22/06/21

Intervista A GIULIA NICCOLAI (26-2-1982) - ADDIO GIULIA! 22 giugno 2021

 

ADDIO GIULIA!


Giulia Niccolai è nata nel 1934 a Milano, dove risiede e lavora come traduttrice. Ha pubblicato il romanzo Il grande angolo (Feltrinelli, 1966) e alcuni capitoli di King Clown su Il verri e O/E. Le sue raccolte Humpty Dumpty, Greenwich, Russky Salad Ballads & Webster Poems, prima pubblicate da Geiger a Torino, sono state riprese, unitamente a nuovi lavori, in Harry’s Bar e altre poesie (Feltrinelli, 1981). A Los Angeles è apparso, presso la Ped Hill Press, Substition ed è di imminente uscita un poema in prosa. Nel campo della poesia visuale sono da ricordarsi Poema e Oggetto (Geiger, 1974) e numerose mostre in Italia e all’estero.

Leggendo Harrys’s Barm’è venuto più di una volta il sospetto che Giulia niccolai non esistesse, che quel nome sulla copertina fosse lo pseudonimo collettivo di qualche associazione di traduttori o geografi, la sigla di una società segreta per la rinascita di Babele e il prodotto anomalo della promiscuità in cui vengono a trovarsi, sugli scaffali delle biblioteche, atlanti e dizionari, l’enciclopedia mondiale delle partenze e degli arrivi e le opere complete, album fotografici compresi, del reverendo Dodg-son. Sospetto che meno che mai avrebbe potuto dissolvere la prefazione, dato che il suo firmatario è l’altrettanto ipotetico G. Manganelli.

Ero preoccupato: chi avrei intervistato? Dove? Quando? E come ci saremmo intesi? Ma il sospetto può anche essere un’emozione piacevole, e lo è senz’altro se fa correre una volta tanto l’immaginazione provocandola con un nugolo di tracce, ammiccamenti, contraddizioni e verosimiglianze comiche, insensate e assurde nella loro logica di volta in volta impeccabile. Certo però che se qualcuno ti mette in queste condizioni coi suoi scritti, non può certo sperare di sottrarsi al loro riverbero. Così, finalmente, l’intervista io l’ho realizzata, ma mi guardo bene dal giurare sulla rispondenza alla realtà sua e della fotografia che l’accompagna.

 

Tu sei stata a lungo fotografa e continui a usare la fotografia nella poesia visuale. Questo lavoro, con i frequenti spostamenti che comportava, ha inciso anche sulla tua poesia lineare. Vorresti parlarne?

Sì, come fotografa ho viaggiato molto e molto mi sono annoiata in stazioni e aeroporti, ma è anche grazie a questa noia che sono nati i nonsense geografici di Greenwich. Certo i nomi dei luoghi mi hanno sempre colpito, sia come trascrizione dello shock provocato dall’incontro con l’indefinito sia per la varietà di echi, diffrazioni e valenze che il loro rapporto col linguaggio comune fa sorgere; ma è forse stata la noia che per prima, davanti a certe carte geografiche, orari ferroviari e tabelloni dei voli, mi ha spinto a cercare nell’incontro fortuito dei nomi delle trame possibili, delle allusioni a significati e ritmi, e ha fatto affiorare le vecchie cantilene e poesie infantili che ne hanno spesso costituito la base metrica.

 

Quali cantilene e poesie?

Le filastrocche e i nonsense così frequenti nei libri inglesi per bambini che mia madre, americana, mi leggeva, e che mi hanno abituata presto a quel lato comico dei nonsense che ancora conserva per me un grande rispetto liberatorio.

 

Dunque sei bilingue dall’infanzia. Questa caratteristica ti ha giovato o ha invece creato qualche problema?

Groddeck sostiene che i bilingui sono schizofrenici. A prescindere dal fatto che per me, almeno tendenzialmente, schizofrenici in qualche modo lo siamo tutti, devo dire che io sento il bilinguismo come qualcosa che mi fa molto piacere e insieme anche, un po’, paura.

 

Suppongo comunque che prevalga il primo aspetto, dato che molte tue poesie sono addirittura plurilingue.

Dire qualcosa per una che ha cominciato non dicendo, sia pure in senso letterale, assolutamente niente, non può che costituire un problema, il plurilinguismo mi aiuta a superare la paura di dire le cose in una sola lingua, provoca echi diversi e rende molto più evidente che cerco di essere ironica o comica, permettendomi inoltre di dire di meno.

 

Hai forse paura che usando una sola lingua la parola si appiattisca?

Piuttosto temo che non comunichi ciò che voglio io, come il fatto di prendere in giro, di giocare col linguaggio (anche se non come puro divertimento, beninteso), di prenderlo alla lettera. Soprattutto il lato più comico mi interessava, tanto più che, quando ho cominciato, erano molto rare le donne che usavano questo registro.

 

Questi meccanismi sono presenti anche nella tua poesia visuale? Che rapporti ci sono, in generale con quella lineare?

Poesia visuale e lineare procedono parallele, nel mio caso. E’ la stessa concettualità che presiede ad entrambe, gli stessi giochi che si ritrovano, o si richiamano e moltiplicano, nei due ambiti specifici. Come piglio una parola e la disloco, la spaeso, la nascondo o ne modifico la definizione o il ritmo (come faccio nei Webster Poems a partire dal dizionario inglese o con testi teorici dei Novissimi o di F. Curi in Dai Novissimi e Sostituzione), contattando magari le cose più disparate per meglio spiegarle a me stessa, per esorcizzarle, così faccio con gli oggetti.

 

Come vedi allora lo scrivere?

Come una specie di esercizio spirituale durante il quale posso anche frantumare il linguaggio, per esempio, ma sempre per impossessarmene al di fuori della nevrosi. E’ una mia concentrazione sul linguaggio, un esercizio che mi far star bene l’anima, paragonabile, sotto alcuni aspetti, a certe tecniche di meditazione orientale.

 

Sì, ma in che modo questi effetti, che potrebbero riguardare soltanto te individualmente, entrano e agiscono nella poesia?

Possiamo dire schematizzando, che il discorso orientale si basa su un qui ed ora nel quale devi giungere a trovare un tuo baricentro, in modo tale che i messaggi che invii agli altri non siano confusi con le tue paure, reticenze e negatività, se non vuoi che queste, sia pure in maniera inconscia, vengano poi recepite. Più sei concentrato in te stesso, più mandi il messaggio in maniera pura senza confondere le idee al destinatario. Questa concentrazione si proietta anche sul linguaggio. E’ un discorso che in un certo senso si riallaccia a quello fatto dai Novissimi sulla riduzione dell’io, anche se sappiamo che lì concerne prevalentemente la tecnica poetica ed è difficilmente fattibile. Devi cercare di essere un tubo vuoto e trasmittente: meglio trasmetti senza essere zavorrato da te stesso, e più funziona la faccenda. Anche in poesia.

 

 

 


20/06/21

Lettera di C. sul problema di smettere di fumare e mia risposta

 
autoscatto truce di qualche settimana prima che smettessi di fumare 02-2011

 

C.

Caro Luigi, solo per chiederti: come hai fatto a smettere di fumare?

Te lo chiedo perché sto andando al secondo funerale nel giro di dieci giorni: due vecchi amici (fumatori) che vedevo in campagna da anni, ottime persone. Uno di infarto l’altro di tumore ai polmoni fulminante: prof di economia all’università appena andato in pensione, pensa che sfiga.
Potrai scusare la stupidità di questa lettera? 
Già so che mi dirai: ho smesso perché ho deciso. In questa decisione io ho sempre fallito!
grazie! un caro saluto da c.

 

Risposta:

Be’, caro C., effettivamente è così, o quasi.

Per i dettagli vedi l’ultimo paragrafo di questo mio raccontino (il più leggibile di tutti: gli altri paragrafi mi piacciono ma possono anche esasperare il lettore che ama la paratassi).

https://grazioliluigimario.blogspot.com/2014/09/come-ho-smesso-di-fumare-uno-dei.html

Ho smesso per quell’intervento, perché avevo la gengiva squarciata, ma poi mi sono intestardito. Ho usato per un po’ le prime sigarette elettriche, senza soddisfazione, praticamente usciva solo aria calda, ma più per il gesto che per il gusto. Quando si smette è la gestualità la cosa più pesante da riorganizzare, come nell’elaborazione del lutto: cambiare automatismi, non allungare la mano al pacchetto mentre leggi e soprattutto scrivi, non portarla alla bocca anche se poi non si aspira, non avere il problema di come gestirla, farla stare brava e buona quando sei al tavolo di lavoro o in poltrona con un libro in mano. Poi ci ho aggiunto qualche caramella o cicca (con gioia del mio dentista) e dopo un po’ mi è sembrato di non aver mai fumato in vita mia, e dopo ancora un po’ il fumo degli altri ha cominciato a darmi un leggero fastidio, senza che però lo facessi notare ai fumatori, dati i miei trascorsi… Ma sì, la cosa più importante è stata che di punto in bianco ho deciso, senza tentativi o premesse preventive, così, di botto, e poi ho continuato perché sono uno zuccone.

Non c’è ricetta. Il fatto è questo.

Non c’è paura o prudenza o altro. Una scappatoia si trova sempre.

O si decide o no. Fosse solo per vedere chi la vince. E senza dare spiegazioni a nessuno.

Un caro saluto

Luigi

 

 

 




15/06/21

Proposte di distruzione


Propongo di distruggere "Apollo e Dafne" del Bernini, perché è un abominio che ci siano folle in adorazione davanti alla rappresentazione di un tentativo di stupro, per quanto non andato a buon termine.

E abbattiamo tutte le chiese spagnole e lo stesso stato razzista, persecutore di ebrei e mori e gli stessi mori che hanno venduto schiavi che gli vendevano, come agli europei, i capi di tribù e popolazioni nemiche, africani come loro e lo stesso più o meno ovunque. E che i cattolici ammazzino i riformati e viceversa, tutti, nessuno escluso, e i mongoli e i turchi e i cinesi e i giapponesi che ne hanno fatto mica male a coreani ecc., e sterminiamo i francesi, i belgi e i tedeschi e gli italiani schifosi colonialisti, e qualcuno venga a sterminare anche me per tutti i torti che ho fatto dalla nascita e forse anche prima e se non ci pensa nessuno ci penso io da solo che me lo merito, bastardo che sono.

 

15 giugno 2020 

 

ps. 15 giugno 2021 


(Poi non l'ho fatto.)

 


14/06/21

GIORGIO AGAMBEN - Idea della prosa, 1985

 


Verso la fine di Il linguaggio e la morte (Einaudi, Torino, 1982), dopo aver mostrato che la “negatività è inseparabile dalla metafisica” (p. 105) e che l’Assoluto altro non è che il modo in cui la filosofia pensa il proprio fondamento negativo (p.115), fondamento muto (voce) e rigorosamente informulabile, Giorgio Agamben si chiede se non sia possibile un’esperienza della parola che non sia segnata dalla negatività e dalla morte (p. 120) e che renda veramente giustizia dell’ethos dell’uomo. (…) E’ possibile che l’essere (l’onto-teo-logica con la sua negatività) non sia all’altezza del semplice mistero dell’avere dell’uomo, della sua abitazione come della sua abitudine? E se la dimora a cui facciamo ritorno al di là dell’essere, non fosse né un luogo iperuranio né una voce, ma semplicemente le trite parole che abbiamo? (p. 118)

E’ a queste domande, tra l’altro, che con Idea della prosa Agamben cerca di rispondere attraverso i “trenta piccoli trattati di filosofia” e le due “Soglie” che lo compongono, cioè le trenta “Idee” che, interrogando o muovendo da altrettante, trite o meno trite, parole divise in tre gruppi di dieci, vertono su temi rispettivamente della tradizione poetico-letteraria, di quella politico-sociale e di quella strettamente filosofica. Se la scelta delle parole (per esempio: materia, prosa, verità, amore, potere, comunismo, pace, pensiero, linguaggio, morte, risveglio…) e la loro organizzazione nei tre campi è significativa, lo è forse ancor di più la forma che alle “idee” viene data, perché nessun “pensiero responsabile può fare a meno di interrogarsi sulla propria forma” (da un’intervista al Manifesto), anche la scelta della forma dell’esposizione deve avere un senso. Così, alla ricerca di una “prosa del pensiero”, di una “filosofia narrante”, per queste “Idee” Agamben ha scelto “forme semplici” come l’apologo, l’aforisma, la favola, l’enigma, che già agli albori della storia della filosofia tanta importanza hanno avuto (cfr. G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano, 1978) e che hanno il pregio di non separare mai la conoscenza dal “risveglio”: esse infatti “non si propongono tanto di affermare teorie più o meno convincenti, quanto di far compiere un’esperienza, di trar fuori dall’inganno, di mostrare una via d’uscita” (cfr. l’intervista succitata).

 Uno dei problemi essenziali infatti, e Agamben lo sa benissimo se già a Infanzia e storia (Einaudi, Torino, 1978) aveva dato il sottotitolo di Saggio sulla distruzione dell’esperienza, è proprio quello della possibilità e della modalità dell’esperienza e, visto che siamo nel campo della parola, della sua trasmissione; cioè, prima ancora di quello delle cose da dire, della possibilità e delle modalità di dire ancora qualcosa nel “tempo delle cose assolutamente dicibili, del cui estremo furore nichilistico ci è dato oggi di fare esperienza” ma assolutamente dicibili solo in quanto “tutta l’esperienza umana è stata ricondotta all’ultima realtà negativa di un volere che vuole-dire nulla” (Il linguaggio e la morte, p. 115). Per questo più che enumerare le molte cose che pure Agamben dice in Idea della prosa (e che dice, va aggiunto perché non si tratta di una valutazione estrinseca, spesso in modo bellissimo), penso che valga la pena di soffermarci su questo aspetto, utilizzando soprattutto la quasi centrale Idea della musica (p. 62-65), forse non a caso una delle più lunghe.

Come mai, si chiede Agamben, “se la sensibilità è la sfinge con cui epoca deve sempre di nuovo misurarsi”, “l’inventario dei nuovi sentimenti epocali” (delle Stimmungen), a dispetto delle tante e pur valide opere scritte successivamente, si è “chiuso una volta per tutte in Europa intorno al 1930”? Che il motivo vada ricercato nella massificazione della Stimmung stessa (e “una Stimmung di massa non è più una musica registrabile: è soltanto un fracasso”), è una spiegazione plausibile, ma “insoddisfacente come tutte le spiegazioni”. “Più decisiva è la constatazione della vertiginosa perdita di autorità dell’esistenza privata e della biografia individuale”; e più decisivo ancora sarebbe riconoscere che nessuna descrizione è stata più data perché non c’è nulla da descrivere. Allora “il coraggio – di fronte al quale l’imperfetto nichilismo del nostro tempo non cessa di indietreggiare, consisterebbe, appunto, nel riconoscere che noi non abbiamo più stati d’animo, che noi siamo i primi uomini non accordati in una Stimmung, i primi uomini, per così dire, assolutamente non musicali: senza Stimmung, cioè senza vocazione”. Proprio in questo riconoscimento però “privi di epoca, stremati e senza destino, tocchiamo la soglia beata della nostra dimora non musicale nel tempo. La nostra parola ha veramente raggiunto l’inizio.”

Sì, ma quale parola? E’ una parola che viene nonostante tutto da qualche parte o ci deve bastare che semplicemente ci sia? E chi la parla? Cosa dice? E l’inizio, di cosa è concretamente inizio? Le risposte che Agamben sembra dare, in questo come in altri suoi testi recenti, confesso che non mi riescono sempre tra loro compatibili né chiare. A volte infatti il suo discorso sembra andare verso un’affermazione (che non è forse insieme una cessazione) della parola che non spiega più nulla, e solo espone, perché verrebbe a cadere nell’Inesplicabile (la Voce, il fondamento negativo) che tutte le spiegazioni (le parole?) tenterebbero di spiegare, conservandolo così intatto (p. 105-106); una parola al di là delle opposizioni che l’onto-teo-logia regge (vivente e linguaggio, natura e cultura, etica e logica), che sarebbe per l’uomo “la sua voce, così come il canto è la voce degli uccelli, il frinito è la voce del grillo e il raglio è la voce dell’asino” (cfr. Holderlin-Heidegger, in Alfabeta N. 69, febbr. 1985, p. 5). Altre volte egli identifica “la dimora a cui facciamo ritorno al di là dell’essere”, come si diceva, con le “trite parole che abbiamo”, e afferma che “stare nel linguaggio senza esservi chiamato da alcuna voce, semplicemente morire senza essere chiamati dalla morte, è, forse, l’esperienza più abissale; ma questa è precisamente, per l’uomo, anche l’esperienza più abituale, il suo ethos” (Il linguaggio e la morte, p. 120).

Si tratta in realtà della stessa risposta o se ne possono trarre prospettive differenti? Non starò a fare della gratuita ironia sulla voce degli uccelli e degli asini, perché la tensione escatologica che è già qui e ora, che anima gli scritti di Agamben, e che marca anche le “Idee” finali di ognuna delle tre sezioni del libro, è ben altrimenti sostenuta , ma mi chiedo se ciò è implicito in questa prima risposta sia veramente possibile, oltre che auspicabile. Se è appunto rinunciando per sempre ad avere una voce che sia sua come lo è il canto per gli uccelli, cioè negandola, che l’uomo è diventato tale (o tale si è condannato ad essere, se si preferisce), anche ammesso che possa recuperarla, e cioè recuperare ciò che come uomo non ha mai avuto, non finirebbe egli col negare se stesso e insieme la propria parola? Potrebbe essere una soluzione, certo, ma una soluzione che risponde solo a quella stanchezza invincibile, e che invece va vinta, tanto per l’uomo che per le parole sperperate che ci coglie sempre più spesso.

L’altra soluzione, che contempla in parte anche la prima, mi sembra invece rispondere a un’esigenza più essenziale. Si tratterebbe allora di stare nel linguaggio senza rimandare a qualcosa che lo trascende e insieme di mantenere, ma sempre nel linguaggio, la sua “originaria vocazione infantile” (p. 70), perché ciò che va salvato non è soltanto “il salvabile (i caratteri essenziali della specie), ma ciò che in ogni caso non può essere salvato, che è, anzi, già sempre perduto, che, meglio, non è mai stato posseduto come una proprietà specifica, ma che è, appunto per questo, indimenticabile: l’essere, l’illatenza del soma infantile, cui soltanto il mondo, soltanto il linguaggio è adeguato.” Formulazione, però, tanto fascinosa quanto per certi aspetti insidiosa e non del tutto afferrabile nel suo significato, che non penso possa essere identificato con ciò che dice la frase immediatamente successiva che, viceversa, apre una direzione a mio parere più proficua: “Ciò che l’idea e l’essenza vogliono salvare è il fenomeno, l’irripetibile che è stato” (p.70), “l’errante apparenza”, il sensibile non “presupposto al linguaggio e alla conoscenza, bensì esposto in essi assolutamente. L’apparenza riposta non più sull’ipotesi, ma su se stessa, la cosa non più separata dalla sua intellegibilità, ma nel medio, di quella, è l’idea, la cosa stessa” (p.91). Per questo non occorre tanto farsi una rappresentazione della vacuità, cioè mantenere il fondamento negativo nella rappresentazione, quanto “pazientemente dimorare nella vacuità della rappresentazione (…) Il relativo vacuo non è più relativo assoluto. L’immagine vuota non è più immagine di nulla. Questa pace non è silenziosa, l’immagine vuota è ancora parola: finisce solo quella rappresentazione che è “trascesa attraverso un’altra, superiore rappresentazione”, ma in compenso può prendere avvio quella che è trascesa “solo attraverso la sua la sua esibizione, il suo andare a fondo” (p. 101). Non sarà più la risposta a una Voce che chiama, sarà la fine di quella Vocazione della quale la stessa affannosa tematizzazione recente segnala chiaramente l’assenza in uno sconforto che non può fare a meno di surrogati, così come sarà la fine, peraltro già dominante nel suo versante negativo, della necessità di una legittimazione assoluta alle parole, ma sarà, e forse è già, l’apertura verso una nuova esperienza, forse non “lieta” e “beata” come Agamben sembra a volte presagire, ma certo diversa da quella che sempre fuori di sé, negandosi, doveva fondarsi.

 


(Scritto per una rivista francese, di cui non ricordo il titolo, e nemmeno so se poi è uscita davvero: ricordo solo che il direttore era un giovane che poi è diventato uno degli italianisti più importanti di Francia - l'ho trovato in varie pubblicazioni, saggi e edizioni francesi di autori nostrani -, anche se al momento mi sfugge pure il suo nome, Philippe e qualcosa mi pare...)

 

11/06/21

DERRIDA - La carte postale, de Socrate à Freud et au-delà (Alfabeta N. 29 ottobre 1981)


Mentre in altri paesi europei ed americani l’interesse per i testi di J. Derrida non accenna a diminuire, nei campi e della filosofia e dell’arte e della critica militante, in Italia, dopo che la traduzione quasi completa delle sue prime opere una decina di anni fa (La voce e il fenomeno, Milano, Jaca Book 1968; Della grammatologia, ibid., 1969; La scrittura e la differenza, Torino, Einaudi, 1971; alle quali è da aggiungersi la raccolta di interviste Posizioni, Verona, Bertani, 1975, alla quale si rimanda sia per l’utile glossario dell’appendice, che per la bella prefazione di G. Sertoli) aveva suscitato numerosi e diversificati interventi immediati, l’attenzione verso di essi è sempre più scemata.

Ciò che ne è rimasto si riduce in linea di massima ad alcune acquisizioni lessicali, usate non di rado in modo indeterminato e senza sospetto del loro contesto di affioramento e di azione, e che si riconosceranno facilmente nel corso dell’articolo.

Come è noto le indagini di Derrida, nello spazio aperto da Nietzsche ed Heidegger e con costante riferimento a Freud, hanno per oggetto la decostruzione della metafisica, cioè di quel sistema di inquadramento, interpretazione e trasformazione del mondo che, dalla sua instaurazione greca fino ai nostri giorni, ha dominato tutta la storia dell’occidente tanto da identificarvisi. Non tanto quindi di questo o quel sistema storicamente determinato e più o meno importante, quanto dello spazio inaugurale e sempre attivo della loro proliferazione e diversità, spazio che li ricongiunge in una fondamentale unità dominata dagli stessi valori trascendenti (essere, verità, presenza, origine, fine, identità…) che,lungi dal limitarsi al puro statuto concettuale, orientano persino le pieghe più banali della quotidianità. Logos unitario e totalizzante o totalitario, che si vorrebbe omogeneo e indiscutibile nella sua perfezione, che secondo Derrida non si tratta con gesto facile, quanto illusorio di oltrepassare verso un impensabile altrove magari simmetrico, bensì con giusta parola di decostruire. Il problema cioè non è di creare un’alternativa alla metafisica e di opporle un puro al di fuori o una pura alterità o differenza: tutte prospettive che rimarrebbero all’interno del suo orizzonte; quanto di individuarne e far concorrere alla sua destrutturazione tutto ciò che, al suo interno ma soprattutto lungo i margini, agisce da irriducibile eterogeneità: falle supplementari e innesti che ne minano sin dall’origine e nel fondamento la sferoide omogenea totalità.

A questo scopo l’analisi non si deve limitare alla sola filosofia  escludendo i campi artistico e scientifico, né deve pensare il decostruttore di poterne erigere e quindi organizzare i risultati a positività concettuale autonoma ovvero a nuovi principi costitutivi. Sono soltanto infatti “strumenti di decostruzione” non astraibili dai loro contesti concreti di emergenza e dalle letture che rendono possibili, ciò che ne spiega e la successiva differenza e la pluralità non unificabile (scrittura, disseminazione, traccia, margine…), indecidibili rispetto alla logica della metafisica dato che dei concetti non hanno né identità né pienezza.

E’ una logica altra da quella classica dell’identità e della differenza quella così articolata, una logica chiamata ad hoc da Derrida della differenza (différance): termine inesistente che solo la scrittura permette di distinguere da quello che si aggiunge, e che serve a Derrida a mostrare che non si dà differenza specifica al di fuori del movimento che, nel differenziare, differisce e ritarda, al di fuori della spaziatura che è temporizzazione, divenir-spazio del tempo e viceversa.

Ed è ancor sempre in tale ambito, trattasi di compito infinito, che si situa anche questo ultimo libro, a prosecuzione, e in certi casi esplicitandone le assise, di un percorso che, in altri testi da noi non ancora tradotti, aveva toccato oltre alla filosofia, la letteratura, la psicanalisi e la pittura (La dissémination, Paris, Le seuil, 1972; Marges – de la philosophie, Paris, Minuit, 1972; Glas, Paris, Galilée, 1974; La vérité en peinture, Paris, Flammarion, 1978). Questa volta l’obiettivo, paradossale e polemico, sin nel titolo, è la “metafisica postale”.

Polemico soprattutto verso quella lettura di Freud che si riassume nel nome di Lacan: è infatti all’analisi di un suo testo che si rivolge uno dei quattro saggi inclusi in questo libro (saggio pubblicato indipendentemente su Poétique, 21,1975, e in traduzione italiana Il fattore della verità, Milano, Adelphi, 1978, e che, essendo già stato largamente discusso, non verrà qui preso in esame), nonché alla discussione spesso criptica e allusiva delle divisioni del movimento analitico il quarto, sotto forma di breve intervista. Anche a prescindere dai riferimenti diretti, molto scarsi al di fuori di Il fattore della verità, che sarebbe inoltre impossibile non pensare a Lacan sia nella “cartolina” del titolo, con allusione al suo molteplice uso della “lettera” (rubata, freudiana, dell’inconscio…), sia nel “Freud e al di là” del sottotitolo. Comunque, e fortunatamente, in nessuno dei due casi ci si ferma all’istanza polemica.

La cartolina infatti domina tutta la prima parte del libro, la metà esatta, nella triplice veste di occasione, oggetto e anche strumento del discorso. Occasione come cartolina reale trovata da Derrida a Oxford, riproducente un’illustrazione tratta da un manoscritto del XIII sec., un libro di predizioni della fortuna. Vi vediamo un Socrate giovinetto, dai bei lineamenti e vezzosamente abbigliato, seduto ad uno scrittoio in atto di intingere una penna nel calamaio con la destra e di grattare col raschietto che tiene con la sinistra una pergamena ancora vergine davanti a lui, mentre alle sue spalle, vecchiotto bruttino e vestito da povero diavolo, un Platone di dimensioni ridotte ce lo indica con la destra e dirige il nostro sguardo chissà dove, in alto verso il margine, o fuori, con la sinistra.

D’accordo, si tratta probabilmente dell’errore di un copista poco accurato, ma Derrida mica si accontenta: questa cartolina ci dice qualcosa di importante, pensa, o meglio, ci mostra “il negativo di una fotografia da sviluppare da 25 secoli” (p. 14), il negativo della metafisica, forse. E proprio in questa cartolina, della metafisica ci rivela anche un aspetto fondamentale, quello postale, del quale viene specificata la costellazione concettuale che ne costituisce la struttura (e siamo all’oggetto), in una lettura che trova soprattutto, e prevedibilmente, in Nietzsche, Heidegger e Freud i parametri tanto di riferimento che di discussione.

 

Partendo dalla coppia stenografica S/P (Socrate e Platone certo, ma anche soggetto e predicato, processo primario e secondario…) questa struttura si specifica prima nel complesso sistema di collegamenti che uniscono cartolina e lettera a posta, e questa a posizione tesi e tema da un lato, e a destinazione destinare e destino (il Geschick heideggeriano, che è anche “abilità”, significato che rientra pure in adresse, “indirizzo”; vedi p.71) dall’altro, e poi, sempre concettualmente ma anche e soprattutto linguisticamente, in quello dell’andare-venire, dell’incamminamento, del vicino e del lontano, della verità, del transfert, della genealogia, del passare ecc. (vedi p. 238 e 240).

Sistema coestensivo di ogni nostra possibilità di discorso e di pensiero, che “ha invaso (persino) la nostra domesticità più privata” (p. 32), e dal cui spazio uscire è forse impossibile, dato che anche lo spazio si costituisce a partire da esso.

Forse impossibile e quasi certamente catastrofico, ripete spesso Derrida con un certo pathos che la diffusa ironia non basta comunque a ridimensionare. E’ la nostra condanna (ma Survivre è il titolo di una futura pubblicazione annunciata in queste stesse pagine); e la paralisi è il segno sotto cui ci muoviamo, nel senso, greco, che “non c’è più legame, che ogni vincolo è stato sciolto (altrimenti detto, certamente, analizzato) e che proprio per questo, perché si è ‘esenti’ prosciolti da tutto, niente va più, niente si tiene insieme, niente avanza più” (p. 138-139).

Nati tutti sotto Saturno? Quel che ci resta da fare allora, in questo sistema, è forse solo misurarne i bordi, (ri)scriverlo in una pratica plurale che non si deneghi e cerchi contemporaneamente di sfuggire ai tranelli che la metafisica è sempre pronta a far scattare al minimo segno di rilassamento. E’ la paranoia della metafisica potremmo dire, con genitivo soggettivo e oggettivo insieme, of course. Quel che soprattutto si deve evitare è l’ingenuità di volerla battere limitandosi ai suoi strumenti, nel senso almeno in cui essa ce li fornisce. E con questo siamo al terzo aspetto della cartolina. Come strumento di decostruzione della metafisica postale infatti, la cartolina, quella stessa che ci mostra la scena tra Socrate e Platone, la “scena primitiva” si potrebbe dire, manifesta ottimi requisiti: “fatta per circolare come una lettera aperta ma illeggibile” (p. 16) è “semi-privata semi-pubblicata” (p. 70), può essere letta da chiunque, se capitatagli in mano o intercettata – basta un secondo – il messaggio non ha più alcuna possibilità di raggiungere alcunché di determinabile, in nessun luogo (determinabile) possibile” (p. 58), con buona pace di tutti i “guardiani della lettera”, dice Derrida, siamo filosofi, giornalisti, psicanalisti o, ovviamente, letterati.

Così non c’è posto in essa per la verità, col suo seguito di tesi, referenzialità e dimostrazioni, la sua logica è indecidibile e non può essere disgiunta né dal rispetto e dall’attenzione alla lingua che, seguendo magari altre modalità, caratterizza più che i poeti la poesia (meglio ancora: la Dichtung), né da un nuovo modo di intendere e utilizzare la “finzione”, non tanto terrorizzandola quanto mettendola in atto. Come puntualmente accade infatti, sotto forma di lettera d’amore, lettera farcita (satura), divagazione e deviazione, autobiografia e parodia, in tutta questa prima parte di La carte postale.

 Ma “finzione” è anche, nel senso che non rientra nei tradizionali canoni metafisici, la nozione di speculazione che Freud utilizza per distinguere il suo discorso sia dalla filosofia sia dalla scienza sia dalla letteratura in Al di là del principio del piacere, al quale appunto per questo Derrida dedica un lungo e orientato commento. Ma anche qui, naturalmente, non si tratta di elaborarne esplicitamente la teoria o il metodo in modo estraibile dal contesto operativo: la speculazione non è niente al di fuori del complesso reticolo di argomenti con cui è consolidale nella scrittura di Derrida (per es. l’eredità freudiana, la scienza e il nome proprio, Freud e Nietzsche, Heidegger, gli scritti di Jacob e Canguilhem) e nel percorso di Al di là…

 

Caratteristica principale della speculazione come finzione è di non correre mai ad alcuna istanza finale che instauri valori o fondamenti di carattere trascendentale, dato che è legata a quelle “intime e profonde predilezioni” di cui Freud parla nel VI capitolo, “senza le quali il movimento stesso della ricerca, scientifica e speculativa, non sarebbe nemmeno dato” (p. 406), dal momento che l’indispensabile passaggio al linguaggio in essa ne è segnato sempre e comunque a tutti i livelli.

Non solo a causa dell’impossibilità di nominare la “cosa stessa” e della conseguente irriducibile necessità di abitare una “lingua d’immagini” (Bildersprache) che struttura anche la scienza immettendola fin dal suo sorgere in una serie di movimenti in tran, o in Uber, – transizione, trascrizione, traduzione, trasposizione, trasgressione, transfert, metafora (Ubertragung) – che la sottrae a qualsiasi riferimento a un “originale”, ma anche perché la speculazione da questi medesimi tragitti costituita “orientata, destina, calcola il ‘primo passo’ più originale e più passivo sulla soglia stessa della percezione. E questa percezione, il suo desiderio o il suo concetto, appartiene al destino di questo calcolo. Come ogni discorso tenuto a questo soggetto” (p. 409).

In tal modo quindi ogni ricerca è costituzionalmente una deviazione, che non nasconde però nessun tragitto proprio, nessun cammino diretto: l’origine è sottratta e il/la fine non possono nemmeno venir posti, ogni posizione viene incessantemente sospesa e l’interminabile è la legge, mentre del tutto inutile è provarne nostalgia e desiderare una lingua “finalmente propria”. La necessità di ciò che la speculazione enuncia, risiede soltanto nel giogo delle sue “metafore” (cioè dei suoi movimenti in trans) “a titolo di metafore” (p. 410).

Non si dà perciò oggetto della speculazione disgiunto dal suo linguaggio e dal suo effettivo operare: è per questo che ogni tesi viene sospesa, esattamente come fa Freud in Al di là…, ad ogni suo porsi per aprire la strada a sempre nuove deviazioni; che il procedimento della ricerca è anche quello del suo oggetto (per es. la coazione a ripetere di Freud che scrive, logica e linguistica a un tempo); e che le “intime e profonde predilezioni” comportando la messa in gioco, portando così tra l’altro a una ridefinizione del concetto di autobiografia, del “soggetto” stesso che specula (come è noto infatti Freud scopre la coazione a ripetere in un nipote; è della morte nella sua famiglia e tra i suoi discepoli e amici che Freud parla anche, sebbene ci tenga a distinguere, giustamente, questi fatti dalla sua morte; e molte delle precisazioni teoriche sono legate alle deviazioni del movimento legato al suo nome).

Si apre così lo spazio di una nuova logica nella quale non è più l’opposizione che domina, benché da essa procedano pure “effetti” dialettici, ma “l’irresoluzione” (p. 428). In essa l’obiettivo di ogni percorso non è che “un limite ideale, come dire una finzione” (p. 304), niente si dà nella sua purezza e tutto si muove in una “struttura di alterazione senza opposizione” (come all’interno o a partire dal principio di piacere in cui appare “il principio di realtà come il suo altro, e la pulsione di morte come il suo altro” (p. 377), basata sulle differenze e deviazioni prodotte dalla dif/ferenza.

Ma data l’indistinguibilità di procedimento e oggetto, allora la dif/ferenza diventa anche la legge del vivente, o meglio la deviazione a partire dalla quale soltanto essa si dà, così che l’evoluzione della vita non è che deviazione dall’inorganico in vista di se stesso, una corsa alla morte” (p. 377) e “ciò che si chiama realtà non è niente al di fuori di questa legge della dif/ferenza. Ne è un effetto. (p. 427).

La dif/ferenza, la deviazione, la sottrazione d’origine, la metafora: come si vede sono le stesse cose, in fondo che Derrida ripete da quindici anni ad ogni nuova pubblicazione e, se questo fosse tutto, anche questo suo ultimo lavoro nient’altro avrebbe fatto se non apportare un nuovo anello, fosse pure importante, ad un “sistema” che riceverebbe sì, dal suo punto di vista, un’ulteriore conferma e una migliore saldatura dei suoi nessi, ma rimarrebbe in sostanza immobile e inalterato. Ma come si è detto l’obiettivo di Derrida non è di costruire un suo sistema, quanto di decostruire quel sistema che è la metafisica, e naturalmente niente impedisce di utilizzare strumenti a volte identici o simili laddove e fin quando si dimostrino efficaci, cioè produttivi di una lettura disarticolante.

Il ritorno di risultati analoghi in campi differenti, inoltre, potrebbe anche significare tanto che non sono dovuti al caso né alla scelta di esempi ad hoc, quanto che il riproporsi di certe incrinature o di certe eterogeneità indica nel tessuto della metafisica i punti di più difficile riduzione e quindi di maggiore importanza strategica per la decostruzione, sui quali è perciò opportuno insistere. Tanto più che non è su di essi che Derrida insiste, visto che li pone quasi a cifre vuote di sostanza autonoma, quanto sulla lettura specifica e concreta che attraverso o in essi si opera.

Tuttavia se affermazioni di questo genere avevano dato in passato adito a critiche che ne limitavano la portata al puro livello teorico, mentre più rari erano coloro che sostenevano che anche la dif/ferenza, nonostante le affermazioni in contrario di Derrida, finiva col diventare essa pure principio costitutivo e fondamentale, e quindi rivestirsi di tutte quelle valenze che nella decostruzione invece si attribuiscono alla metafisica, è più probabile invece che le obiezioni a La carte postale saranno più numerose in questa direzione, data l’esplicita identificazione tra dif/ferenza e legge della vita e della realtà, pur fatta in modo tale che soltanto a partire dalla pluralità delle differenze essa sia desumibile. Obiezione certamente prevista da Derrida, come non meno prevedibile è la difesa che egli potrebbe a sua volta opporre.

 

J. Derrida - La carte postale -de Socrate à Freud ed au-delà, Coll. La philosophie en effet, Paris, Ed. Aubier-Flammarion, 1980

 

 

 

07/06/21

Il Saturno-Cronos di Goya (un appunto)


Gli occhi spalancati, come se fosse terrorizzato da quello che sta facendo, come se si stesse rendendo conto della terribile necessità a cui è sottoposto. Per essere, deve continuare a mangiare ciò che ha creato. E questo giogo non gli viene da fuori, ma nasce da lui stesso. Lui stesso è il proprio carnefice. Il pasto cannibalico non gli dà nessuna soddisfazione, solo attonito sgomento. Questa consapevolezza è ciò che lo fa impazzire senza che gli sia possibile uscire davvero di senno. Forse lo desidererebbe; forse sogna la smemoratezza, la pace dell’ebetudine, la possibilità di distruggere come un bimbo che gioca (come a volte viene descritto il destino, il caso – cfr.), e invece non può. Le Parche, rappresentate in un’altra pittura nera (cfr. anche la posizione), alla fine raggiungeranno anche lui. “L’ordine del tempo” di Anassimandro, prevede che lui stesso sia soggetto alla propria legge. Forse a volte sogna la propria fine, la pace che concede alle sue vittime distruggendole, e non vedendola mai arrivare, non riuscendo nemmeno a immaginarla, è squassato da una folle disperazione, che lo porta a moltiplicare e accelerare le distruzioni, senza accorgersi che, nello stesso tempo da esse ricomincia il ciclo delle nascite. Un vento lo spinge alle spalle. Ambisce all’aion, ma il versante eterno dell’aion che condivide è la sua stessa condanna, perché è da sempre e per sempre in movimento, per sempre non ha né avrà requie. La quiete di un’eternità pacificata non sarà mai alla sua portata: l’eterno presente di quella, in lui è eterno scorrere, fame che si rinnova e che va soddisfatta per potersi rinnovare, senza però potersi mai saziare. L’orrore che prova chi vede la sua immagine è lo stesso che prova lui. Una volta visto, non c’è modo di dimenticarlo. Anche noi, ora, sappiamo. Per sempre. Mentre avremmo preferito ignorarlo. Inutilmente.

 Appunto preso per un articolo a due che forse non si farà mai (da eventualmente sviluppare)