25/11/19

Cominciano a mulinare (appunti per niente -15)


Come al solito, prende biro o matita per scrivere una frase, un'espressione, o solo un verbo o un aggettivo, e dopo 20 righe è ancora lì a chiedersi perché non si ferma, cos’è questo impulso, questo bisogno quasi fisico, una volta iniziato, di andare avanti come se non dovesse fermarsi mai, con le parole, non si sa perché, che cominciano a mulinare nella testa a velocità sempre più sostenuta, premendo le une sulle altre, mentre da ciascuna di esse si dipartono nuovi percorsi, deviazioni, specificazioni, approfondimenti, dettagli, in una germinazione che gli appare infinita, come la stanchezza che produce ogni tentativo di seguirle, opprimente, tanto che a un certo punto, per porre un freno, abbozzare un principio di ordine, si costringe a cercare di fissarle, partendo dalla prima, o anche dall’ultima, ammesso che si possa distinguere, enumerarle (perché così un ordine già ci sarebbe), perché una gerarchia non c’è, se non nell’urgenza di porre un freno, uno qualsiasi, e qualsiasi parola allora può andar bene, ma poi anche questa porta in qualche direzione che, manco a dirlo, non era stata prevista, nonostante lui cerchi di non dimenticare (ovvero: senza riuscire, senza poter dimenticare) tutto quello che prima pareva importante, imprescindibile, che riprende (recupera) appena gli è possibile, ricalcando forzatamente (scopre poi) le medesime procedure, con ritmi analoghi, finché la frenesia, a causa della fatica stessa che ha scatenato, si rallenta e lui può davvero provare a fare un po’ di ordine, di tirare i fili, qualcuno almeno, pur sapendo che finestre sia apriranno di nuovo, che germogli spunteranno, anche sa allora sarà più disposto a potare, a chiudere, tanto che, bene o male, a un certo punto gli si prospetta, a meno che non sia una nuova illusione, la possibilità di mettere un punto, fermo o provvisorio si vedrà poi: di interrompere, se non proprio di finire. Per un po’, tuttavia, la deriva continua, aggiunge. Riprenderà, per fasi più brevi, meno intense. Sì, sì, gli ricorda qualcosa…, ride, ma non importa, lasciamo stare..., possibili paragoni o implicazioni sono troppo facili, possiamo trascurarle. Non gli guastano certo la tranquillità raggiunta, quel po’ di pace o di serenità che gli sembra di aver conquistato. Più tardi potrà tornare su quanto avrà così fissato, e si dirà: tutto qui?


21/11/19

Paranoia. Difetto di.





Dice che la totale assenza di paranoia che l'ha caratterizzato fin da piccolo, grazie anche a un ambiente che non solo la parola me neppure l'atteggiamento manco sospettava che esistessero, lo ha però esposto in maniera irrimediabile all'ingenuità, e anzi addirittura a un candore che tende spesso a confinare con la stupidità, ciò di cui molti, che aspettano solo quello, se ne approfitterebbero a mani basse alla prima occasione. Non gli importa molto, di queste miserie, sostiene (con candore?), ma confessa che a volte ci resta male, ripensandoci. Il poco di sospetto che ha in dote, o di cui si è dotato, lo applica solo alla teoria. Il passaggio alla pratica, alla vita concreta, alle relazioni con gli altri, per quanto sappia che possono essere, e non di rado sono, dei bastardi, gli fa proprio difetto. Ne deduce che un po' di paranoia non guasterebbe. Che dovrebbe aggiungerla, ma come?, al suo armamentario.
- Quella non si chiama paranoia, gli dico; si chiama prudenza. Avvedutezza. Esperienza. Saper vivere.
- Non infierire, ti prego, mi fa. E' troppo tardi per frequentare l'università della strada.
- E' vero, gli rispondo. Tanto più che ora la frequentano tutti, giorno e notte, trascurando tutte le altre. A cominciare da quella vera e propria.
- Sì, sì..., mi interrompe scuotendo la testa. Ma ora scusami, devo andare, ciao.
- Cos'hai di così importante da fare?
- Niente, mi risponde. Vado a leggere.

19/11/19

Uno sguardo su V. S. Naipaul, preso un paio di settimane prima che morisse – l’11 agosto 2018 (appunti per niente 13)



Naipaul è sempre distaccato, guarda le cose da molto lontano, da uno spazio e da un tempo diversi, e come se non avesse per ciò che vede e descrive e narra che un interesse documentario, per capire con la massima lucidità possibile senza che sia necessaria alcuna specie di partecipazione. Come se la minima empatia fosse d’intralcio. Mentre invece questa partecipazione è alla base del suo stesso guardare, ma riguarda solo lui e non deve pertanto lasciare traccia nelle parole che usa e né intorbidire gli occhi che guardano. Il suo non è uno sguardo disumano, tutt’altro: solo che l’umanità è stata espunta, e quasi espulsa, revocata, perché nel campo liberato da questa mutilazione il discorso possa sprigionare tutta la sua potenzialità di conoscenza, e attraverso di essa, anche di partecipazione, ma solo da parte del lettore. Non la fascinazione entra in gioco, ma l’ostensione analitica dettagliata, messa a disposizione del mondo e degli eventi nel loro carattere meno sovraccarico di soggettività e ideologie, e quindi, se non più puro, più di impatto, più denso, più contundente. Una fascinazione fredda, se si vuole. Ipnotica, disincarnata, davanti al manifestarsi della cosa o dell’evento che si offrono alla comprensione.
Anche quando si concede apprezzamenti o valutazioni di qualsiasi genere, sono quasi un dato oggettivo, da cui sarebbe impossibile prescindere, e che comunque non caratterizzano lui come individuo, ma chiunque: la tenerezza è remota, la benevolenza ha la sordina, così come pacata è la ferocia riservata a chi se la cerca, a persone e cose che ambiscono a uno statuto che non gli compete né meritano, alla limitatezza che si atteggia a grandiosità e la pretende. Allora il suo sguardo è ancora più gelido, ma anche qui come se esponesse un dato di fatto, non una valutazione personale bensì l’espressione di un’evidenza, una constatazione più che un giudizio di valore, senza rimarcarlo in alcun modo, senza indignazione o sottolineature, sfumature tonali o solo allusioni. Allusioni meno di tutto. Niente gli è più estraneo infatti di strizzatine d’occhio e di qualsiasi ricorso alle altre strategie dell’implicito, o presunto tale. Sorprende la totale assenza di quelli che conviene chiamare con il loro nome: mezzucci, a cui siamo tutti inclini a ricorrere ogni volta che siamo a corto di altri argomenti, non tanto perché ce lo si aspetterebbe anche da lui, quanto per la triste abitudine di trovarne ovunque, a partire da noi stessi. La facilità è il peggior nemico di chi scrive. Il quale però ne fa uso non di rado, per le sue virtù consolatorie e rassicuranti. La lucidità quanto a se stesso è il peggior nemico di chi vive. E quindi!


Come dice di Nehru quando per la prima volta condivide la vita dei contadini: che “da quel momento non gli sarà più possibile dare le cose per scontate”, anche lui, Naipaul, non dà mai niente per scontato. Non per questo si concede però la meraviglia. È ciò che lo distingue dal viaggiatore standard. Anche dal viaggiatore standard molto intelligente. È sempre serio. L’ironia non è contemplata nel suo armamentario. O quantomeno non è esibita. Nasce dalle cose, senza un’intenzione. Quando arriva e viene colta (perché, trascinati dalla lettura e dal tenore generale del discorso, è facile non avvedersene e scambiarla per un’affermazione come le altre) è però mortale. Lapidaria. Nel senso di una lapide tombale. O della lapidazione.
Il suo atteggiamento è il contrario del postmodernismo, senza con questo essere rivolto all’indietro come tutti quelli che fanno come se niente fosse (tra cui, anche come se il postmodernismo non fosse stato). E certo questo è il portato della doppia, o tripla fonte del suo scrivere: da una popolazione minoritaria e emarginata di un paese coloniale (doppiamente emarginata dunque: ma con un inespresso quanto incrollabile senso di superiorità dovuto alle lontane radici, con la sprezzatura di chi si è accomodato a sopravvivere in un luogo e tra gente in qualche modo disdicevole, se non proprio disonorevole: triplicemente esclusa quindi) e insieme da una piena assunzione della cultura dominante (dei suoi strumenti ecc.), senza nostalgie o rivendicazioni facili. Anzi, senza rivendicazioni del tutto, in apparenza, se non ciò che è lecito sperare e cercare di raggiungere senza abbassarsi. Una posizione di orgoglio infinito, così grande che non è più nemmeno tale. Non un sentimento, dunque, ma un’infinita distanza. Appunto.


16/11/19

Euridice scompare



Vedi Euridice solo quando scompare:
ma lei c’è solo se la vedi; solo vedendola
la fai essere, ma lei è, solo per scomparire.
La guardi per farla essere nel suo sparire.
Solo nello sparire lei è e puoi vederla.
Se la guardi lei viene a essere,
vibra un istante nell’essere mentre sparisce:
il suo essere è quello della sparizione,
è un essere nella sparizione
che avviene mentre, guardando, la vedi.
Guardare fa insieme essere e sparire.
Sparisce alla vista che l’ha fatta apparire,
che le ha dato apparenza affidandosi
all’apparizione, alla sua possibilità
che non ha mancato di avvenire,
negando al contempo ogni avvenire.

Per me Orfeo un attimo Euridice la vede.
Forse non vede proprio lei, ma il suo scomparire,
la sua scomparsa, il luogo dove era,
che ora è vuoto,
ma segnato dalla sua assenza.
Colmo della sua assenza.
Pesantissimo. E impalpabile.
Perché l’assenza è assenza, inutile
girarci attorno, farne una diversa presenza.


È un momento irrappresentabile.
Non ci sono quadri con Euridice che scompare.
Lei è sempre ancora lì, e Orfeo la tiene per mano,
o lui procede e lei con Ermes lo segue.
In alcuni si volta e lei è ancora lì, l’attimo in cui scompare
è troppo lungo, eterno: lei è sempre ancora lì,
come se dovesse restare per sempre, non sparire mai.
Come mostrare il voltarsi di Orfeo e la scomparsa di Euridice?
Solo la parola lo può dire. L’immagine fallisce sempre.
Nell’immagine lei c’è sempre ancora, o per sempre mai più.
Non ci sono alternative.
Per i sentimentali lei sarà sempre lì;
per i disincantati non c‘è più per sempre,
non c’è mai stata.
L’attimo del suo esserci e quello dello scomparire
sono lo stesso. Sempre già avvenuto o da avvenire.
Mai presente. La presenza si sogna.
La presenza dell’attimo è sognata.
Perché sognarla allora?
Perché si sogna.


Nota per me: anche questo è un appunto antico, non ricordo a proposito di cosa, con coda di oggi 14-11-19. Tutto rivedibile.

13/11/19

Come finiscono le storie (appunti per niente 14)




La storia di tutti finisce con la morte, con la morte finiscono quasi tutte le storie. Alcune invece dalla morte prendono inizio: ciascuna una storia, non necessariamente diversa, che nasce dalla morte e viaggiando a ritroso, facendo soste e giri che sembrano portarla altrove e invece non sono che il modo più diretto concesso dalle circostanze, e forse dal carattere di chi le vive o da forze che nemmeno lui conosceva, si ritrova alla fine all’inizio da cui aveva preso le mosse: ancora la morte, un’altra, e pure la stessa. La stessa, ma un’altra: perché ora ci sono la storia, le vicende e i cambiamenti che l‘hanno preceduta, e, qualcuno dirà, ad essa hanno portato. Sbagliando: perché questo possiamo dirlo solo ora, che questa seconda morte la storia l’ha conclusa, mentre non potevamo dire niente prima, perché prima della prima morte nessuna storia c’era stata. Chi le ha subite entrambe non può confermarlo: prima non sapeva, poi ha saputo, forse, ma comunque non può dirlo, perché la sua storia l’abbiamo raccontata noi: l’ho raccontata io, in questo modo così sommario, privo di dettagli e di pathos, e ve la siete raccontata voi mettendo tutto ciò che le mancava. In questo modo, voi vi assimilate a Dio; mentre io, che non ci credo, o non ne sono degno, degli uni e dell’altro resto senza, e aspetto, chissà, di passare alla prossima, morte permettendo.

11/11/19

Puntualità del tramonto


Assente come chi ha declinato per sempre un appuntamento, la sera non accenna ad arrivare: sembra che la luce si ostini a durare sfilacciata in un crepuscolo eterno, col sole in equilibrio sul filo delle nubi all'orizzonte che si sono riservate ogni possibile turbolenza, sovrano e immobile con la consueta dignità eppure quasi vergognoso per l'incresciosa vicinanza, come ne sia invisibilmente eroso.
Evaporato anche il senso dell'attesa, l'uomo senza occhiali fissa istupidito l'equivocità, più che la stranezza, di quella sospensione, lasciando tuttavia trasparire di esserne in qualche modo pago. E difatti lo è. Filtrato dal polsino della camicia, sente il motivetto di proposito anodino che gli segnala la scadenza del termine massimo preventivato risuonare indefinitamente, chissà da quanto tempo. Un'altra persona, vicino, lo guarda divertita, non si potrebbe dire con tenerezza però, senza far nulla per richiamarne l'attenzione, a sua volta paga di questa immobilità definitiva, dimentica del poco di ansia che l'aveva trascinata fin lì.
Chiamarlo non è questione: comincia appena a pensare se sfiorargli la giacca o solo muoversi con la testa o di un passo, insoddisfatta di ogni alternativa per lo spostamento che comunque comporta, quando lo raggiunge, con uno squarcio violento, qualcosa di silenzioso, venuto da lontano, mentre il sole ormai svuotato di energia crolla clamorosamente di colpo, come dicono che accada ai tropici o all'equatore, e l'uomo senza occhiali blocca la suoneria, dilatando in un urlo la nota interrotta, prima di andarsene nel sollievo della sera recidiva.


08/11/19

Teti - Achilleide (appunti 4)



Achille era il settimo figlio di Peleo. Gli altri 6 erano stati tutti uccisi da Teti, che a quanto pare gli avrebbe riservato la stessa sorte se il padre (Graves, 594-5) non lo avesse salvato togliendo dalle fiamme illeso, a parte una caviglia già bruciata e che verrà poi sostituita con una presa dallo scheletro del Gigante Damiso dal centauro Chirone, quando si accorse della mancanza. Damiso era stato il più veloce di quei bestioni terrificanti, e proprio per questo, una volta inserita la modifica, Achille è diventato velocissimo a sua volta. La federazione di formula 1 non aveva ancora elaborato i suoi cervellotici regolamenti. E in ogni caso il trucco era invisibile. Alcuni dicono che Teti non voleva ammazzare il settimo figlioletto (forse è una regola che il settimo giorno, o la settima volta, ci si riposi) bensì renderlo invulnerabile; ma sembra che si tratti di giustificazioni a posteriori. Una volta salvo, la mamma si è poi adattata ad amarlo.
Un’altra versione, la più nota, racconta che Teti lo abbia immerso nello Stige tenendolo per il tallone incriminato, non riuscendo appunto per questo ad assicurargli l’invulnerabilità e l’immortalità. In un modo o nell’altro, immortale non lo sarebbe diventato lo stesso. Gli dei non lo permettono ai mezzosangue. Ne sfornano a iosa, con le mortali, così come le dee con gli uomini, ma sono gelosi. Gli vogliono bene fino a un certo punto, sono anche capaci di piangerli per tot minuti o secoli (per loro è lo stesso: l’eternità rende tutti gli intervalli di tempo uguali: uguali a zero).
La seconda versione è quella che ha avuto più risonanza comunque. La madre amorevole faceva più botteghino di quella crudele e infanticida. Ora le cose sono un po' cambiate. Al botteghino, almeno. A casa la mamma è sempre la mamma.

06/11/19

Sogno con due angeli seduti a un tavolo e uomo che affoga (fine anni 80)


La punta stretta e scura della barca sembra immobile sull'acqua, mentre silenziosa scivola verso il pontile che si prolunga come aia in terra battuta confinante con l'erba folta. La prima cosa che vedo sul cascinale dai muri marcescenti, quasi a pelo d'acqua ma perfettamente conservato in una nicchia rettangolare, è un affresco che sembra un frammento di tavola primoquattrocentesca a fondo dorato, con due santi riccamente vestiti di velluti e broccati. Uno di essi, una giovane donna, tiene in mano un ramo di palma e sorride serenamente. Solo più tardi, muovendo lo sguardo come una 'panoramica', dopo la base melmosa del pontile e la porta a vetri di legno tarlato dell'osteria, vedo i due angeli seduti all'unico tavolo di pietra dell'aia. Uno porta un fastoso copricapo da pellerossa e l'altro ha la faccia impastata di lucido nero. Per il resto sono tutti bianchi, dalle mani alle vesti ai piedi alle ali. Il primo, immobile e silenzioso come tutto d'attorno, un gomito appoggiato al tavolo e l'altro braccio abbandonato lungo la sedia, guarda verso l'acqua non so se stanco o rilassato; l'altro sembra che vi abbia appena distolto gli occhi e sta per portarsi un bicchiere di rosso alle labbra. Accanto ad essi, pure con un bicchiere in mano ma con l'espressione tranquilla e indifferente del primo angelo, con lo sguardo fisso sul piano del tavolo, un vecchio contadino, un po' lacero e con la barba e i capelli leggermente più lunghi del normale e arruffati. Nell'acqua profonda davanti a loro qualcuno si è appena tuffato e sta annegando in silenzio, senza agitarsi.
C'è un posto, in ogni osteria dell'isola che si affacci sul mare, chiamato 'del morto'. È sempre libero e, eccetto i rari casi in cui arriva un ignaro viandante (ma anche allora non si sa mai), nessuno lo occupa, nemmeno se tutti gli altri lo sono. È riservato appunto a chi vuole morire. Quando uno sente di star per morire infatti, o non vuole più vivere, va lì e si siede. L'oste accorre solo se fa un cenno, gli altri avventori al tavolo non si spostano, ma nessuno gli rivolge la parola se non richiesto, e la vita del bar, le discussioni e le partite a carte, proseguono al solito ritmo, come se niente fosse. Tutti sanno che il nuovo venuto non si alzerà vivo da quel posto, a meno che non lo vinca l'impazienza e non si getti in acqua; ma nessuno, in nessun caso, cerca di convincerlo a desistere o si offre di aiutarlo. Non è necessario che lo siano ad ogni costo, ma in genere a occupare quella sedia sono i vecchi dell'isola. Ad ogni generazione, qualcuno pensa che la consuetudine finirà, eppure c'è sempre qualcuno che ricomincia e si presenta, tanto che raramente ci sono state delle interruzioni vistose. 


Io sto raccogliendo materiali e facendo sopralluoghi per un'inchiesta televisiva sulla pietà e penso scioccamente alla 'divina indifferenza animale', a un'età precristiana e preromana che peraltro ignoro. I due angeli e il vecchio sembra che nemmeno si accorgano della mia venuta, ma io siedo comunque al loro tavolo, forse perché attorno è tutto deserto. Senza parlare chiedo al vecchio quale sia il 'posto' in quell'osteria e lui piega il bicchiere quasi vuoto verso di me. Tranquillo a mia volta, constato e guardo l'erba folta ai margini dell'aia. Sento da lontano il canto di un tenore: adesso è malato e dimagrito, la pelle rossa e screpolata sulle guance consunte, ma la sua voce è ancora molto bella.