22/06/21

Intervista A GIULIA NICCOLAI (26-2-1982) - ADDIO GIULIA! 22 giugno 2021

 

ADDIO GIULIA!


Giulia Niccolai è nata nel 1934 a Milano, dove risiede e lavora come traduttrice. Ha pubblicato il romanzo Il grande angolo (Feltrinelli, 1966) e alcuni capitoli di King Clown su Il verri e O/E. Le sue raccolte Humpty Dumpty, Greenwich, Russky Salad Ballads & Webster Poems, prima pubblicate da Geiger a Torino, sono state riprese, unitamente a nuovi lavori, in Harry’s Bar e altre poesie (Feltrinelli, 1981). A Los Angeles è apparso, presso la Ped Hill Press, Substition ed è di imminente uscita un poema in prosa. Nel campo della poesia visuale sono da ricordarsi Poema e Oggetto (Geiger, 1974) e numerose mostre in Italia e all’estero.

Leggendo Harrys’s Barm’è venuto più di una volta il sospetto che Giulia niccolai non esistesse, che quel nome sulla copertina fosse lo pseudonimo collettivo di qualche associazione di traduttori o geografi, la sigla di una società segreta per la rinascita di Babele e il prodotto anomalo della promiscuità in cui vengono a trovarsi, sugli scaffali delle biblioteche, atlanti e dizionari, l’enciclopedia mondiale delle partenze e degli arrivi e le opere complete, album fotografici compresi, del reverendo Dodg-son. Sospetto che meno che mai avrebbe potuto dissolvere la prefazione, dato che il suo firmatario è l’altrettanto ipotetico G. Manganelli.

Ero preoccupato: chi avrei intervistato? Dove? Quando? E come ci saremmo intesi? Ma il sospetto può anche essere un’emozione piacevole, e lo è senz’altro se fa correre una volta tanto l’immaginazione provocandola con un nugolo di tracce, ammiccamenti, contraddizioni e verosimiglianze comiche, insensate e assurde nella loro logica di volta in volta impeccabile. Certo però che se qualcuno ti mette in queste condizioni coi suoi scritti, non può certo sperare di sottrarsi al loro riverbero. Così, finalmente, l’intervista io l’ho realizzata, ma mi guardo bene dal giurare sulla rispondenza alla realtà sua e della fotografia che l’accompagna.

 

Tu sei stata a lungo fotografa e continui a usare la fotografia nella poesia visuale. Questo lavoro, con i frequenti spostamenti che comportava, ha inciso anche sulla tua poesia lineare. Vorresti parlarne?

Sì, come fotografa ho viaggiato molto e molto mi sono annoiata in stazioni e aeroporti, ma è anche grazie a questa noia che sono nati i nonsense geografici di Greenwich. Certo i nomi dei luoghi mi hanno sempre colpito, sia come trascrizione dello shock provocato dall’incontro con l’indefinito sia per la varietà di echi, diffrazioni e valenze che il loro rapporto col linguaggio comune fa sorgere; ma è forse stata la noia che per prima, davanti a certe carte geografiche, orari ferroviari e tabelloni dei voli, mi ha spinto a cercare nell’incontro fortuito dei nomi delle trame possibili, delle allusioni a significati e ritmi, e ha fatto affiorare le vecchie cantilene e poesie infantili che ne hanno spesso costituito la base metrica.

 

Quali cantilene e poesie?

Le filastrocche e i nonsense così frequenti nei libri inglesi per bambini che mia madre, americana, mi leggeva, e che mi hanno abituata presto a quel lato comico dei nonsense che ancora conserva per me un grande rispetto liberatorio.

 

Dunque sei bilingue dall’infanzia. Questa caratteristica ti ha giovato o ha invece creato qualche problema?

Groddeck sostiene che i bilingui sono schizofrenici. A prescindere dal fatto che per me, almeno tendenzialmente, schizofrenici in qualche modo lo siamo tutti, devo dire che io sento il bilinguismo come qualcosa che mi fa molto piacere e insieme anche, un po’, paura.

 

Suppongo comunque che prevalga il primo aspetto, dato che molte tue poesie sono addirittura plurilingue.

Dire qualcosa per una che ha cominciato non dicendo, sia pure in senso letterale, assolutamente niente, non può che costituire un problema, il plurilinguismo mi aiuta a superare la paura di dire le cose in una sola lingua, provoca echi diversi e rende molto più evidente che cerco di essere ironica o comica, permettendomi inoltre di dire di meno.

 

Hai forse paura che usando una sola lingua la parola si appiattisca?

Piuttosto temo che non comunichi ciò che voglio io, come il fatto di prendere in giro, di giocare col linguaggio (anche se non come puro divertimento, beninteso), di prenderlo alla lettera. Soprattutto il lato più comico mi interessava, tanto più che, quando ho cominciato, erano molto rare le donne che usavano questo registro.

 

Questi meccanismi sono presenti anche nella tua poesia visuale? Che rapporti ci sono, in generale con quella lineare?

Poesia visuale e lineare procedono parallele, nel mio caso. E’ la stessa concettualità che presiede ad entrambe, gli stessi giochi che si ritrovano, o si richiamano e moltiplicano, nei due ambiti specifici. Come piglio una parola e la disloco, la spaeso, la nascondo o ne modifico la definizione o il ritmo (come faccio nei Webster Poems a partire dal dizionario inglese o con testi teorici dei Novissimi o di F. Curi in Dai Novissimi e Sostituzione), contattando magari le cose più disparate per meglio spiegarle a me stessa, per esorcizzarle, così faccio con gli oggetti.

 

Come vedi allora lo scrivere?

Come una specie di esercizio spirituale durante il quale posso anche frantumare il linguaggio, per esempio, ma sempre per impossessarmene al di fuori della nevrosi. E’ una mia concentrazione sul linguaggio, un esercizio che mi far star bene l’anima, paragonabile, sotto alcuni aspetti, a certe tecniche di meditazione orientale.

 

Sì, ma in che modo questi effetti, che potrebbero riguardare soltanto te individualmente, entrano e agiscono nella poesia?

Possiamo dire schematizzando, che il discorso orientale si basa su un qui ed ora nel quale devi giungere a trovare un tuo baricentro, in modo tale che i messaggi che invii agli altri non siano confusi con le tue paure, reticenze e negatività, se non vuoi che queste, sia pure in maniera inconscia, vengano poi recepite. Più sei concentrato in te stesso, più mandi il messaggio in maniera pura senza confondere le idee al destinatario. Questa concentrazione si proietta anche sul linguaggio. E’ un discorso che in un certo senso si riallaccia a quello fatto dai Novissimi sulla riduzione dell’io, anche se sappiamo che lì concerne prevalentemente la tecnica poetica ed è difficilmente fattibile. Devi cercare di essere un tubo vuoto e trasmittente: meglio trasmetti senza essere zavorrato da te stesso, e più funziona la faccenda. Anche in poesia.

 

 

 


Nessun commento:

Posta un commento