in un altro mondo: al di là dell'alveo largo e secco infatti, un grande parco si dirama irregolarmente attorno ad un laghetto ad esso tanto proporzionato da potersi permettere un cospicuo isolotto. Su quest'ultimo, nascosto e insieme rivelato dal verde fitto di un boschetto, si intravede, invece del solito pretenzioso padiglione, un tempio colonnato di discrete misure, forse veramente antico o più probabilmente una ricostruzione su basi e con materiali già esistenti. Due strade ripetono con qualche negligenza i bordi del laghetto: una asfaltata, per i ciclisti, le carrozzine e la pubblica manutenzione, che lancia i suoi pseudopodi in tutto il parco verso i confini invisibili; mentre l'altra, piuttosto un sentiero, è lastricata per uno scomodo passaggio, visto che l'acqua per lunghi tratti la lambisce rendendola scivolosa. Ora il sentiero è occupato quasi esclusivamente da gruppi di ragazzini che, abbandonata la strada asfaltata evidentemente troppo comoda, o viceversa troppo ingombra, gareggiano su bici da cross coinvolgendo anche i pochi che più giudiziosi pedalano in fila indiana o a coppie, chiacchierando. Sul bordo esterno dell'asfalto invece, disposti in ordine sparso e nondimeno ritualmente regolari, gruppi di panchine metalliche con la vernice scurita e talora scrostata si confondono con la vegetazione, camuffati da sua naturale appendice.


Su due di queste panchine contigue, sul lato più vicino all'isolotto, dove l'acqua è più profonda, in posizione favorevole per godere il commovente simulacro del sole ottobrino, sei vecchi parlano tra loro in dialetto. Per la verità a monopolizzare la conversazione sono in prevalenza i tre della prima panchina; gli altri stanno per lo più in silenzio, guardano qua e là svagati, e comunque con scarsa intenzione anche quando un particolare sembra attrarli, e solo ogni tanto intervengono o biascicano commenti lapidari tra loro o verso l'oratore del momento. Il più silenzioso è il quarto, un tipo alto e magro dall'aria strana, un po' stonato nella compagnia, che pure senza di lui sarebbe monca. Porta giacca e cravatta blu, un cappello grigio e occhiali non da sole con montatura verde brillante sfumata verso il basso, semitrasparente. Non pensa ai fatti suoi, non è un intruso: ascolta silenzioso e basta. Gli altri di quando in quando si voltano verso di lui, lo guardano senza peso come si fa coi famigliari, ma non lo interpellano mai direttamente. Se fosse necessario interverrebbe, e gli altri lo ascolterebbero con attenzione, ma già ogni loro parola sembra presupporre la correzione del suo possibile intervento. Così lui può fare a meno di parlare e aspetta con pazienza il momento giusto perché indispensabile, che si intuisce sempre prossimo e che quindi non ha bisogno di venire mai.
Un altro, il quinto della fila, picchia ritmicamente, – ma è un ritmo tutto suo –, il bastone per terra, si gratta e approva ogni sfumatura del discorso, che pure lo interessa in modo alquanto relativo. Ne seguirebbe con la medesima attenzione, sempre approvando, qualsiasi altro. È il più vecchio, trema. Trema con un dispendio di energie, ed anzi con una vigoria persino superiore, si direbbe, alla gesticolazione esorbitante del più vivace della compagnia che, quasi per compensazione simmetrica, è invece il terzo: un tipo tarchiato dalla pelle rubizza e porosa, con un maglione a scacchi colorati, pantaloni terra di Siena, un foulard blu e la voce rauca screziata, tutta interruzioni e cedimenti da laringectomizzato, durante i quali il suo discorso continua ancora completamente significativo pur nell'assenza di suono, con l'esemplare perfezione delle parole non dette.

Passa il tempo senza veramente passare e gente va e viene senza veramente andare e venire. I ragazzi sulle bici da cross, autentiche promesse del nuovo sport, si rivelano più giovani di quanto non sembrasse: bambini, quasi infanti; per questo proseguono la loro gara gridando sempre più forte, oppressi da un'allegria isterica. Con passo adolescenziale le mammine spingono carrozzine silenziose, ragazze scipite si fanno confidenze tenendosi a braccetto con strette eccessive, gli studenti scoprono i mondi deserti di una stessa pagina. Amici raggiungono la compagnia delle due panchine: alcuni si fermano solo per salutare, altri sostano più a lungo. Uno su una bicicletta dal cambio complicato accentra per un po' l'attenzione disquisendo, forse stimolato dal passaggio di una coppietta peraltro insignificante e tra specificazioni di cui nessuno sente la necessità, da vero intenditore, sulle differenze non a tutti evidenti tra le donne di settant'anni, per le quali valga l'esempio classico di sua moglie che strappa un sospiro di compianto a quanti la conoscono, e quelle di trenta, alle quali accorda invece la sua entusiastica preferenza, certo spropositata. Un particolare riferimento merita sua nuora: stupenda. Ancora non capisce come abbia fatto quel cretino integrale di suo figlio ad accoppiarla. È una preferenza, quella per le trentenni, che una volta tanto si sentono tutti di condividere in pieno, nonostante le differenze individuali quanto a certe motivazioni che però nessuno ritiene opportuno approfondire. Solo il quinto, sorprendentemente, non è d'accordo! Lui preferisce le sedicenni, e anche meno se fosse possibile. Per quanto...
Un altro, approfittando di un'interruzione provocata dalle urla ormai disarticolate dei ciclocrossisti sempre più compresi della loro missione riporta il discorso su binari a suo parere, ma soltanto suo, meno accademici, riprendendo non si sa per quale ispirazione un argomento già avviato in precedenza da quelli della prima panchina, lui assente: la boxe. La nobile arte! La sua caratteristica principale è che parla in italiano, fluido e persino forbito a momenti, ma stonato nel contesto. Gli altri. Gli altri, con naturalezza e senza intenzioni polemiche, ripetono in dialetto i punti salienti del loro interrotto dibattito a proposito di un argentino e di un venezuelano, tale Figueroa o Quiroga, non è ben chiaro. Uno dei due ha trentatré anni, l'età del Signore, mica pochi per un pugile, specie se è passato professionista molto giovane e ha molto combattuto come usano da quelle parti, spinti dalla fame: quale dei due, questo è il problema.
Li distoglie dall'intricata controversia la sfilata di alcuni ragazzotti vestiti in fogge inconsuete, coi capelli colorati e spettinati ad arte e il viso sporco e pitturato a mascherare la loro età: straccioni; poi lo sfrecciare di due bambini in vena di speciali arditezze a filo d'acqua. Uno della compagnia (il primo, che spicca per i blue jeans nuovissimi con la piega inamidata e gli stivaletti marrone a punta, da cow boy) quasi controvoglia si alza per rimproverarli: c'è il rischio, se cadono in un laghetto, che anneghino. Mica esagera. Dove sono le madri? Mettono al mondo i figli e se ne fregano, ed ecco il risultato. Seguono commenti sui bambini e sulla gioventù in genere, ma di sfuggita, meccanicamente: urge tornare alla boxe, argomento molto più interessante.
Ognuno dice la sua e tutti la dicono contemporaneamente, in un crescendo di confusione che però non preoccupa nessuno. Discutono sulla decadenza del pugilato italiano, trionfo della poltroneria e della chiacchiera, ballerine prive di attributi contrabbandate per tecnici sopraffini, e su quali siano gli incontri migliori. Sono quelli tra pugili piccoli, è ovvio: quelli sì che picchiano accidenti! Mai che tirino il fiato, sempre all'attacco, impavidi, velenosi! Dai superwelter in su, invece, con qualche eccezione per pochi pesi medi, è tutta una lagna. I massimi poi, meglio lasciarli perdere quelli, sono solo bestioni foderati di ciccia lenti e noiosi che sparacchiano un paio di pugni a round e già sono stanchi. Questo non si discute. Nessuno li può vedere, i massimi. Li odiano addirittura. A parte Cassius Clay, naturalmente.
Nel frattempo, dall'altra parte del laghetto, uno degli acrobati delle due ruote cade davvero in acqua. I suoi amici e avversari si fermano e lo stanno a guardare silenziosi senza muovere un dito, tra sorpresi e ammirati. Poi, quando già il caduto non si vede più, sprofondato, cominciano uno alla volta a tuffarsi seguendone l'esempio, col repentino cambiamento di chi scopre finalmente la sua vera vocazione; poi in tre o quattro contemporaneamente, alcuni prendendo addirittura la rincorsa con la bici. Nessuno torna a riva, ma la loro scomparsa non impedisce che anche tutti gli altri bambini, e tutte le ragazze a braccetto ora più luminose, e le coppiette, gli studenti col libro in mano, i giovani sgargianti e le mammine con le carrozzine che affollano le due strade attorno al laghetto e tutto il parco li imitino con rincorse sempre più lunghe e salti di rara efficacia, anche dal punto di vista spettacolare, ciascuno secondo le proprie forze senza esitazioni.
 È un mosca, un altro venezuelano, quello su cui converge ora il gruppo delle panchine sempre più assorto nella raffica delle rievocazioni, uno che conta poco però, una meteora: il suo posto infatti viene subito rilevato da un messicano, lui pure un mosca ma campione del mondo lui, che ha rifilato un tremendo KO a un giapponese tarchiato. Quello sì che è stato un vero KO, da antologia: sembrava morto. Eh sì quello se lo ricordano tutti, impossibile dimenticarlo. Un coreano invece è morto per davvero. E un colombiano, un argentino, un paio di neri americani, persino un neoprofessionista siciliano, uno proprio al primo incontro. Il coreano non l'avrebbe detto nessuno che sarebbe morto, aveva combattuto fino al gong chiudendo in piedi un incontro che secondo alcuni aveva forse persino vinto, un incontro bellissimo, tirato allo spasimo, di quelli che si vedono sempre più raramente, ormai. Peccato che sia finito male... Càpita.












16/09/16

Due coche



Angela mi chiede se vado a prenderle una coca. Le dico di aspettare cinque minuti che sto finendo di leggere un racconto, il primo che mi piaccia veramente del libro che ho iniziato ieri sera. Suona il telefono: è per lei. Io finisco di leggere, le chiedo se una lattina le basta. Due è meglio, mi risponde. Prendo un sacchetto di cellophane dallo sgabuzzino per non tenere in mano le lattine, che di sicuro saranno gelide. Metto il cappotto e esco.
Fuori non fa freddo, la sera è limpida, senza vento. Passato il cancello, mi trovo davanti il prato che costeggia la strada e mi sembra più grande del solito. Sarà il buio, le luci dei lampioni o quelle sullo sfondo: non so, fatto sta che mi pare più grande e più bello, con gli alberi che ne delimitano tre lati, scuri ma tutti perfettamente distinguibili. Sul prato si diffonde, sfumando, la luce dei lampioni che costeggiano la strada dalla parte delle case. Villette, in genere, a parte il mio condominio. La strada è vuota, la roggia alla mia destra è asciutta. L’auto della vicina è ferma davanti al suo cancello, spenta, ma coi lampeggianti accesi. Il loro pulsare silenzioso mi fa percepire il silenzio che emana il mio quartiere. Da alcune finestre viene una luce che non sembra servire a nessuno: nessuno si vede nelle stanze, non una voce arriva sulla strada, neanche quella della televisione. Le luci se ne stanno lì, per conto loro, buone buone. Mi rispettano, accompagnano discrete i miei passi, e io gli sono grato. Mi volto verso il prato, nella luce che sfuma guardo le erbe più vicine, cercando di distinguerne i colori: verde scuro? nero? rosso smorto? ocra spento? Non ci riesco. Dietro invece è tutto buio, gli alberi sono neri; nero è il profilo dell’unica casa che vedo alle loro spalle; anche il cielo sopra di loro è scuro. Di uno scuro più luminoso però.
In fondo alla via, davanti a me, c’è la cascina al cui angolo è situato il ristorante, con barettino annesso. I tavolini alla sua destra sono vuoti: non è più stagione. Davanti ci sono due enormi pioppi i cui tronchi si sono ormai fusi alla base, tanto da sembrare un’unica pianta con due grandi diramazioni che formano una gigantesca, bellissima chioma le cui foglie residue, grazie alle luci della strada e del ristorante, posso distinguere ad una ad una. Le luci dei lampioni sono di un giallo intenso, innaturale; quella del ristorante è bianca. Le macchine parcheggiate davanti alla cascina sono tutte in ombra, nere.
Entro nel bar, chiedo due lattine di coca. Il proprietario le mette sul banco, io prendo dal portafoglio centomila lire e chiedo se ha da cambiare. Sì, ma non ha nessun sacchetto per le lattine. Non importa, l’ho portato io. Metto una mano in tasca, estraggo il sacchetto e quando lo apro scopro che sono due, sottili, uno infilato nell’altro. Ho esagerato, come sempre, senza accorgermene. Mentre ne rimetto uno in tasca, un signore da un tavolo mi saluta. Rispondo con piacere, poi intasco il resto, metto le lattine nel sacchetto, infilo la mano nel buco dei manici e poi in tasca, lasciando che il sacchetto penzoli e mi batta contro la coscia, e esco.
La strada è ancora deserta, ma ora la vedo nella direzione opposta. Sulla mia destra, ai bordi del prato, due coppie di ciliegi distanti un centinaio di metri l’una dall’altra, anch’essi con molte foglie residue e vizze. Mi sembrano diversi dal solito, poi mi accorgo che non c’è più la recinzione a proteggerli: ecco perché il prato mi era sembrato più grande. Guardo anche il prato in modo diverso. In fondo, a destra, gli stessi alberi di prima, ma alle loro spalle, lontano, ora vedo le luci di alcuni caseggiati che si stagliano sulla linea mossa ma netta della riva destra del fiume, più alta di quella del mio paese, a un paio di chilometri di distanza. L’aria è pulita, il cielo è senza stelle, molto alto.  Se ci sono nubi non le vedo, e comunque non contano.
Sono le 18,30 del 2 novembre 1997. Sto bene, anche se prima, all’andata, guardandomi attorno e poi fissando i pioppi, nel fare la stessa constatazione ho pensato: e io devo morire. Senza amarezza però. Solo con un pizzico di rimpianto, come è comprensibile, ma senza strascichi. Quietamente. Alla mia sinistra i fari dell’auto della vicina continuano a lampeggiare in silenzio e per nessuno. Guardo il fosso e poi l’erba sulle rive. Raggiungo la curva che conduce al cancelletto del mio condominio, aperto come sempre. Davanti ci sono auto parcheggiate su entrambi i lati della strada. In una, la ragazza del quinto piano sta al buio con un amico. Ne sento uscire una musica sommessa, poi delle risate.
Angela mi sta aspettando e fa scorrere la serratura mentre io sto girando la chiave nella porta. La saluto e metto il sacchetto sul tavolo della cucina. Lei estrae una lattina e parla della telefonata appena finita. Dico qualcosa anch’io. Ci sorridiamo. Poi lei si versa la coca e io mi dirigo verso lo studio. Apro la porta, la richiudo subito per non fare uscire il fumo, accendo la lampada, mi siedo al tavolo e scrivo.

14/09/16

L’andatura charleston




C’era questa ragazzina che camminava a testa alta, schiena e spalle dritte, lo sguardo fisso davanti a sé, le braccia tese che oscillavano leggermente, le mani un po’ all’infuori con i palmi paralleli al terreno. L’andatura charleston! Oggi nella sua versione più elegante: quella da educanda, che dalla danza ha preso una sola postura e l’ha adattata al passo, rendendola fluida e composta invece che sincopata e sguaiata.
Una volta la si vedeva spesso, specie in certe signorine mature che volevano darsi un tono, ma anche in ragazze, la cui naturale disinvoltura faceva dimenticare quel po’ di ridicolo che comunque la citazione della postura, o la sua eco involontaria, producevano.
Ora è molto rara, quasi estinta. Peccato, era così graziosa!
Chissà da chi l’ha imparata la ragazzina? Una vecchia zia? Un film? La memoria corporea della mamma che ogni tanto recupera un vezzo della sua giovinezza? O è un dono del corredo genetico? Una remota potenzialità che ogni tanto si riattiva e tenta nuove fioriture? In ogni caso, sempre benvenuta!

12/09/16

Il lettore e la vecchia in sedia a rotelle



Sono solo in due seduti all'ombra: un ragazzo su una seggiola pieghevole, che alterna ogni mezz’ora dal sole moltiplicato dal prolungamento in cemento della spiaggia alla precaria protezione di un oleandro che segna il limite tra la passeggiata a mare e la strada poco frequentata, e una vecchietta su una sedia a rotelle. Accanto a lei, su una panchina al sole, un uomo sulla sessantina, probabilmente suo figlio, che parla con un paio di donne del posto e ogni tanto si alza per spostarla, inseguendo con millimetrica pignoleria il bordo dell’ombra nella sua traiettoria.
Il ragazzo, o più precisamente: il giovane, accavalla le gambe e si aggiusta gli zoccoli ai piedi, si guarda attorno e, ad intervalli regolari, sbircia di soppiatto la vecchia: non lo vorrebbe mostrare forse, ma lo ha sempre attratto l’immobilità silenziosa dei vecchi, come una ripetizione insistita di un niente che si trasforma in forza, l’assoluta inerzia che si fa impermeabile, inattaccabile. Gli sembra che non pensino a nulla ed è come aspirato dal vuoto della loro mente, vorrebbe navigarci, fluttuare, in pause diverse dalle sue che poi si allargano sempre più fino a mutare in pausa l’oggetto che le interrompe, per espellerlo infine irrevocabilmente o lasciare che si spenga da solo, per mancanze di qualsiasi resistenza; ma la forza stessa che lo attrae è quella che infallibilmente lo respinge. Perciò si rassegna a fissarli; con un’insistenza che si arresta solo al limite della sfacciataggine percorre la loro fissità per almeno descriverla come palliativo, si adegua al suo ritmo, incollato, e ripete i loro unici movimenti, che sono quelli, lenti e spesso interrotti, degli occhi.
Questa vecchia si direbbe sui novant’anni, se non di più. Ha un viso scuro e scarno, segmentato da un’intensa quanto disordinata rugosità e da una sottile e sporadica peluria, le mascelle come saldate senza alcuna sbavatura o prominenza, gli occhi che non denotano cedimenti, aperti a fessura. L’omogeneità continua della pelle è stata sostituita da un tessuto di macchie di varia gradazione e misura, di cifra illeggibile ma radicata da tanto tempo ormai da rendere impensabile un precedente originale. Sotto il cappello di paglia sfilacciata a forma di campana mozza, di un colore giallo vivo interrotto alla base della falda da un nastro grigio sbiadito, spuntano pochi capelli biancastri, a ciuffi radi, e degli orecchini a goccia incastonati di pietruzze dure color sangue, magari preziose ma di taglio approssimativo. È magra ma non minuta: le caviglie, infatti, come i polsi, sono tonde e robuste. La destra, a causa del piede leggermente obliquo, è sbalzata in tre o quattro piccole grinze di carne, che non possono essere grasso, dalla pressione delle calze elastiche; l’altra si congiunge senza la minima protuberanza al piede perpendicolare, come in un unico blocco privo di articolazione. Per quanto sia difficile calcolare l’influenza dell’immobilità a cui è costretta e il rattrappimento derivato dall’età, da giovane doveva essere stata abbastanza alta. Lo suggerisce il busto allineato allo schienale, lungo ed eretto, che comincia a incurvarsi solo all’attaccatura del collo, in un breve arco che si arresta subito alla nuca senza costringere a piegarsi verso terra la testa, che si mantiene rigida anzi e non tradisce nessuna debolezza anche a dispetto dell’afa che invece sta sfiancando il suo scrutatore. Porta un lungo vestito di cotonina nera a fiorellini bianchi e azzurri, con gambi ben marcati di un verde intenso. Dal grembiule aperto che lo ricopre, sempre di cotonina ma stinta e a sfondo blu stavolta, dalla decorazione di certi damaschi, policroma però: ocra rosso marrone verde e bianco, spuntano le mani, serrate sulla fronte dei braccioli nel solo atteggiamento che riveli, oltre agli occhi, una forma di vitalità.
Il giovane sta leggendo un libro che certo non gli piace, e ad ogni capoverso si volta a controllare se la vecchia c’è ancora, con la scusa di guardare nel mare tre navi spuntate all’improvviso. Vede la stoffa del grembiule che si increspa per qualche refolo, le mani sempre serrate come a spremere il cuoio dei braccioli, la testa sempre di profilo, le labbra chiuse e quasi ridotte a un duplice filo rosa, gli occhi che ogni tanto seguono i passanti fin dove permette la fronte immobile, senza rincorrerli ma nemmeno fuggirli. Non vedono però il giovane che ora sta scrivendo lì di fianco, né lo guadano quando si alza, imbraccia con voluto rumore la sua seggiola e di proposito attraversa il suo campo visivo per tornare al sole perché il vento si è rafforzato e ha freddo. Sentendosi del tutto ignorato, lui decide, pur sapendo che è la reazione dei deboli, di ignorarla a sua volta. Riapre la seggiola e quindi il libro, legge qualche riga con scarsa attenzione e subito ritorna a fissare le navi immobili, a distanze diverse forse, ma sempre, come di regola, allineate sul filo dell’orizzonte. Le barche e le vele invece sono tutte più o meno lontane, ma solo da terra.