21/02/19

Ivy Compton Burnett, Padroni e maestri (1992)



Nei libri della Compton Burnett ci sono personaggi che leggono e talvolta che scrivono, ma raramente i dialoghi si soffermano a lungo sulla lettura e sulla scrittura come in Padroni e maestri, il suo primo vero romanzo, pubblicato nel 1925 a quarantun anni. La vicenda è ambientata in una scuola privata fondata da Nicholas Herrick, un critico che ne garantisce il prestigio con la propria fama ma ne lascia la conduzione a collaboratori e dipendenti scadenti o addirittura non qualificati. Giunto a settant'anni col cruccio inconfessato di non aver mai scritto niente di creativo, Nicholas annuncia, dopo una una notte passata a vegliare la salma di un collega, di aver finalmente portato a termine un romanzo. A questa notizia rivela di aver ripreso a scrivere anche il suo amico Richard Bumpus, che già ne aveva scritto uno da giovane ma che lo aveva fatto deporre nella bara di un amico senza pubblicarlo. Due morti e, legati a loro, due libri comparsi d'improvviso, come dal nulla.
Anche Miss Ivy in gioventù aveva scritto e pubblicato con un certo successo Dolores (1911), un romanzo di stampo vittoriano per struttura e sentimenti. Più tardi lo ripudierà, ma già nel 25 forse lo sente lontano; tra un libro e l'altro 14 anni di letture che la portano a una diversa concezione della letteratura e soprattutto una sequela di drammi personali, tra i quali spicca la morte in guerra del fratello Noel, che alla stesura di Dolores aveva collaborato, e il suicidio di due sorelle alla notizia della 
sua scomparsa. In Padroni e maestri è come se la Compton Burnett si rendesse conto che soltanto questa è la sua vera nascita come autrice, ma che resterà incompleta se prima non avrà fatto i conti col passato. E lo fa subito a modo suo, cioè senza parlarne se non indirettamente: iniziando a scrivere dunque, affronta una volta per tutte il problema della scrittura, in particolare di quella da cui sta prendendo congedo, quasi a sgombrare il campo al mondo dei suoi personaggi, nella cui impersonalità discioglie poi tutti i resti del proprio passato, per deporli con un ultimo omaggio nella tomba del fratello, assieme al libro scritto con lui e che li riassume.

Può quindi cominciare. Vittoriano sarà ancora e sempre il mondo dei personaggi, ma non lo saranno più né la forma dei romanzi né la prosa. Del resto l'ambientazione temporale nella Compton Burnett è spesso uno sfondo vuoto, dal quale la definizione storica emerge semmai come effetto secondario, anche se in Padroni e maestri sono presenti riferimenti alla questione femminile e al dibattito sul voto alle donne e sul divorzio oltre che al sistema educativo, che avvalorano l'affermazione di A. Falzon nella prefazione che, come Lytton Strachey e E.M.Forster, "la Compton Burnett andava vivisezionando dall'interno la mentalità vittoriana". Al lettore odierno invece i suoi libri appaiono proiettati come in un'epoca mitica, perfettamente conclusa in una sua completezza inalterabile, alla quale la patina depositatavi dalla storia prima di eclissarsi fornisce solo la nitidezza indispensabile a evitare i pericoli dell'indistinto.
L'ambientazione spaziale di Padroni e maestri è già quella, tipica della scrittrice inglese, delle cosiddette "istituzioni totali": la famiglia, la canonica e in particolare qui la scuola. Nella loro soffocante chiusura si consumano i rapporti di forza relativi alle differenze generazionali (i rapporti genitori-figli e insegnanti-allievi), di ceto (direttore-dipendenti, ricchezza-lavoro salariato) e di sesso (fratello-sorella, marito-moglie, padre-figlia) che costituiranno i motivi conduttori anche dei romanzi successivi. In questa sua prima prova tuttavia, è come se la Compton Burnett li disponesse tutti sul tappeto per saggiarne le potenzialità, cominciando ad analizzarne alcuni e altri accennandoli soltanto. Lo stesso accade del resto per buona parte dei sedici personaggi (troppi forse in relazione alla misura della narrazione), anche per alcuni non riconducibili allo statuto di figure di contorno. Che il risultato complessivo resti solido e la lettura molto godibile, sta peraltro a indicare che altri erano i problemi che questo romanzo doveva prioritariamente affrontare, e che l'autrice ne è venuta a capo: problemi linguistici e strutturali cioè. Per esempio la scansione della trama mediante un montaggio veloce quasi privo di transizioni e la sua rarefazione, anche se non mancano elementi di sostegno narrativo all'attenzione del lettore, dall'esplicitarsi dei rapporti tra i personaggi al mistero dei libri di Nicholas e Bumpus. Azioni e fatti sono ridotti ai minimi termini di una quotidianità che poco o nulla nobilita o risolti tramite un largo uso dell'analessi nei dialoghi, che assolvono quindi un compito narrativo più che di definizione psicologica. Il lettore si ritrova di conseguenza a dover spesso colmare una fitta rete di vuoti, reticenze e allusioni destinate a non essere chiarite senza il supporto di una caratterizzazione precisa, anche perché il tono dei dialoghi è in generale indecidibile: il tono neutro di una scrittura che, per dirla con Manganelli, ha come fondamento stilistico un "gelo letale", e che in modo neutro va letta, a dispetto dall'apparenza teatrale dei dialoghi. La difficoltà di venire a capo delle vere intenzioni dei personaggi si traduce in quella di formulare un giudizio preciso su molti di loro, tanto più che la scrittrice stessa si guarda bene dal farlo e dal porgere qualche aiuto al lettore, che quindi spesso si ritrova oggetto della famosa perfidia della "signorina" al pari dei suoi personaggi, ricavandone comunque un piacere al quale lo stesso disagio contribuisce. Se infatti i personaggi durante la lettura suscitano sentimenti alterni, a volte persino positivi, l'impressione finale è sempre che la dolce miss Ivy non salvi proprio nessuno, né tra i padroni e maestri né tra i sottomessi o gli amici: meno per loro ambiguità e malizia che per l'inesorabile mediocrità nella quale in fondo tutti si adagiano, pur cullandosi nella convinzione di andarne esenti e di essere fuori dal comune, che è la più banale e comune delle ambizioni. Non a caso alla fine del libro Herrick dice alla sorella: "Non credo di essere mai stato un tipo come gli altri." "No. Certo che no," gli risponde la sorella. "Sarebbe tremendo che tu lo fossi." Appunto.



Ivy Compton Burnett, Padroni e maestri, trad. N. Rosati Bizzotto, 
Ed. La Tartaruga, Milano, p. 122, £ 24.000





                                   

18/02/19

Thomas Bernhard, Camminare (Adelphi, 2018)




Articolo già uscito in doppiozero.com il 30 aprile 2018

Camminare è l’attività che più di ogni altra accomuna i personaggi di Thomas Bernhard. Camminare e parlare. Camminare e pensare. Camminare e pensare parlando. Dialogare mentre si cammina, ma più spesso monologare in presenza di un ascoltatore, che interloquisce il meno possibile e serve prevalentemente come spunto per variazioni, raffronti e analogie per ciò che viene detto. I monologanti sono perlopiù persone isolate, o che hanno fatto terra bruciata attorno a sé: uomini, sempre, che in genere bramano una solitudine che però li sgomenta e inorridisce, e che quindi hanno periodicamente bisogno, secondo modi e tempi che sono loro a decidere, di qualcuno che la interrompa, su cui riversare il bolo infinito delle loro rimuginazioni in un flusso che non conosce pause e non chiede il permesso, che essi espettorano per poterlo sentire a loro volta come da fuori, certificato dalla presenza estranea. Spetterà all’interlocutore/testimone trascrivere “quasi alla lettera” i monologhi, per la qual cosa non è indispensabile che sia un amico, basta che sia qualcuno di affine “nello spirito”, o “nella sensibilità” (La partita a carte, p. 20), ovvero un ospite, come l’italiano nell’omonimo racconto (ora in Al limite boschivo).

Di come le attività di camminare, parlare, riflettere si manifestano e combinano, nei vari libri viene esplorata e descritta la completa fenomenologia, ma in nessuno in modo così approfondito come Camminare, stranamente solo ora (e meno male!) tradotto da Giovanna Agabio per Adelphi, che forse non sarà il migliore tra i libri di Bernhard, come da lui sostenuto con Daniele Benati che racconta di averlo incontrato nell’83, ma è certamente tra i risultati più alti di tutta la sua produzione (impressione che peraltro si ha spesso quando si legge qualcosa di nuovo a distanza dall’ultimo libro). Il passo può essere lento mentre veloce è il pensiero, e viceversa; o può trasformarsi in breve corsa, con saltelli, soste e riprese accompagnando, favorendo o interrompendo i pensieri, a volte impedendoli, a seconda dei luoghi attraversati, con il loro influsso decisivo nella definizione e tonalità di ciò che viene pensato e/o detto, la loro incombente materialità, o la loro presenza discreta, invisibile, derivata dall’abitudine a percorrerli e ripercorrerli senza doversene più preoccupare, con il senso di sicurezza e di sostegno che ne deriva, tanto che a volte basta una variazione, di accompagnatore o di tragitto, a scatenare la crisi, o a innescare la miccia da cui parte l’alluvione delle parole. Alluvione distruttiva come quella che sommerge le terre del principe Saurau in Perturbamento (ma benefica come le piene del Nilo per il lettore).
È appunto da una crisi di questo genere che parte Camminare. Un uomo di nome Karrer impazzisce anche in seguito al suicidio del suo amico Hollensteiner, un chimico, e il suo sodale Oehler, che passeggiava con lui tutti i mercoledì, si vede costretto, per non impazzire a sua volta per il cambio di consuetudini, a chiedere di sostituirlo a un altro amico con cui di solito passeggia invece il lunedì, e durante la passeggiata gli racconta dell’impazzimento di Karrer e del suicidio di Hollensteiner con il condimento di tutte le tipiche riflessioni bernhardiane sulla vita, la società, la filosofia, la verità, la famiglia e via di questo passo.
Il tono delle sue riflessioni, come avviene sempre nei libri del grande scrittore austriaco, ha sempre un che di estremo, di duro, paradossale e risentito, che richiama una prassi oggi talmente diffusa da non essere quasi più percepita e da essere diventata una vera e propria industria della negazione, come peraltro scriveva Magris parlando di Bernhard già 40 anni fa. Se però negli ultimi decenni niente è diventato più facile che denigrare, screditare, insultare, disprezzare e demolire, allora niente è più difficile che farne stile e metodo in letteratura; e appunto per questo, che il potenziale di Bernhard sotto tale aspetto non abbia perso un grammo della sua ferocia dopo tanti anni e tante riletture, la dice lunga sul suo valore. Allo stesso modo l’insistenza e la ripetizione, che sono la morte di ogni affermazione e argomentazione, nel grande scrittore austriaco sono invece la linfa che nutre il discorso. Come mai? Perché nella sua opera non sono mai semplici ripetizioni e iterazioni. Ogni affermazione e ogni negazione vengono riprese, rivoltate, sviluppate, sfumate, specificate, ampliate, relativizzate, e quindi a loro volta sempre negate senza che vi sia mai un punto fermo, un approdo a qualcosa che possa essere considerato definitivo e veritiero. Se qualcosa viene estratto da questo flusso, è solo una citazione, come lo è tutto: “In fondo tutto ciò che viene detto è citato” (Camminare, p. 28, sott. di B.). Niente è mai quella cosa lì, quel fatto o quel sentimento, ma sempre quella cosiddetta cosa, quel cosiddetto pensiero o sentimento (“il cosiddetto intelletto” e “il cosiddetto sottointelletto”, p. 18 e poi tutto: scienza, arte, tecnica, malattia, sapere, p. 92-3; ma già: “parlo soltanto tra virgolette, tutto quello che dico è detto soltanto tra virgolette”, affermava il principe Saurau in Perturbamento, p. 169): qualcosa che serve solo a chi effettua l’effrazione e il taglio, cioè qualcosa che viene usato per altri fini, e quindi mai può consistere in sé, mai essere vero, mai (cor)rispondere alla realtà e al mondo. Ogni discorso è un discorso riportato e anche il trascrittore e testimone, oltre a venir modificato nel suo essere da ciò che ha sentito e che riporta, non ha mai un pensiero suo, un punto di vista esterno e superiore, ma viene trascinato da ciò che dice, che è sempre ciò che qualcuno ha detto, e spesso da ciò che qualcuno ha detto che qualcuno ha detto e così via, ma tutto nella stessa frase, ogni cosa e affermazione incastrate le une nelle altre, che da sole non sussistono e se separate si sbriciolano, o acquistano una prosopopea, un’enfasi teatrale che già ne nega la validità e subito ne mostra l’essenza ridicola, assurda.
                                                                       
Spesso i monologhi (che potremmo chiamare monologhi in compagnia, o meglio: davanti a spettatore, quasi si fosse a teatro, come peraltro Bernhard stesso invita a leggere anche i suoi romanzi) si muovono per un po’ attorno a un nucleo che può essere un concetto, un’immagine, un evento o una persona, ma presto scartano in sempre nuove direzioni per poi recuperare qualche filo degli argomenti affrontati in precedenza in modo da tratteggiare una parvenza di coerenza, un disegno riconoscibile e della medesima tonalità di fondo, sia pure molto variata. Se però il lettore riesce per un istante a strapparsi dal ritmo trascinante del delirio (della prosa), cosa non facile e che si fa malvolentieri, come una piccola violenza autoinferta, si accorge che quello che appare come un ragionamento serrato spesso non è che un coacervo di osservazioni senza capo né coda, o meglio: senza logica, da cui ogni logica è (dall’autore) scientemente bandita, e anzi denunciata come menzognera, falsificatrice, con le varie componenti slegate le une dalle altre e tenute insieme solo dalla bava del ritmo e del tono emotivo dai quali poi ogni lettore (e lo stesso lettore a ogni rilettura) vede emergere, colpito come da una ruvidità imprevista o da una sassata, questa o quella espressione o riflessione, con cui costruisce il proprio libro e disegna ogni volta il suo personale Bernhard. Si impartisce da solo la propria lezione, di cui si compiace per un attimo prima di gettarla e passare, sempre nello stesso romanzo magari, ad altro, a plasmare un’altra storia, un altro autore e un altro lettore, con gli stessi nomi.

“Se ascolti attentamente” disse il principe “sentirai che, in ritmi pensati apposta per te, è sempre la tua storia che ti viene raccontata e che ti danno a intendere” (Perturbamento, p. 199). Nessun personaggio può quindi essere assunto a portavoce di Bernhard, anche (o soprattutto) quando porta lo stesso nome e cognome dell’autore e ne condivide alcuni momenti esistenziali decisivi (come l’asportazione di un tumore ai polmoni e la degenza in un padiglione ospedaliero in Il nipote di Wittgenstein), ma insieme tutti lo sono, sia pure di una visione parziale e limitata al contesto e al tenore narrativo: in tutti il meglio e il peggio di Bernhard sono disseminati senza nemmeno tentare di assicurargli una parvenza di coerenza, che del resto, a dispetto di ciò che ne pensano loro, nemmeno i personaggi hanno. Quasi tutti vi ambiscono, quasi tutti tentano di darsi, o tentano di dare all’interlocutore, un’immagine di sé in qualche modo solida e stabile, che li identifichi e definisca, ma senza mai riuscirci, e appunto in questo consiste e si consuma il loro reiterato, incessante fallimento essenziale.
A definirli è solo il nome, quando ce l’hanno (per esempio il narratore di Camminare è anonimo), il ruolo o titolo, la posizione sociale, o la professione (dottore, oste, principe, chimico, industriale, musicista…), ma loro, di fatto, non sono niente al di fuori dei loro discorsi, dei gesti o delle consuetudini e manie, e delle aspirazioni irrisolte e irrealizzabili che scaturiscono (e da cui scaturiscono) dalle loro ossessioni, riassumibili quasi sempre nella tensione verso una verità per definizione irraggiungibile, impossibile in quanto falsificata, intrisa di errore, già negli strumenti, come la lingua, con cui solo è sperabile di poterla attingere e comunicare. La menzogna (l’errore) è già all’origine. È già quella dell’origine. Lo smantellamento dell’edificio della menzogna, da quella filosofica a quella famigliare e sociale (a partire dalla sconsiderata e onerosa perversione di fare figli invece del più igienico e razionale suicidio, per arrivare alle istituzioni e allo Stato austriaco, oggetto questa volta di un feroce attacco per la sua ostilità al sapere e all’innovazione, che si tradurrà nel caso specifico nel suicidio di Hollensteiner), non può essere pertanto disgiunta da coloro stessi che la stanno mettendo in atto. Ne consegue che anche costoro non possono accettarsi per come sono, per quanto proprio in questo conflitto e nella necessità di rilanciare continuamente la ricerca, nell’intransigenza a non interromperla e nemmeno allentarla, riescano talvolta a trovare una provvisoria stabilità e identità. Se non che, subito, sono essi stessi a riconoscerne la natura fasulla e a vanificarle, riprendendo sempre di nuovo la ricerca non finché trovi l’impossibile compimento, ma finché non precipitano nella follia o riescono a compiere quel suicidio nella cui orbita i loro pensieri hanno sempre gravitato. In questa perenne instabilità, e nel perturbamento che ne deriva, sono coinvolti sia gli interlocutori/testimoni, sia soprattutto i lettori, che si trovano destabilizzati nelle loro certezze elementari, essi pure costretti a riconoscerne la natura fittizia e caricaturale e a trovarvi delle alternative che, ormai lo sanno, non reggeranno alla prima difficoltà o disanima.
Tutti cercano (cerchiamo) allora di divertirsi, nel senso pascaliano, ma non ci riescono se non per breve tempo e in modo incompleto, ciò che non fa che accentuare l’insoddisfazione e l’angoscia da cui dovevano distogliere. Le ossessioni potrebbero essere la giusta diversione, la più efficace, totalizzanti come sono, se non che proprio esse, con la loro tensione spasmodica e intransigente, sono quelle che con maggior forza e efficacia riconducono al punto da cui, per eliminarne gli effetti letali, erano dipartite. E tuttavia, “se non avessimo la capacità di distrarci / egregio signore / dovremmo ammettere / che non esistiamo assolutamente più / l’esistenza è sempre una distrazione dall’esistenza” (L’ignorante e il folle, p. 34). Sembra una contraddizione, ma non lo è, perché “tutte le frasi che vengono dette e che vengono pensate e in generale che esistono, sono al tempo stesso vere e al tempo stesso false, se si tratta di frasi vere” (Camminare, p. 21).

Con tutto questo, la distrazione resta un male, e il compito che definisce i personaggi di Bernhard è di rifiutarla e di dedicarsi al pensiero senza transigere, “fino allo sfinimento”. Se però si passa al vaglio, con “la necessaria freddezza mentale e acume” ciò che ascoltiamo, vediamo e facciamo, tutto appare orribile, “qualcosa di meschino e di vile e di superfluo” e “ogni giorno diventa un inferno... Perché tutto ciò che viene pensato è superfluo. La natura non ha bisogno del pensiero” (p. 13-14). Camminare, di questo doppio pensiero, nient’affatto dialettico, pensiero e contro-pensiero, indaga le varianti, che i suoi personaggi portano al limite, consapevoli dell’impossibilità di farlo senza esserne annientati e per questo della necessità di fermarsi un attimo prima di attingerlo, se non si vuole sprofondare nella follia come Karrer o suicidarsi come Hollensteiner.
È in questo alternarsi tra opposte esigenze, in questo ribaltare l’una nell’altra e essere attratti da entrambe senza poter scegliere che vivono molti personaggi di Bernhard, ed è questo che ne rende le figure imponenti e insieme ridicole, razionalissime e insieme folli, folli perché razionalissime, ridicole nella loro imponenza. E, per il lettore, perturbanti, finché le segue come loro seguono i loro pensieri o manie, e al contempo rassicuranti nel momento in cui coglie la loro ridicolaggine, che però non consola davvero, perché in essa si manifesta anche tutta la loro grandezza e tragicità. Non sono tragiche nonostante siano ridicole: lo sono nel loro stesso essere ridicole. La comicità dà sollievo, diverte, ma solo in modo momentaneo, perché poi, a guardarla bene, proprio in essa appare il tragico, che invece, isolatamente preso, nella sua pretesa di essere assoluto, sarebbe solo e davvero, nel peggior senso del termine, ridicolo.

Anche per questo, tra le pagine di Camminare a mio parere più riuscite, ci sono quelle, mirabolanti, esilaranti e tremende, in cui viene narrato lo scivolamento inarrestabile di Karrer nella pazzia in un negozio di abbigliamento, mentre si fa mostrare, come suo solito, tutti i pantaloni controluce per vedere dove la trama è meno fitta, i suoi “punti radi”, immancabili del resto (operazione che dovremmo fare anche noi per ogni libro che leggiamo, a partire da questo), e comincia a discettare della qualità dei tessuti con osservazioni che si fanno sempre più pesanti e ingiuriose (altro che “tessuto inglese di primissima qualità”, questa è “merce di scarto cecoslovacca”!), scandite dal bastone che viene picchiato sul banco, con un martellamento che è lo stesso delle frasi che vengono ribadite con sempre maggiore insistenza e del modo di narrare di Oehler che le descrive a Scherrer, lo psichiatra che egli disprezza e teme, e in seconda battuta all’anonimo narratore che a sua volta le ribadisce, scandite in modo identico, al lettore.
La deriva della follia è inarrestabile come quella delle parole e del comportamento di quasi tutti i personaggi di Bernhard, personaggi radicali, che in nessun caso si accontentano di mezze misure o di soluzioni non definitive, magari solo per segnare un provvisorio punto di riferimento da cui poi ripartire. No, solo la perfezione, per loro. E la perfezione tutta d’un colpo. Compiuta e completa, dall’a alla zeta. Quello che conta è soltanto il risultato, che deve essere senza sbavature, inscalfibile, assolutamente ineccepibile. Il percorso, come vuole la pia vulgata, vale solo per chi lo effettua, con le sue tappe necessarie, rigorosissime of course, ma in fondo di poco rilievo, disprezzabili, senza interesse per l’opera, di qualsiasi genere essa sia, né per i suoi destinatari (il genere umano, praticamente). Questo li condanna tutti al fallimento, di cui non restano tracce, se non talvolta in abbozzi e appunti che però vengono quasi sempre immediatamente distrutti dai famigliari; fallimento che è ancora peggiore tuttavia quando l’opera sembra realizzata (l’edificio a forma di cono di Correzione; e paradossalmente anche Glenn Gould in Il soccombente, il quale, mentre il pianista protagonista soccombe perché non è Glenn Gould, riesce e insieme fallisce proprio perché Glenn Gould lo è).


Con tutto ciò, è vietato fermarsi, rinunziare. Nemmeno per chiedersi cosa si sta facendo, a che punto si è, come procedere. “…non dobbiamo domandare a noi stessi come camminiamo, perché allora cammineremmo diversamente da come camminiamo in realtà [… e nemmeno] come pensiamo, perché allora non potremmo più giudicare come pensiamo, in quanto non sarebbe più il nostro pensare” (p. 107). Cioè non sarebbe più lo stesso pensare del pensiero sul cui “come” ci interroghiamo. Cioè ancora: non è possibile nessun meta- (metalinguaggio, metapensiero ecc.), e non lo è soprattutto laddove, e nella misura in cui, in ogni caso nel linguaggio e nel pensiero un aspetto meta- non solo è possibile ma addirittura è intrinseco, ineliminabile. Il discorso che nega la possibilità del metadiscorso è già un metadiscorso. E viceversa il discorso che si pone come metadiscorso non solo non può esserlo dello stesso discorso di cui si pone come meta-, ma è già esso stesso, in primo luogo, un discorso senza altre specificazioni. (Ma Bernhard in fondo non fa altro.)
Lo stesso vale per i concetti e le pretese di “auto-osservazione” e di “autodescrizione”, e “autocompassione” e “autoaccusa” ecc. (p. 108). “Noi stessi non ci vediamo, non ci è mai stata data la possibilità di vedere noi stessi. Ma non possiamo neppure spiegare a un altro (a un altro oggetto) come è lui, perché possiamo spiegargli soltanto come noi lo vediamo, il che probabilmente corrisponde a quello che è, ma che noi non possiamo spiegare dicendo lui è così” (ibid.). E allora parliamo come se quello di cui parliamo fosse così, senza poterlo pensare e tanto meno comunicare a qualcun altro, anche se lo pensiamo insieme, ma proviamo lo stesso a pensarlo e a dirlo, e a pensarlo e a dirlo “fino in fondo” anche se è impossibile. Pensare è già pensare fino in fondo, altrimenti è nulla.
Riassumo: possiamo, e anzi dobbiamo, fare qualsiasi cosa, e farlo in modo assoluto, ma non siamo assolutamente mai in grado di farlo fino in fondo, e questo ci schianta; e d’altra parte, soltanto in questa impossibilità, nell’errore che la determina e che diventa così “l’unico fondamento reale” (p. 58), possiamo vivere, e vivere, schiantati, in una realtà che è anche fuori di noi. Che non possiamo definire, comunicare e nemmeno nominare, ma a cui, finché non cadiamo nella pazzia o non rinunciamo alla vita, continuiamo a pensare e a camminare intorno, avanti e indietro, tutti i giorni, lentamente o più velocemente, “fino allo sfinimento” (p. 51), nei luoghi da cui non riusciamo a staccarci o a cui finiamo sempre per ritornare.

Tutto è insopportabile e orribile”, dice Oehler; “nulla dovrebbe essere più importante per noi di esistere costantemente, anche se solo nel, tuttavia al contempo contro il fatto di un’esistenza insopportabile e orribile” (p. 15-16), e “con tale consapevolezza, l’unica davvero rivoluzionaria, uccidersi” (17). Eppure, per chi rimane e questi discorsi li fa, il suicidio di chi è riuscito a compierlo, anziché essere qualcosa di positivo (secondo logica: se la logica importasse), è un trauma spesso insuperabile (non certo per i parenti, che semmai provano solo vergogna: non glielo perdonano, per loro è un’offesa che non si meritavano, una macchia non lavabile).

E allora si continua a spremere ogni pensiero, ogni azione o fatto, a rivoltarli in tutte le maniere e direzioni finché sembrano esauriti, come se solo allora si potesse trovare finalmente un punto fermo, un qualche equilibrio, un po’ di riposo. Ma esauriti non sono mai, e infatti accade sempre che all’interno di una procedura su qualcosa anche di molto diverso, per analogie imprevedibili o salti inspiegabili se non a posteriori, ritornano e devono essere ripresi da nuove angolature e portati, assieme, verso il loro apparente esaurimento, che è facile prevedere darà poi luogo, quasi sempre, a un nuovo esame, con procedure simili, quando un altro “movimento”, per usare un termine musicale, sembrerà prossimo a chiudersi o si troverà chiuso in una impasse. Tutto, i ragionamenti e i discorsi come i progetti e le opere di tutti i personaggi, deve tornare, ma tutto è destinato a restare inconcluso, perché anche affrontare la domanda più semplice (“Perché mi alzo la mattina?”, p. 40), cercare di capire una cosa, una persona, o solo una sua azione o decisione, o comporta “in ogni caso risalire sempre a tutto” (p. 39) e quindi la necessità di diramare l’indagine fino a coinvolgere ogni aspetto della realtà e del pensiero. A esaurirlo. Si vuole la verità, ma più la si vuole, perché non si può farne a meno, perché “pensare in modo assoluto” (p. 41) è un dovere (“devo considerare ogni cosa in rapporto con tutte le cose possibili”, diceva già il principe Saurau in Perturbamento, p. 68), più ci si rende conto di mancarla. “Quello che è, è ovvio” (p. 40), ma capire come è non si può. Dirlo, ancora meno. E allora non resta che tornare a parlare. Parlare, pensare, camminare.




Nota di Lettura

Tutti i testi di Bernhard citati sono editi da Adelphi, tranne La partita a carte e Correzione (Einaudi, 1983 e 1995) e Al limite boschivo (Guanda, 2012). L’ignorante e il folle è compreso in Teatro IV (Ubulibri, 1999, in ristampa a breve da Einaudi). Dove compare solo il numero di pagine, la citazione è da Camminare (Adelphi, 2018). Il riferimento a Claudio Magris è relativo all’articolo “Tenebra e Geometria”, in Dietro le parole (Garzanti, 1978). L’articolo di Daniele Benati si può trovare ora qui: http://www.minimaetmoralia.it/wp/ricordo-di-thomas-bernhard/– 12 dicembre 2011. Alcuni dei testi di Bernhard sono corredati da belle pre- e postfazioni, tra cui si segnalano quelle particolarmente pregevoli di Eugenio Bernardi a Teatro IV e a Perturbamento.

15/02/19

Achille, Pentesilea, Tersite. Rancore, lucidità e altre sconfitte (Achilleide - Parerga 5)



Trasformano ogni nefandezza in gesto clamoroso, immortale; lo innalzano al cielo ed è solo lì che noi lo possiamo vedere, timorosi e incantati. Ma il modo giusto di guardarli si avvicina più a quello di Tersite, il calunniatore, il fifone, l’ultimo a partire e il primo a fuggire, la voce dal basso, che proprio per questo viene percosso e cacciato dall’assemblea, e infine ucciso. Il lettore sagace può già indovinare da chi.
Facile: proprio dall’eroe per eccellenza, Achille, che era stato da lui deriso per essere stato colto, si narra (a meno che fosse una menzogna di Tersite: ma chi l’ha raccontata se lui è stato soppresso immediatamente?), in un momento di bestialità e di debolezza. (Ma anche in un momento in cui la bestialità, il tornare prima dell’umano, contiene anche il germe dell’andare oltre, un che di metafisico che travolge l’eroe mentre indugia, disorientato, sconvolto, sul suo limite inferiore, scoprendo che forse è lo stesso di quello superiore.)


Tersite sorprende Achille mentre si accoppia con il cadavere di Pentesilea che ha appena ucciso e, come di consuetudine, spogliato delle sue armi, che andranno a rimpinguare il bottino. Allora vede quanto è bella la terribile guerriera e viene preso dal desiderio di possederla. E lo fa. Non avendo potuto averla da viva, violentarla come si fa con le donne dei guerrieri; avendo dovuto ucciderla per soggiogarla, in quanto grande guerriera essa stessa, ora che ne scopre la divina bellezza viene invaso da un desiderio irresistibile, assoluto, a cui non sa opporsi, e si accoppia con la morta. È solo desiderio bestiale? O non è anche la resa alla quale chi non si arrende davanti a niente e a nessuno, chi travolge ogni ostacolo, è costretto da ciò che ostacolo non è più e lo travolge con l’assoluta bellezza dell’inermità che solo nella morte appare? Non è con la morte che si sta allora accoppiando? E quindi non è questo che suscita la derisione di

Tersite, che ride proprio per difendersi, come spesso avviene davanti a ciò che supera e non si capisce, a ciò davanti a cui altra difesa non c’è, per non esserne sopraffatto? In questo riso Tersite però vede, e mostra ad Achille, la morte che lo attende, l’attrazione che lo soggioga nel mentre stesso che gli fa orrore e vorrebbe evitarla. Achille non tollererebbe, allora, che la sua debolezza venga smascherata dal più debole. Per evitare che proprio da lui venga resa pubblica, sopraffatto dalla rabbia, e dalla inconfessabile vergogna, lo uccide.

La derisione non è la lucidità. Tersite vede qualcosa che è solo alla lettera. Nella lettera c’è tanta verità, ma non tutta.
C’è, in questa storia, una serie di cedimenti e di sconfitte, che ruotano tutte attorno alla morte, e non lasciano scampo a nessuno, in primo luogo a chi la infligge.
Ero partito dall’idea della lucidità che qualcuno lega al rancore, pensando che avesse una parte di ragione. E invece mi sono accorto che non è così. Lo sguardo che nasce dal rancore mostra alcune cose che forse erano poco evidenti, ma non per questo è lucido, perché il suo occhio è al contempo acuto e torbido. Non è dal rancore che la lucidità e il disincanto nascono. È sì dal rifiuto dell’incanto, dalla sua oppressione, perché anch’esso viene da una violenza, che talvolta nasce il rancore; ma il rifiuto dell’incanto non è automaticamente il disincanto, e tantomeno la lucidità.


10/02/19

Emile M. Cioran, Il demiurgo cattivo (1986)



“L’orrore di vedere un uomo là dove si poteva contemplare un cavallo!”: anche qualora non avessi già ammirato Emile M. Cioran, sarebbe bastata questa fase a conquistarmi per sempre. La si può trovare nell’ultimo tra i libri dello scrittore francese (dico francese anche se Cioran è nato e vissuto in Romania, fino al 1937, perché, come dice egli stesso, “non si abita un pese, si abita una lingua. Una patria è questo, e niente altro”) che da qualche anno Adelphi sta traducendo con regolarità: Il demiurgo cattivo, una raccolta organica di saggi e aforismi che però non intendo recensire.
Penso infatti che recensirei libri di Cioran, soprattutto se li ama, sia l’ultima cosa che un critico dovrebbe fare. Perché se è vero, come egli scrive di Ceronetti nel recentissimo Exercises d’admiration (Gallimard, 1986), che “di tutti gli esseri, i meno insopportabili sono quelli che odiano gli uomini”, è anche vero che propagandare la misantropia, accomunando in un legame affettuoso uomini che odiano gli uomini, è un controsenso. Un misantropo da solo, o che legge gli scritti di un altro suo simile, va benissimo infatti; a due insieme, che magari si consolano a vicenda, si comincia già a pensare con un sorriso; ma esortare i misantropi di tutto il mondo a unirsi è una farsa patetica, e basta. E nessuno che di farse sia spesso vittima o protagonista va a cercarsene di spontanea volontà una razione supplementare. Se non per riderne. Per raddoppiare la farsa con l’assurdo. Ma a che pro, allora? La denuncia è più ridicola del suo oggetto.

E’ vero altresì che etichettare Cioran semplicemente come un misantropo sarebbe limitare eccessivamente la portata del suo odio, tanto onnivoro da non risparmiare niente e nessuno (dalla creatura alla creazione tutta al creatore, il demiurgo cattivo, appunto), nemmeno se stesso quindi, passione indebita e da rifiutarsi al pari di ogni altra.
Come riassumere le ricchissime ramificazioni, sfumature e reazioni a cui tale odio dà luogo, così è impossibile sintetizzarne i fondamenti senza ricadere in quelle formule che un’antichissima evidenza ha ormai trasformato, quando generali, in banalità, e che solo a forza di estrema tensione di stile Cioran torna a far vivere e fruttificare. Basti dire che egli è uno gnostico senza aldilà, e quindi non “innocente” né destinato alla “salvezza”, e che la conoscenza non è per lui il segno e la via verso la liberazione come per gli gnostici antichi (sui quali si veda il bellissimo Sulle tracce della Gnosi, di H. C. Peuch, Adelphi, p. 614, £ 65.000), semmai una condanna aggiuntiva di cui non può più disfarsi: assoluta lucidità che non lascia spazio a nessuna speranza come a nessun rimpianto
L’unica liberazione a cui può aspirare, salvo poi restare “infelici per sempre”, è quella dai desideri e dalle illusioni, che è solo raggiungibile attraverso “l’io della visione disingannata”, diventando uno spirito “contemplativo” e vincendo la “triplice fatalità” di essere sé (“l’io, questa lebbra”), di essere vivo e di essere uomo, delle tre la peggiore. Liberazione che comunque Cioran sa essergli, eccetto rari momenti, costituzionalmente preclusa, e che anzi non manca di suscitargli sospetti: non solo infatti afferma che “giocare agli spiriti puri rasenta l’indecenza”, ma anche che “la disillusione è l’equilibrio del vinto”.
Se non tutti, gran parte dei suoi testi si muovono quindi nello spazio che si apre tra la consapevolezza, orgogliosa e insieme orrifica, di appartenere agli “spiriti agitati”, di essere cioè un uomo (“il punto nero della creazione”), e il desiderio, o addirittura la necessità della contemplazione, che pure ha i suoi lati orrifici. Il fatto stesso di dibattersi in questa alternativa indica che Cioran è inchiodato per sempre al primo polo; il fatto che tenda al secondo ci dice però che non ne è completamente prigioniero. E allo stesso modo l’orgoglio che prova per il primo polo, che pure disprezza, non ne fa un acquiescente, così come l’orrore che prova per il secondo, che pure agogna, non ne fa un idealista o un teorico della fuga.
Si potrebbe pensare che questa resta comunque una contraddizione, e forse lo è, ma Cioran, per fortuna, di contraddizioni è ricco, né egli cerca di conciliarle o di smussarle; al contrario le assume esplicitamente portandole tutte al limite di tolleranza, per sfondarle: dove vuole arrivare infatti è al di là; e tutte le porte che consentono di accedervi non sono che una sola, a dispetto della diversità delle vie che vi conducono. “Trovare che tutto è privo di fondamento e non farla finita, non è un’incoerenza: spinta all’estremo, la percezione del vuoto coincide con la percezione del tutto, con l’ingresso nel tutto. (…) Se c’è una possibilità di salvezza fuori dalla fede, si deve cercarla nella facoltà di arricchirsi al contatto con l’irrealtà.”
Un misantropo come Cioran può essere solo un vizioso della metropoli, uno che ha bisogno di quella stessa gente che lo soffoca, che la ama quanto più gli offre il destro di odiarla; uno che vive del furore che l’inferno della vita gli suscita, tanto che difficilmente si potrebbe immaginarlo in un mondo in cui i suoi desideri e le sue prescrizioni fossero completamente adempiuti. Si sparerebbe al solo vederlo profilarsi. Ormai dovrebbe prendersela solo con se stesso: e come resistere?
In fin dei conti non dice anche che proprio lì il demiurgo cattivo, la causa di tutti i nostri mali, è tra tutti gli dei “il solo da cui ci ripugna separarci”?
Il fatto è che Cioran non è né vuole essere un filosofo: di questi non possiede l’imperativo né della coerenza né della sistematicità, e soprattutto non condivide né il modello argomentativo né il lessico tecnico e scolastico, gravissimo “crimine di leso-linguaggio”. E se talvolta sembra filosofare, lo fa “come se la ‘filosofia’ non esistesse, alla maniera di un troglodita abbagliato, o sbigottito, dalla sfilata di flagelli che si svolgono sotto i suoi occhi.” Non è un filosofo perché sa, e può, parlare solo di ciò che lo concerne personalmente, anche se poi, a ben vedere, tutto lo concerne. Il furore del coinvolgimento e del rifiuto, tuttavia, anziché condurlo all’ipertrofia dell’io, finisce con l’instaurare, proprio perché estremizzato, un discorso tendenzialmente impersonale: il discorso del moralista, che dalla propria persona pensa di poter prescindere o astrarsi.
E Cioran è appunto un moralista straordinario che, se scrive per provocare e ha l’indignazione come fonte primaria di ispirazione, non se ne lascia però mai imprigionare, e anzi riesce sempre ad approdare, pur mantenendone intatta la carica, a una prosa tanto lucida e variegata da avere oggi pochi eguali. Ciò che dice forse non ci basta, né siamo tenuti ad approvarlo, ma mentre lo dice, cioè mentre lo leggiamo, non possiamo fare a meno, di volta in volta divertiti sorpresi o illuminati, di entusiasmarcene.


Emile M. Cioran, Il demiurgo cattivo (Adelphi, 1986, p. 161, £ 10.000)

08/02/19

Viaggiatori di medio e corto raggio


(da un romanzo abbandonato)

Una mia amica non voleva mai andare da nessuna parte. Qualsiasi posto a più di cento chilometri, per lei apparteneva già a una diversa galassia. Niente la attraeva tanto da farle superare il fastidio, la fatica e l’ansia di andare in agenzia, fare le valigie, prendere l’aereo o il treno, che invece usava volentieri per gli spostamenti contenuti o indispensabili in ragione dell’odio che provava per l’uso dell’auto per più di mezz’oretta. E anche quelli… Se vedeva dei servizi televisivi su paesi lontani non trovava mai niente che fosse più allettante di ciò che aveva a portata di mano; i reportage fotografici, quando se ne imbatteva su una rivista, li saltava a piè pari; i documentari la annoiavano profondamente, a meno che non riguardassero animali, e quando l’immagine di un luogo per qualche ragione riusciva a colpirla, bastava quella a esaurire la sua curiosità. In compenso sopportava sempre meno il luogo dove abitava e progettava periodicamente di cambiare casa, nel raggio di qualche chilometro però.


Un altro mio amico non aveva niente contro i viaggi e gli spostamenti in genere, e anzi li affrontava abbastanza spesso, per piacere oltre che per lavoro. Era un uomo colto, sicuro e quasi dispotico nei rapporti personali, attraente e amato dalle donne, che per di più guadagnava molto bene e poteva permettersi tutte le comodità (e difatti se le permetteva). Guidare gli piaceva e aveva auto potenti. Inoltre, quando i figli sono cresciuti, aveva acquistato per loro una casa al mare, ma in Liguria, a meno di due ore di autostrada dalla bella villa che si era fatto costruire al suo paese, e col tempo aveva imparato ad andarci anche lui, con amici e amanti. Era anche appassionato di civiltà e culture lontane nel tempo e nello spazio, tanto che si era subito procurato uno dei primi televisori a schermo gigante per potersi meglio gustare i documentari di un canale ad essi riservato che non passava giorno senza guardare, anche a notte fonda, al ritorno dalle sue scorribande. Avrebbe potuto visitare quei luoghi meravigliosi ogni volta che lo avesse desiderato, anche perché, oltre al danaro, disponeva di tutto il tempo che voleva, essendo un libero professionista con uno studio avviato e assistenti fidati a cui delegare il lavoro. Tuttavia non ci andava mai, perché non riusciva a dormire più di due notti lontano da casa, e comunque sempre con la prospettiva aperta di poter tornare al suo letto velocemente, se all’improvviso l’ansia di raggiungerlo lo avesse colto, come regolarmente capitava (senza contare che aveva paura di volare). Quando ha cercato di forzare questa regola, non è stato nemmeno in grado di fermarsi la prima notte, perché quanta più distanza metteva tra sé e casa, tanto più impellente si rivelava il bisogno di tornarci. Ragion per cui la distanza massima che si concedeva era quella che poteva percorrere in macchina, tra andata visita e ritorno, in non più di trentasei-quarantott’ore, e tanto aveva imparato a farsi bastare.


La maggior parte dei miei conoscenti invece, prima di partire aveva già sognato la meta del viaggio. Quasi sempre, a determinarla era qualche forma di conoscenza indiretta, mentre a volte bastava una parola, una foto, il racconto di un amico. Sempre però ne avevano immaginato certi dettagli salienti: una piazza, il colore delle notti, l’ansa di un fiume, un affresco, una via con i tetti verticali, e di solito si erano documentati su cataloghi, leggendo guide o reportage o guardando servizi o documentari.
Poi, giunti sul posto, chiusi nei villaggi turistici o intruppati su torpedoni o in lunghe file durante le quali la principale occupazione era consolidare i legami vecchi e nuovi, e al massimo indicare qualcosa di sfuggita accompagnando il gesto con un’esclamazione o qualche frase di stampo culturale preparata in precedenza, non hanno visto niente, o hanno trovato solo conferme, che poi è lo stesso. Al ritorno dicevano siamo stati qui e là, e i più colti enumeravano i nomi di qualche luogo o monumento, rispondendo alle domande generiche degli interlocutori con frasi altrettanto generiche.
Quando ancora non mi ero rinchiuso in casa ma già non viaggiavo più, a volte millantavo di essere appena tornato da qualche luogo prestigioso. I presenti mi chiedevano: e com’è?, e io mi limitavo a rispondere: ah, bellissimo. Se poi qualcuno insisteva chiedendomi se avevo visto questo o quello, dicevo che sì, naturalmente. Meraviglioso eh?, ribattevano. Davvero splendido, confermavo. E ci lasciavamo tutti soddisfatti.



Nelle fotografie che li mostrano con amici dei posti in cui vivono o che visitano, o con gente rimasta intrappolata nell’immagine che si fa i fatti suoi o guarda con benevolenza, o solo curiosità, quelli che stanno per essere ritratti, mi viene da considerare amici e famigliari come degli agrimensori dell’accoglienza del mondo. (Quando sono sereno immagino che il mondo sia capace anche di questo: in un certo senso, non fa altro.) Senza che lo sappiano, o quantomeno senza che lo cerchino espressamente, ogni loro spostamento verifica le capacità e le modalità di accoglienza dello spazio e degli uomini, e non intendo solo le differenti leggi dell’ospitalità, interessata quando si tratta di turisti, quanto piuttosto la porosità e malleabilità dei luoghi, la generosità di chi vede un altro venirgli incontro, occupare i suoi spazi e stabilirsi presso di lui, la capacità di riconoscimento, e di riconoscenza, anche verso colui che non porta niente e anzi, talvolta, non fa che chiedere. E mi commuovo. E come sono capace di commuovermi! E quanto mi commuovo pensando a questa mia capacità! Perché allora sembra che anch’io partecipi a questa accoglienza e la dispensi, anche si mi è difficile stabilire a chi e a cosa la offro. Eppure, alla debole luce della mia cucina, qualcuno mi sembra di riconoscerlo. Segregato nel mausoleo della mia casa, qualcuno sono certo di ringraziarlo.