Come al
solito, prende biro o matita per scrivere una frase, un'espressione, o solo un verbo o un aggettivo, e dopo 20 righe è ancora lì
a chiedersi perché non si ferma, cos’è questo impulso, questo bisogno quasi fisico,
una volta iniziato, di andare avanti come se non dovesse fermarsi mai, con le parole,
non si sa perché, che cominciano a mulinare nella testa a velocità sempre più
sostenuta, premendo le une sulle altre, mentre da ciascuna di esse si dipartono
nuovi percorsi, deviazioni, specificazioni, approfondimenti, dettagli, in una
germinazione che gli appare infinita, come la stanchezza che produce ogni
tentativo di seguirle, opprimente, tanto che a un certo punto, per porre un
freno, abbozzare un principio di ordine, si costringe a cercare di fissarle,
partendo dalla prima, o anche dall’ultima, ammesso che si possa distinguere,
enumerarle (perché così un ordine già ci sarebbe), perché una gerarchia non
c’è, se non nell’urgenza di porre un freno, uno qualsiasi, e qualsiasi parola
allora può andar bene, ma poi anche questa porta in qualche direzione che,
manco a dirlo, non era stata prevista, nonostante lui cerchi di non dimenticare
(ovvero: senza riuscire, senza poter dimenticare) tutto quello che prima pareva
importante, imprescindibile, che riprende (recupera) appena gli è possibile,
ricalcando forzatamente (scopre poi) le medesime procedure, con ritmi analoghi,
finché la frenesia, a causa della fatica stessa che ha scatenato, si rallenta e
lui può davvero provare a fare un po’ di ordine, di tirare i fili, qualcuno
almeno, pur sapendo che finestre sia apriranno di nuovo, che germogli
spunteranno, anche sa allora sarà più disposto a potare, a chiudere, tanto che,
bene o male, a un certo punto gli si prospetta, a meno che non sia una nuova
illusione, la possibilità di mettere un punto, fermo o provvisorio si vedrà
poi: di interrompere, se non proprio di finire. Per un po’, tuttavia, la deriva
continua, – aggiunge. Riprenderà, per
fasi più brevi, meno intense. Sì, sì, gli ricorda qualcosa…, ride, ma non
importa, lasciamo stare..., possibili paragoni o implicazioni sono troppo
facili, possiamo trascurarle. Non gli guastano certo la tranquillità raggiunta,
quel po’ di pace o di serenità che gli sembra di aver conquistato. Più tardi potrà
tornare su quanto avrà così fissato, e si dirà: tutto qui?
Racconti, libri, mostre, divagazioni, recensioni, speculazioni varie
25/11/19
21/11/19
Paranoia. Difetto di.
Dice che la
totale assenza di paranoia che l'ha caratterizzato fin da piccolo, grazie anche
a un ambiente che non solo la parola me neppure l'atteggiamento manco
sospettava che esistessero, lo ha però esposto in maniera irrimediabile
all'ingenuità, e anzi addirittura a un candore che tende spesso a confinare con
la stupidità, ciò di cui molti, che aspettano solo quello, se ne
approfitterebbero a mani basse alla prima occasione. Non gli importa molto, di
queste miserie, sostiene (con candore?), ma confessa che a volte ci resta male,
ripensandoci. Il poco di sospetto che ha in dote, o di cui si è dotato, lo
applica solo alla teoria. Il passaggio alla pratica, alla vita concreta, alle
relazioni con gli altri, per quanto sappia che possono essere, e non di rado sono,
dei bastardi, gli fa proprio difetto. Ne deduce che un po' di paranoia non
guasterebbe. Che dovrebbe aggiungerla, ma come?, al suo armamentario.
- Quella non si chiama paranoia, gli dico; si chiama prudenza. Avvedutezza. Esperienza. Saper vivere.
- Non infierire, ti prego, mi fa. E' troppo tardi per frequentare l'università della strada.
- E' vero, gli rispondo. Tanto più che ora la frequentano tutti, giorno e notte, trascurando tutte le altre. A cominciare da quella vera e propria.
- Sì, sì..., mi interrompe scuotendo la testa. Ma ora scusami, devo andare, ciao.
- Cos'hai di così importante da fare?
- Niente, mi risponde. Vado a leggere.
- Quella non si chiama paranoia, gli dico; si chiama prudenza. Avvedutezza. Esperienza. Saper vivere.
- Non infierire, ti prego, mi fa. E' troppo tardi per frequentare l'università della strada.
- E' vero, gli rispondo. Tanto più che ora la frequentano tutti, giorno e notte, trascurando tutte le altre. A cominciare da quella vera e propria.
- Sì, sì..., mi interrompe scuotendo la testa. Ma ora scusami, devo andare, ciao.
- Cos'hai di così importante da fare?
- Niente, mi risponde. Vado a leggere.
19/11/19
Uno sguardo su V. S. Naipaul, preso un paio di settimane prima che morisse – l’11 agosto 2018 (appunti per niente 13)
Naipaul è sempre distaccato,
guarda le cose da molto lontano, da uno spazio e da un tempo diversi, e come se
non avesse per ciò che vede e descrive e narra che un interesse documentario,
per capire con la massima lucidità possibile senza che sia necessaria alcuna specie
di partecipazione. Come se la minima empatia fosse d’intralcio. Mentre invece
questa partecipazione è alla base del suo stesso guardare, ma riguarda solo lui
e non deve pertanto lasciare traccia nelle parole che usa e né intorbidire gli
occhi che guardano. Il suo non è uno sguardo disumano, tutt’altro: solo che
l’umanità è stata espunta, e quasi espulsa, revocata, perché nel campo liberato
da questa mutilazione il discorso possa sprigionare tutta la sua potenzialità
di conoscenza, e attraverso di essa, anche di partecipazione, ma solo da parte
del lettore. Non la fascinazione entra in gioco, ma l’ostensione analitica
dettagliata, messa a disposizione del mondo e degli eventi nel loro carattere
meno sovraccarico di soggettività e ideologie, e quindi, se non più puro, più
di impatto, più denso, più contundente. Una fascinazione fredda, se si vuole.
Ipnotica, disincarnata, davanti al manifestarsi della cosa o dell’evento che si
offrono alla comprensione.
Anche quando si concede
apprezzamenti o valutazioni di qualsiasi genere, sono quasi un dato oggettivo, da
cui sarebbe impossibile prescindere, e che comunque non caratterizzano lui come
individuo, ma chiunque: la tenerezza è remota, la benevolenza ha la sordina,
così come pacata è la ferocia riservata a chi se la cerca, a persone e cose che
ambiscono a uno statuto che non gli compete né meritano, alla limitatezza che
si atteggia a grandiosità e la pretende. Allora il suo sguardo è ancora più
gelido, ma anche qui come se esponesse un dato di fatto, non una valutazione
personale bensì l’espressione di un’evidenza, una constatazione più che un
giudizio di valore, senza rimarcarlo in alcun modo, senza indignazione o
sottolineature, sfumature tonali o solo allusioni. Allusioni meno di tutto.
Niente gli è più estraneo infatti di strizzatine d’occhio e di qualsiasi
ricorso alle altre strategie dell’implicito, o presunto tale. Sorprende la
totale assenza di quelli che conviene chiamare con il loro nome: mezzucci, a
cui siamo tutti inclini a ricorrere ogni volta che siamo a corto di altri
argomenti, non tanto perché ce lo si aspetterebbe anche da lui, quanto per la
triste abitudine di trovarne ovunque, a partire da noi stessi. La facilità è il
peggior nemico di chi scrive. Il quale però ne fa uso non di rado, per le sue
virtù consolatorie e rassicuranti. La lucidità quanto a se stesso è il peggior
nemico di chi vive. E quindi!
Come dice di Nehru quando per
la prima volta condivide la vita dei contadini: che “da quel momento non gli
sarà più possibile dare le cose per scontate”, anche lui, Naipaul, non dà mai
niente per scontato. Non per questo si concede però la meraviglia. È ciò che lo
distingue dal viaggiatore standard. Anche dal viaggiatore standard molto
intelligente. È sempre serio. L’ironia non è contemplata nel suo armamentario.
O quantomeno non è esibita. Nasce dalle cose, senza un’intenzione. Quando
arriva e viene colta (perché, trascinati dalla lettura e dal tenore generale
del discorso, è facile non avvedersene e scambiarla per un’affermazione come le
altre) è però mortale. Lapidaria. Nel senso di una lapide tombale. O della
lapidazione.
Il suo atteggiamento è il
contrario del postmodernismo, senza con questo essere rivolto all’indietro come
tutti quelli che fanno come se niente fosse (tra cui, anche come se il postmodernismo
non fosse stato). E certo questo è il portato della doppia, o tripla fonte del
suo scrivere: da una popolazione minoritaria e emarginata di un paese coloniale
(doppiamente emarginata dunque: ma con un inespresso quanto incrollabile senso
di superiorità dovuto alle lontane radici, con la sprezzatura di chi si è
accomodato a sopravvivere in un luogo e tra gente in qualche modo disdicevole,
se non proprio disonorevole: triplicemente esclusa quindi) e insieme da una
piena assunzione della cultura dominante (dei suoi strumenti ecc.), senza
nostalgie o rivendicazioni facili. Anzi, senza rivendicazioni del tutto, in
apparenza, se non ciò che è lecito sperare e cercare di raggiungere senza
abbassarsi. Una posizione di orgoglio infinito, così grande che non è più
nemmeno tale. Non un sentimento, dunque, ma un’infinita distanza. Appunto.
16/11/19
Euridice scompare
Vedi Euridice solo quando
scompare:
ma lei c’è solo se la vedi;
solo vedendola
la fai essere, ma lei è, solo
per scomparire.
La guardi per farla essere
nel suo sparire.
Solo nello sparire lei è e
puoi vederla.
Se la guardi lei viene a
essere,
vibra un istante nell’essere
mentre sparisce:
il suo essere è quello della
sparizione,
è un essere nella sparizione
che avviene mentre,
guardando, la vedi.
Guardare fa insieme essere e
sparire.
Sparisce alla vista che l’ha
fatta apparire,
che le ha dato apparenza
affidandosi
all’apparizione, alla sua
possibilità
che non ha mancato di
avvenire,
negando al contempo ogni
avvenire.
Per me Orfeo un attimo Euridice
la vede.
Forse non vede proprio lei,
ma il suo scomparire,
la sua scomparsa, il luogo
dove era,
che ora è vuoto,
ma segnato dalla sua assenza.
Colmo della sua assenza.
Pesantissimo. E impalpabile.
Perché l’assenza è assenza,
inutile
girarci attorno, farne una
diversa presenza.
È un momento
irrappresentabile.
Non ci sono quadri con
Euridice che scompare.
Lei è sempre ancora lì, e Orfeo
la tiene per mano,
o lui procede e lei con Ermes
lo segue.
In alcuni si volta e lei è
ancora lì, l’attimo in cui scompare
è troppo lungo, eterno: lei è
sempre ancora lì,
come se dovesse restare per
sempre, non sparire mai.
Come mostrare il voltarsi di
Orfeo e la scomparsa di Euridice?
Solo la parola lo può dire.
L’immagine fallisce sempre.
Nell’immagine lei c’è sempre
ancora, o per sempre mai più.
Non ci sono alternative.
Per i sentimentali lei sarà
sempre lì;
per i disincantati non c‘è
più per sempre,
non c’è mai stata.
L’attimo del suo esserci e
quello dello scomparire
sono lo stesso. Sempre già
avvenuto o da avvenire.
Mai presente. La presenza si
sogna.
La presenza dell’attimo è
sognata.
Perché sognarla allora?
Perché si sogna.
Nota per me: anche questo è un appunto antico, non ricordo a proposito di cosa, con coda di oggi 14-11-19. Tutto rivedibile.
13/11/19
Come finiscono le storie (appunti per niente 14)
La
storia di tutti finisce con la morte, con la morte finiscono quasi tutte le
storie. Alcune invece dalla morte prendono inizio: ciascuna una storia, non
necessariamente diversa, che nasce dalla morte e viaggiando a ritroso, facendo
soste e giri che sembrano portarla altrove e invece non sono che il modo più
diretto concesso dalle circostanze, e forse dal carattere di chi le vive o da
forze che nemmeno lui conosceva, si ritrova alla fine all’inizio da cui aveva
preso le mosse: ancora la morte, un’altra, e pure la stessa. La stessa, ma
un’altra: perché ora ci sono la storia, le vicende e i cambiamenti che l‘hanno
preceduta, e, qualcuno dirà, ad essa hanno portato. Sbagliando: perché questo
possiamo dirlo solo ora, che questa seconda morte la storia l’ha conclusa,
mentre non potevamo dire niente prima, perché prima della prima morte nessuna
storia c’era stata. Chi le ha subite entrambe non può confermarlo: prima non
sapeva, poi ha saputo, forse, ma comunque non può dirlo, perché la sua storia
l’abbiamo raccontata noi: l’ho raccontata io, in questo modo così sommario,
privo di dettagli e di pathos, e ve la siete raccontata voi mettendo tutto ciò
che le mancava. In questo modo, voi vi assimilate a Dio; mentre io, che non ci
credo, o non ne sono degno, degli uni e dell’altro resto senza, e aspetto,
chissà, di passare alla prossima, morte permettendo.
11/11/19
Puntualità del tramonto
Assente
come chi ha declinato per sempre un appuntamento, la sera non accenna ad
arrivare: sembra che la luce si ostini a durare sfilacciata in un crepuscolo
eterno, col sole in equilibrio sul filo delle nubi all'orizzonte che si sono
riservate ogni possibile turbolenza, sovrano e immobile con la consueta dignità
eppure quasi vergognoso per l'incresciosa vicinanza, come ne sia invisibilmente
eroso.
Evaporato
anche il senso dell'attesa, l'uomo senza occhiali fissa istupidito
l'equivocità, più che la stranezza, di quella sospensione, lasciando tuttavia
trasparire di esserne in qualche modo pago. E difatti lo è. Filtrato dal
polsino della camicia, sente il motivetto di proposito anodino che gli segnala
la scadenza del termine massimo preventivato risuonare indefinitamente, chissà
da quanto tempo. Un'altra persona, vicino, lo guarda divertita, non si potrebbe
dire con tenerezza però, senza far nulla per richiamarne l'attenzione, a sua
volta paga di questa immobilità definitiva, dimentica del poco di ansia che
l'aveva trascinata fin lì.
Chiamarlo
non è questione: comincia appena a pensare se sfiorargli la giacca o solo
muoversi con la testa o di un passo, insoddisfatta di ogni alternativa per lo
spostamento che comunque comporta, quando lo raggiunge, con uno squarcio
violento, qualcosa di silenzioso, venuto da lontano, mentre il sole ormai
svuotato di energia crolla clamorosamente di colpo, come dicono che accada ai
tropici o all'equatore, e l'uomo senza occhiali blocca la suoneria, dilatando
in un urlo la nota interrotta, prima di andarsene nel sollievo della sera
recidiva.
08/11/19
Teti - Achilleide (appunti 4)
Achille era il settimo figlio
di Peleo. Gli altri 6 erano stati tutti uccisi da Teti, che a quanto pare gli
avrebbe riservato la stessa sorte se il padre (Graves, 594-5) non lo avesse
salvato togliendo dalle fiamme illeso, a parte una caviglia già bruciata e che
verrà poi sostituita con una presa dallo scheletro del Gigante Damiso dal
centauro Chirone, quando si accorse della mancanza. Damiso era stato il più
veloce di quei bestioni terrificanti, e proprio per questo, una volta inserita
la modifica, Achille è diventato velocissimo a sua volta. La federazione di
formula 1 non aveva ancora elaborato i suoi cervellotici regolamenti. E in ogni
caso il trucco era invisibile. Alcuni dicono che Teti non voleva ammazzare il
settimo figlioletto (forse è una regola che il settimo giorno, o la settima
volta, ci si riposi) bensì renderlo invulnerabile; ma sembra che si tratti di
giustificazioni a posteriori. Una volta salvo, la mamma si è poi adattata ad
amarlo.
Un’altra versione, la più nota, racconta che Teti lo abbia immerso nello Stige tenendolo per il tallone incriminato, non riuscendo appunto per questo ad assicurargli l’invulnerabilità e l’immortalità. In un modo o nell’altro, immortale non lo sarebbe diventato lo stesso. Gli dei non lo permettono ai mezzosangue. Ne sfornano a iosa, con le mortali, così come le dee con gli uomini, ma sono gelosi. Gli vogliono bene fino a un certo punto, sono anche capaci di piangerli per tot minuti o secoli (per loro è lo stesso: l’eternità rende tutti gli intervalli di tempo uguali: uguali a zero).
Un’altra versione, la più nota, racconta che Teti lo abbia immerso nello Stige tenendolo per il tallone incriminato, non riuscendo appunto per questo ad assicurargli l’invulnerabilità e l’immortalità. In un modo o nell’altro, immortale non lo sarebbe diventato lo stesso. Gli dei non lo permettono ai mezzosangue. Ne sfornano a iosa, con le mortali, così come le dee con gli uomini, ma sono gelosi. Gli vogliono bene fino a un certo punto, sono anche capaci di piangerli per tot minuti o secoli (per loro è lo stesso: l’eternità rende tutti gli intervalli di tempo uguali: uguali a zero).
La seconda versione è quella
che ha avuto più risonanza comunque. La madre amorevole faceva più botteghino di
quella crudele e infanticida. Ora le cose sono un po' cambiate. Al botteghino, almeno. A casa la mamma è sempre la mamma.
06/11/19
Sogno con due angeli seduti a un tavolo e uomo che affoga (fine anni 80)
La
punta stretta e scura della barca sembra immobile sull'acqua, mentre silenziosa
scivola verso il pontile che si prolunga come aia in terra battuta confinante
con l'erba folta. La prima cosa che vedo sul cascinale dai muri marcescenti,
quasi a pelo d'acqua ma perfettamente conservato in una nicchia rettangolare, è
un affresco che sembra un frammento di tavola primoquattrocentesca a fondo
dorato, con due santi riccamente vestiti di velluti e broccati. Uno di essi,
una giovane donna, tiene in mano un ramo di palma e sorride serenamente. Solo
più tardi, muovendo lo sguardo come una 'panoramica', dopo la base melmosa del
pontile e la porta a vetri di legno tarlato dell'osteria, vedo i due angeli
seduti all'unico tavolo di pietra dell'aia. Uno porta un fastoso copricapo da
pellerossa e l'altro ha la faccia impastata di lucido nero. Per il resto sono
tutti bianchi, dalle mani alle vesti ai piedi alle ali. Il primo, immobile e
silenzioso come tutto d'attorno, un gomito appoggiato al tavolo e l'altro
braccio abbandonato lungo la sedia, guarda verso l'acqua non so se stanco o
rilassato; l'altro sembra che vi abbia appena distolto gli occhi e sta per
portarsi un bicchiere di rosso alle labbra. Accanto ad essi, pure con un
bicchiere in mano ma con l'espressione tranquilla e indifferente del primo
angelo, con lo sguardo fisso sul piano del tavolo, un vecchio contadino, un po'
lacero e con la barba e i capelli leggermente più lunghi del normale e
arruffati. Nell'acqua profonda davanti a loro qualcuno si è appena tuffato e
sta annegando in silenzio, senza agitarsi.
C'è
un posto, in ogni osteria dell'isola che si affacci sul mare, chiamato 'del
morto'. È sempre libero e, eccetto i rari casi in cui arriva un ignaro
viandante (ma anche allora non si sa mai), nessuno lo occupa, nemmeno se tutti
gli altri lo sono. È riservato appunto a chi vuole morire. Quando uno sente di
star per morire infatti, o non vuole più vivere, va lì e si siede. L'oste
accorre solo se fa un cenno, gli altri avventori al tavolo non si spostano, ma
nessuno gli rivolge la parola se non richiesto, e la vita del bar, le
discussioni e le partite a carte, proseguono al solito ritmo, come se niente
fosse. Tutti sanno che il nuovo venuto non si alzerà vivo da quel posto, a meno
che non lo vinca l'impazienza e non si getti in acqua; ma nessuno, in nessun
caso, cerca di convincerlo a desistere o si offre di aiutarlo. Non è necessario
che lo siano ad ogni costo, ma in genere a occupare quella sedia sono i vecchi
dell'isola. Ad ogni generazione, qualcuno pensa che la consuetudine finirà,
eppure c'è sempre qualcuno che ricomincia e si presenta, tanto che raramente ci
sono state delle interruzioni vistose.
Io
sto raccogliendo materiali e facendo sopralluoghi per un'inchiesta televisiva
sulla pietà e penso scioccamente alla 'divina indifferenza animale', a un'età
precristiana e preromana che peraltro ignoro. I due angeli e il vecchio sembra
che nemmeno si accorgano della mia venuta, ma io siedo comunque al loro tavolo,
forse perché attorno è tutto deserto. Senza parlare chiedo al vecchio quale sia
il 'posto' in quell'osteria e lui piega il bicchiere quasi vuoto verso di me. Tranquillo
a mia volta, constato e guardo l'erba folta ai margini dell'aia. Sento da
lontano il canto di un tenore: adesso è malato e dimagrito, la pelle rossa e
screpolata sulle guance consunte, ma la sua voce è ancora molto bella.
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