20/12/22

Su Lucio Klobas. Traccia di intervento a un convegno alla Fondazione Corrente (Milano) - 1984


Come è noto “crudeltà mentale” indica, nel diritto anglosassone (cito dal Battaglia) un “comportamento ingiusto da parte di un coniuge, il quale, anche senza danneggiare la salute e l’integrità fisica dell’altro coniuge, ne mette in pericolo la sanità mentale, e gli cagiona sofferenze morali”, e può “costituire titolo sufficiente per ottenere la separazione o il divorzio”. (Ricordare magari film di Hitchcock con James Mason e Ingrid Bergman). Ed è appunto di questo comportamento che il narratore dell’omonimo racconto viene accusato dalla presunta moglie allorché questa ritorna dalla madre (ho detto “presunta” perché lo statuto della moglie, come quello di tutti gli altri personaggi di questi testi è sempre, a diverso grado, ipotetico).

Quella mentale però, tra tutte le crudeltà subite e inferte dalla moglie e dai vari personaggi, è ancora la minore: ogni pagina infatti offre un diverso esempio di un vastissimo campionario, sia immaginario che reale, che dallo scherzo stupido, ma non per questo meno truce, si estende fino alla violenza più efferata.

E tuttavia non sono nemmeno queste ricorrenze che colpiscono nella scrittura di Klobas e che la qualificano: è piuttosto il tono con cui vengono enunciate, il punto di vista a partire dal quale vengono raccontate. Crudeltà mentale allora, se indica un aspetto della narrazione, più ancora indica il principio, la fonte e insieme la modalità della sua emissione.

Spogliata di ogni consolazione amara e rancorosa potremmo forse chiamarla cattiveria, una specie di elisir di velenosità.

 

Personalmente credo che la cattiveria, per lo sguardo di sovrana e inflessibile lucidità che presuppone, sia un’ottima cosa in letteratura, e se di qualcosa mi rammarico è solo che ce ne sia troppo poca, e perpiù diluita o razionata.

La cattiveria (se non si vuole ridursi a pura malignità, che è divertente e basta, o peggio, a melodrammatico rancore) comporta un ditacco che va esercitato in primo luogo su chi la enuncia, che dve quindi cancellarsi fino a ridursi a mera voce o diventarne l’oggetto privilegiato: se mi si passa la semplificazione direi che gli uomini propendono generalmente per questo secondo versante, finendo di solito con l’impantanarsi in un masochismo un po’ o parecchio frignone, mentre le donne (o per usare una sbiadita espressione di moda: il lato femminile della scrittura) preferiscono invece il primo, il più rigoroso, giungendo nei casi più puri (penso soprattutto a Ivy Compton Burnett) a cancellarsi in una voce assolutamente neutra. Si tratta comunque di eventi piuttosto rari, soprattutto nelle patrie lettere, tanto che basterebbe appunto la sua cattiveria sistematica ed esemplare a far apprezzare Crudeltà mentale.

Tra i due versanti sopra indicati, Klobas, che non è un tipo che si accontenta di poco, non sceglie: in perfetta atarassia li adotta entrambi, con esiti paradossali e in apparenza assurdi, ma non per questo meno realistici, come cercherò di chiarire più avanti. Nei suoi testi anzi, la distinzione tra i due versanti, già più tendenziale e logica che fattuale, non ha più nemmeno ragione di sussistere: in essi infattil’esterno non è che la proiezione o un aspetto dell’interno, il quale a sua volta viene dispiegato nelle modalità descrittive e narrative tipiche di quello che tradizionalmente è il suo opposto. Non c’è traccia di psicologia cioè, nonostante il discorso sembri calcare modelli paranoici: il tono invece è quello di un tranquillo tran tran allucinatorio perfettamente assuefatto ai propri ritmi forsennati.

Parlo di ritmi forsennati perché questi racconti, più che svolgere una narrazione classicamente strutturata e distesa (ed è per questo, e solo per questo, che li si può classificare come testi sperimentali), proliferano incessantemente di micro-narrazioni.

 

Klobas rifiuta così la costruzione classica della trama come elemento portante della narrazione, come struttura all’interno della quale si dispongono eventi, personaggi, discorsi, descrizioni ecc. ai loro vari livelli di realtà, immaginazione, ricordo, sogno ecc. – e secondo specifiche gerarchie – e fa corrispondere alla sua assenza o fragilità (che se è tale sul piano strutturale non lo è, come vedremo, sotto altri aspetti), una proliferazione, come dicevo, di micro-racconti che si susseguono senza altro rapporto apparente che non sia la semplice successione, per pura contiguità. Molti di essi, o alcuni loro frammenti, ritornano poi a volte a fornire elementi o suggestioni di continuità narrativa, mentre più spesso anarchicamente (o meglio: per derivazioni interne e contingenti) sorgono, si disgregano e scompaiono senza lasciare apparentemente traccia.

Dico apparentemente perché epesso fanno da incubatrice ad altri microracconti, disseminati in ordine sparso “senza né capo né coda” (come si suol dire), senza origine o telos, risolti anch’essi, anche quando sembrano esserci o incontrarsi circolarmente, in simulacri immaginari o in altre avventure ipotetiche: frantumati, degenerati o putrefatti, e sostituiti da protesi apogrife e vacillanti come i corpi dei personaggi.

Causalità, temporalità, identità, e le altre comuni forme di riconoscimento e di legame perdono così di pertinenza, spiazzate o in ogni caso subordinate alla contingenza e alla contiguità dei singoli frammenti. Alla fine risulterà ancora l’ombra di una parabola compiuta, un simulacro di trama dalle maglie molto larghe, ma assimilata agli altri momenti della narrazione: persi e confusi, trasportati dallo stesso ritmo, anche i normali cardini strutturali e gli elementi tematici topici nel duplice senso, 1) retorico di luoghi dove trovare l’argomento, e 2) fondamentali, decisivi).

Lo dimostra il fatto che dare un riassunto dei due racconti che compongono Crudeltà Mentale è, se non impossibile, perlomeno inadeguato alla grana e allo stile del testo, quando sono addirittura in contraddizione.

Così il primo racconto, quello che dà il titolo al libro, si ridurrebbe alla storia di un matrimonio, dall’improbabile incontro inaugurale, passando per tutti i rapporti tra i componenti la coppia e l’esterno – fratelli, amanti, madre, e persino la perlomeno ambigua nascita di figli-feti, alla finale vedovanza che si consuma su se stessa; e il secondo, che si intitola – lo ricordo – Complicazioni interne che dell’altro è una sorta di continuazione ipotetica post-moderna, (si ridurrebbe) alla moltiplicazione sistematica di un io inesistente che si dissolve nell’infinito speculare: degli sprcchi e della speculazione: la conclusione, se proprio vogliamo trarne una, è che è impossibile “vivere assieme”, ma è anche altrettanto impossibile viver “soli”. Non sono possibili né il rapporto né il non-rapporto. La compresenza di tutte le alternative e delle loro stesse possibilità, che si ritrova anche nella narrazione, invece di farle accedere alla presenza, è come se le moltiplicasse cioè).

Ma torniamo all’assimilazione della trama agli altri elementi. Se ciò può avvenire è perché la scrittura di Klobas, in questo di chiara ascendenza flaubertiana, più che avere di mira e per base la realtà (quella che supponiamo tale cioè) la vede già in partenza come linguaggio, anzi, più ancora come repertorio di stili e di stereotipi, dei quali le stesse possibili trame fanno parte all’identico titolo di ogni altro aspetto, e su essi Klobas si accanisce smontandoli, negandoli o ribaltandoli.

C’è anzi una specie di caccia ad ogni forma di stereotipo che, ricondotto meticolosamente all’assurdità della sua lettera, diventa il supremo suscitatore di senso, anziché, come abitualmente avviene, il suo uccisore. Lo stereotipo infatti, come è noto, è diventato tale proprio per la pregnanza che il suo significato (di solito figurato) si è trovato ad avere nel tempo tanto da indurne ad un uso esasperato che ne ha provocato lo svuotamento, finrndo col ridurlo a pura sigla che spesso dice solo il niente di pensiero di chi lo enuncia o la sua aderenza a questi o quel gruppo sociale o ideologia.

Lavorare sullo stereotipo è allora lavorare su un linguaggio fatto solo di vacuità, su un linguaggio di livello semantico vicino o uguale a zero direi, nel quale l’unico rapporto con la realtà, labile e forte assieme, è spostato su chi ne fa uso e nel fatto stesso di utilizzarlo. Ma proprio a questo punto lo stereotipo diventa di nuovo disponibile, non tanto ad essere ricondotto all’ipotetico significato o valore originario, quanto,letteralizzando quello che in partenza era perlopiù un senso figurato, come di enunciati narrativi, di un racconto cioè del tutto slegato dalla realtà ma che di fatto, usato come fa Klobas, la reduplica nella distorsione e nella parodia. Identico meccanismo viene applicato a stilemi, a topoi narrativi e in genere letterari, che forse stereotipi non sono ma che Klobas, se anche solo una volta sono passati nella memoria della sua scrittura, riesce a renderli tali. (Anna Frank, il blitz in Iran, più il resoconto dei giornali che il fatto vero e proprio). Non si contano allora tautologie vere e false, assudità, paradossi e sorprese a creare una comicità spesso sfrenata e, in ogni senso, tremenda (che fa termare di paura; disastroso, spaventoso, terribile, grave, che eccede la normalità e la misura).

E a raggerla (la comicità), più diffuso che veramente sottostante, c’è ovviamente, catafratto, assolutamente impermeabile, il più rigoroso, ma quieto, nichilismo. Sfracellati amabilmente nel suolo del vuoto, si analizzano al rallentatore, con entemologico candore le singole fasi della ridicola caduta, quelle che si sono realizzate e quelle che lo avrebbero potuto. Ed è così che, come già accennato, Crudeltà Mentale finice col dare della realtà una inaspettata quanto precisa immagine, nonostante il rifiuto originario e sempre rispettato di ogni forma di realismo e di verosimiglianza.

E’ proprio la sua (della realtà) riconduzione, o meglio la sua risoluzione totle nel linguaggio che permette di indagarne, di ricrearne la complessità al di fuori delle in questo caso arbitrarie distinzioni tra concreto e astratto, interno ed esterno, reale e immaginario, edei principi di identità e di causalità, che il testo segnala, per esempio, con l’uso frequente del gerundio.

L’espressione “dare nei gerundi” (impazzire,perdere il sennoo la pazienza) potrebbe anzi fornire un diverso titolo, o una diversa chiave e tono complessivo, del libro, del libro e della realtà di, e secondo, Klobas. E’ la realtà, che dà nei gerundi e Crudeltà mentale ne costruisce in forma perversa e comicamente feroce, un compiuto per quanto estraneo omologo. Come avverte giuseppe pontiggia nella sua prefazione, Klobas non lavora però “a quella operazione teatralmente fuorviante, che si suole chiamare demistificazione della verità” quanto piuttosto “a un progetto infinitamente più ambizioso, quello della sua mistificazione”.

Ma forse è appunto questo che paradossalmente dà la misura del peculiare e imprevedibile realismo di Klobas, che invece di rispecchiare il “reale”, lo rovescia e insieme lo sposta, pervenendo ad un’omologia tanto più vicina quanto più si allontana e diverge dal modello che almeno in un primo momento negazione e spostamento presupponevano. La più perfetta mistificazione sarebbe allora non tanto la costruzione di un mondo perfettamente simile e parallelo, più vero o vero come il reale, ma quella di un altro che con esso non ha, o sembra non avere alcun rapporto e invece ne riproduce i meccanismi evidenti e segreti con minuzia maniacale e con grande godimento. Poi però, per citare la frase finale del primo racconto, “resta da vedere ancora cosa viene dopo il godimento”.

 


 

 

19/12/22

Lucio Klobas, Galleria del vento (15-07-1981)


Qualche anno fa sembrava che nessuno più, tra i giovani, si occupasse di letteratura, presi tutti com’erano, sembrava, a riempire le discoteche; poi si è scoperto, con gran meraviglia, che qualcuno che leggeva o scriveva dopotutto c’era ancora. Anzi, erano molti; ma solo poeti, ahimè.

Ahimè? Per fortuna! Eh, la poesia dal nostro cuore non la toglie nessuno! e poi, questo mondo frantumato, niente di meglio della poesia per interpretarlo; naturale che narratori non ce ne fossero più. Adesso invece, le ultime due stagioni editoriali lo dimostrano, non mancano più nemmeno i giovani romanzieri. Grazie al cielo. Non tutti eccelsi, non tutti originalissimi, d’accordo, ma l’importante è che tornino ad esserci.

Si è persino tornato a parlare di sperimentazione, dopo che la fine delle avanguardie era stata accolta con evidente sollievo generale, anche se alcuni, su riviste e presso case editrici poco note al grande pubblico, il lavoro di ricerca lo avevano sempre continuato. Qualche volta persino con risultati molto interessanti e validi.

Uno di questi è Lucio Klobas, trentacinquenne bergamasco di origini istriane, vincitore di un Premio nazionale Riccione per la Drammaturgia, redattore e collaboratore di varie riviste e dei programmi culturali della Rai, e autore di Galleria del vento, un romanzo pubblicato nel 1976 con ottima accoglienza critica e che conviene ricordare.

Romanzo originale in più di un senso: c’è una storia anche se non si può parlare di una trama vera e propria; è comico per o nella disperazione; non c’è mistero ma ti intriga e vuoi sapere come va a finire; quanto è paradossale e arbitrario per alcuni aspetti, è perfettamente logico e necessario per altri. Tutte caratteristiche che si ritrovano ora in questo ora in quell’altro romanzo sperimentale, raramente insieme però e così ben organizzate come qui. Per cui la qualifica di sperimentale, che richiama sempre qualcosa di tentennante e incompiuto, mal si adatta a questo romanzo. teniamola per utilità classificatoria.

Comunque è certo un romanzo impossibile, che fa dell’aleatorietà e dell’inverosimiglianza il proprio oggetto. Se proprio dovessi definirlo, direi che è la storia dell’autodistruzione del personaggio letterario. Non cioè di un individuo che fa da protagonista nel libro, ma proprio del personaggio così come la storia del genere romanzesco pur nelle sue variazioni è venuta configurandolo.

Certo, chi nel libro dice “io” si autodistrugge anche fisicamente a testate contro il muro, fino a raggiungere con il massimo grado della scala Mercalli anche il totale spappolamento del proprio corpo, ma questo non è che l’epilogo di un lavoro che in ogni suo momento, già all’inizio, ne enunciava lo statuto illusorio a ogni livello. Così, per esempio, il corridoio in cui il protagonista, chiamiamolo ancora così, è bloccato all’inizio, nonché lo studio e la scrivania che vuole raggiungere, ci sono e non ci sono a seconda dei momenti e delle vie linguistiche di volta in volta seguite. Per non parlare dei vari compiti arbitrariamente prefissi, perseguiti, raggiunti o abbandonati con toni magari epici e seriosi nonostante la loro inutilità o addirittura imbecillità.

In tal modo, liberato il campo da azione, realismo, psicologia ecc., si apre lo spazio del linguaggio e di tutta la gamma delle sue possibilità. Un luogo comune dell’ultima avanguardia, si dirà; solo che in essa si fermava quasi sempre allo stato programmatico e all’enunciazione teorica, mentre qui è la pratica radicale che domina. Ed è appunto in questo che le notevoli capacità di Klobas si affermano con maggiore evidenza.

Sebbene ci siano qua e là alcuni paragrafi di troppo, certi toni un po’ stonati (ma dirò che sono anche pochi se si tiene presente la scelta di una scrittura che si deve reggere da sola, senza il supporto di una narrazione che giustifichi con le necessità della trama i momenti di passaggio e di caduta), e alcuni richiami a maestri ormai canonici come Beckett, l’originalità, la varietà e la sicurezza stilistica di Klobas si manifesta quasi ad ogni pagina, indipendentemente da ciò che sta raccontando. Non perché questo sia puro supporto, ma anzi proprio perché si risolve completamente nel linguaggio che lo pone in essere senza alcun riferimento ad altro che sia prima, dopo o fuori, magari in una eventuale realtà.

Ora, uno può credere che è naturale che vi sia varietà dove niente fa da limite o da contenitore, ma farebbe uno sbaglio. Da una parte ci sarebbe infatti il pericolo della noia e della monotonia, dato che non basta far ridere qua e là per tenere il lettore per 250 pagine; e dall’altra è proprio il problema del limite e del contenitore che viene messo qui in discussione, opponendo loro una scrittura che si basi su una necessità sistematica intrinseca. Necessità che qui si fonda sull’esplosione di ogni possibilità, sull’esaurimento di ogni combinatoria anche linguistica a partire da un punto arbitrario. Dato che non altro che un punto arbitrario è la partenza di ogni romanzo, e che ogni forma di riferimento non conta se non si risolve nel suo effettivo svolgimento.

E’ appunto questo che avvince in Galleria del vento, come in un giallo il cui protagonista è l’invenzione linguistica. Talmente esasperata che ne fa sospettare, a momenti, il motore in una ossessione della banalità narrativa. Così che, non appena si sente il sospetto di frasi fatte o di comodo, di situazioni o di elementi narrativi in qualche modo standardizzati, subito scatta l’ironia, il paradosso, la deformazione o la trasgressione. L’andamento stilistico stesso acquisisce allora uno spessore anche teorico che, certamente inopportuno se fosse presente a livello astratto, farebbe d’altra parte cadere un libro come questo nella banalità qualora fosse assente.


Lucio Klobas, Galleria del vento, Geiger, Torino, 1976, p. 248


 

 

 

 

 

 


16/12/22

Pierre Michon, Vite Minuscole (2017)



Pierre Michon in Francia è un autore di culto. Alla sua opera sono dedicati convegni, numeri monografici di riviste e numerosi saggi, tra i quali, nella collana economica Foliothèque dedicata principalmente ai classici francesi, un bel commento di Dominique Viart a Vite minuscole, tradotto da Leopoldo Carra per Adelphi (p. 204, E. 18) a più di trent’anni dalla sua prima pubblicazione in Francia, accolto con grande e diffuso favore anche da noi.

Personalmente, leggo Michon sempre con un sentimento contrastato, altalenante tra ammirazione e fastidio, dovuto in gran parte al suo stile, cioè esattamente a quello che piace a molti lettori e critici francesi. Michon si attesta in genere, sia per linguaggio che per “sentire”, su un registro molto alto, ricco di metafore e acrobazie sintattiche, salvo poi ribaltarlo ogni tanto con piccoli tuffi nel suo corrispettivo speculare basso e “volgarmente” diretto, e in un analogo sprezzante e cinico atteggiamento, sia come narratore che in quanto personaggio. Il linguaggio ‘medio’ in linea di massima lo evita come una tentazione maligna, salvo poi, quando non può fare a meno di resisterle, specie nei passaggi più tradizionalmente narrativi (raccontare un’azione, diffondersi su un fatto, sintetizzare una transizione logica o temporale), restare automaticamente invischiato in scrittura tradizionalmente piatta. Cioè irritante in diversa, ma non meno acuta, maniera. Anche nei punti dove scatta l’ammirazione, e ce ne sono, il pericolo è incombente: la sottigliezza e l’intensità emotiva di analisi e riflessioni a volte si spingono un passo oltre; il piede viene troppo calcato sull’acceleratore lirico; la ricchezza e l’eleganza della sintassi sfociano (tracimano) in compiacimento; il lessico raro e prezioso in certi punti si spreca ecc...

E tutto questo proprio mentre lo scrittore cerca l’infimo, il trascurato, il taciuto o sottaciuto, il travisato o censurato, raccontandone le differenti figure per quello che erano, non solo sottraendole al silenzio ma, con scelta programmatica, glorificandole e trasfigurando l’insignificanza della loro realtà miserrima nel cielo della poesia e della teologia. Ma non sempre ci riesce: il suo linguaggio, la sua frase già li tradiscono, trasformandoli in altro, proiettandoli nel suo cielo personale, pieno di angeli, di fiori (linguistici) sontuosi e, a far capolino nelle maglie della crudezza, di pietà dal ciglio umido (in primo luogo su se stessa, sulla propria nobiltà).

Viene cioè il dubbio, a momenti, che ne parli meno per una forma di riparazione e giustizia, che per trovare qualcosa di nuovo da dire. Qualcosa di originale, che in qualche modo rappresenti chi scrive e nel quale egli possa riconoscersi; ma soprattutto, per qualcuno che ha passato anni nell’impotenza o nell’autocastrazione creativa (come ampiamente descritto in Vite Minuscole), semplicemente qualcosa da dire che poi, una volta detto, gli dia riconoscibilità e ancor di più che giustifichi il suo dire (il suo scrivere: l’arroganza implicita nell’atto della scrittura) mentre lo sta dicendo; che dia cioè un senso alla sua volontà, sacrosanta, di comunque dire, nel momento stesso in cui cerca il senso di ciò che va dicendo: per esempio delle vite che racconta.

Si tratta di vite infime, spesso ricostruite a partire da infime reliquie, come quella di un infimo santo, periferico, ignoto al di fuori del suo infimo territorio, che periodicamente ricompare in momenti di passaggio (nascita, malattie, morte) e nei racconti costruiti (e forse inventati) su questi momenti o su qualche personaggio di famiglia o del paese. Bisnonni, prozii, parenti, lavoranti, trovatelli, di cui sopravvivono quasi solo i nomi, e solo nella ristretta cerchia famigliare, e memorie lacunose, incerte, più immaginate che reali, che si sovrappongono e intrecciano a quelle, simili, di altre figure, esse pure con un nome che però non basta a nasconderne una certa tipicità: l’ubriacone, il figlio ribelle, il prete finito male, l’avventuriero, il professore di provincia, l’intellettuale parigino... figure romanzesche, alla fine, più che persone reali che si intende salvare dall’oblio. O salvate dall’oblio solo nella misura in cui, con un’incarnazione al contrario, prendono corpo in tratti o tipi letterari (e artistici: perché tale è la sostanza dell’ispirazione di Michon), che affiorano non appena si innalza a vita questo o quell’episodio della loro esistenza o questo o quell’aspetto del loro carattere: non appena si comincia a scriverne cioè.

 

Quelle che Michon racconta sono storie famigliari, come in Sebald, di parenti e antenati smarriti, mai conosciuti o conosciuti solo per minime tracce (cartoline, foto, libri in solaio, piccoli oggetti), con grandi differenze però rispetto al grande scrittore tedesco, a cominciare dal fatto che, per quest’ultimo, la sua implicazione personale in esse serve all’indagine e alla ricostruzione delle loro esistenze, e mai se le subordina come accade in più di un caso nello scrittore francese, e poi dal tono, che in Sebald è più distaccato, quasi cronachistico in apparenza, come per arrivare a una memoria condivisa e non a un restauro quale che sia di radici soggettive: distacco che anziché confliggere con la pietas la rafforza. Come se fosse il mondo, i fatti stessi, a contenerla e sprigionarla, e non uno sguardo personalissimo sì, ma circoscritto e come affondato nella propria intimità.

Le vite sono minuscole non solo nel senso più immediato di piccole vite, insignificanti, o di vite dei minuscoli (di cui già la tradizione storiografica delle Annales ha insegnato a occuparsi, per non contare i molti scrittori che le hanno sempre narrate...), ma anche in quello di vite piccole, brevi, miniaturizzate, ridotte a un tragitto che è un destino, un percorso spogliato di ogni cosa che non sia subordinata al tracciato di un destino cioè, o condensata in uno o pochissimi gesti o tratti di carattere, o in singole passioni o nella rinuncia ad esse, momenti apicali nei quali tutto si condensa o si spezza. Così però (come in ogni caso del resto, anche quello delle biografie monumentali), si perde o si rinuncia a più di quanto si salva. Si finalizza la vita al racconto che se ne può fare, al disegno che se ne intende tracciare, fosse pure alla glorificazione che se ne intende cantare, e di nuovo la si relega nella minorità da cui si dichiara di volerla togliere. Non c’è scampo.

Di fatto, attraverso queste storie, Michon non fa che narrare la propria, ampliandola alla lacunosa costellazione famigliare e dotandola di un adeguato corredo mitologico, radunando oggetti, reliquie, frammenti di racconti e ricordi e fantasie derivanti dalla propria esistenza infantile e, nella seconda parte, giovanile, e da quelle che l’hanno segnata o solo sfiorata.

La voce del narratore, come la sua figura, è variabile, gioca su più registri che però non sempre si amalgamano, quando compresenti, o armonizzano, quando di susseguono o alternano. Non sempre si riesce a capire chi parla o da che prospettiva, senza che la confusione delle voci, pure ammissibile, sia qui contemplata. L’ispirato e il chiacchierone (eco e omaggio al bavard di Louis-René des Forêts: Il chiacchierone, tradotto da Gioia Zannino Angiolillo per Guanda una trentina di anni fa e non più ristampato: bellissimo!), il nostalgico e il sarcastico, il colto e l’incolto, il prezioso e il vernacolare, si succedono a volte con effetti disarmanti ma non sembrano derivare da una precisa strategia di disorientamento del lettore, che Michon tende piuttosto a voler avvolgere e affascinare, anche nei casi in cui accentua volontariamente i trapassi repentini e immotivati a fini provocatori (ma si sa che la provocazione non è che un risvolto della volontà di cattura).

Adottare il punto di vista dei “minuscoli” (dei contadini, degli analfabeti, dei deboli e dei mentecatti, in questo libro; dei servitori, di Georges Roulin nel testo su Van Gogh o delle lavandaie in quello su Goya, o di un discepolo privo di talento di Piero della Francesca come in Padroni e Servitori, trad. it. Roberto Carifi, Guanda, 1994, con un’attenzione all’arte che percorre tutta l’opera dello scrittore francese: si veda anche Les onze, Verdier 2009, ora Gallimard folio, vincitore del Gran Prix du Roman de l’Académie française di quell’anno: eh sì, l’Académie...) non è una scelta diversa da quella di affidare il ruolo di protagonista o di voce narrante a bambini o folli o minorati (come in Faulkner, che giustamente Michon, in Trois auteurs, Verdier, 1997, venera e pone alle sorgenti del suo stesso approdo alla scrittura): permette di guardare le cose e di raccontare e interpretare eventi da una visuale “popolare”, ingenua ma non troppo, cioè estranea, “ignorante”, spaesata, rispetto alle cose complicate, alle questioni “di peso” e alle vicende impreviste che personaggi e narratori affrontano, ma adulta rispetto a tanti altri argomenti, per quanto spesso a sua volta spiazzata, laterale, tanto più se relativa ad altri tempi, o a società fino a quel momento immobili, o “lente”, e ora in via di scomparsa, come quelle della Francia profonda di Vite minuscole. E allora il lettore maligno magari comincia a sospettare che sì, ad importare è la vita di queste persone, anche, ma soprattutto ciò che il loro punto di vista (vero o presupposto), l’assumere le loro parti, lo schierarsi a loro difesa, permettono di dire e di fare allo scrittore: cose che essi non sarebbero assolutamente in grado di dire e fare, naturalmente, ma che se assumono nelle intenzioni di Michon, una valenza etica e storica (e politica), rischiano di rivelarsi invece di stampo retorico: un po’ false, non in quanto retoriche sia chiaro, ma poiché surrettizie, sottaciute nel loro principio.

Non che essere incerti su chi parla sia così importante. L’ambiguità in letteratura, come risaputo, non è un male. E del resto nessuna voce è singola, pura. Ogni voce è già un coro, o un insieme di echi. E se è lecito chiedersi se anche “l’impostura, se (...) bene spartita, è davvero impostura?” (Padroni e servitori, 17), si deve rispondere che lo resta nella misura in cui, mentre viene apertamente dichiarata rispetto a una cosa, al contempo viene nascosta rispetto ad altre, forse più importanti. Le voci si susseguono, come se fossero una sola, o una distinta dall’altra, ma non lo sono: quella dello scrittore si sovrappone o si insinua in quelle dei personaggi, mentre spesso il loro flusso è continuo, con effetti che quanto più puntano in alto tanto più rischiano di deragliare in quella che Michon stesso definisce “cretineria lirica” (97), “un misto di rozzo lirismo e astuzie sentimentali”, con un’autoironia che non la rende meno tale.

Diverso, perché allora è Michon a prendere direttamente in carico la parola, è invece quando descrive quegli stati (desiderio, fatica, aspirazione, disincanto, sgomento...) in cui gli incolti, ma anche i colti, si trovano davanti all’incomprensibile e non riescono né ad accedervi né a distogliersene, ma se ne sentono attraversati e scossi fisicamente, come un brivido, o attratti, come un vuoto, o oppressi, come una pena impalpabile ma pesantissima che schiaccia il petto e dilata le pupille e aguzza l’udito fino al limite dell’inudibile, e dove infatti niente si sente né si vede. Allora lo scrittore francese tocca vertici di grande intensità, come nell’episodio da tutti i suoi critici giustamente esaltato del vecchio “père Foucault”, analfabeta.

 

Nel complesso la sua è una prosa insieme novecentesca, per le immagini e i punti di vista adottati, spiazzanti e provocatori, e antica, seicentesca quasi; virtuosistica, paludata e compiaciuta come può esserlo solo una vecchia, accademica (scolastica), prosa francese, per quanto riveduta e corretta con alcuni apporti del modernismo e delle avanguardie, che per molto tempo sono state la stella polare di Michon, il quale poi, come tanti amanti disillusi, la storia è nota, è passato sull’altro versante pur portandosi addosso molte scorie di ciò che ha negato e abbandonato. Sono frasi tortuose, serpentinate, manieratissime (come in Proust, appunto, o, per altri aspetti, in Nabokov, o in certo Malcolm Lowry) che cominciano da una parte e non si sa dove andranno a parare, come succede quando uno parla con un certo trasporto: non lo sa nemmeno lo scrittore, che ne segue il corso stupito (è il demone!, la necessità interiore... l’ispirazione!), e poi, alla fine, quando le rilegge, cerca di raddrizzarle, di riequilibrarle, magari aggiungendo qualche finezza (qualche leziosità), un tassello qua e là, degli echi, dei rimandi, di modo che alla fine tutto tiene, bene o male, e lui è contento, tanto che a volte, staccandosi da questa bella soddisfazione, che nel mio piccolo conosco anch’io, ed è per questo che ne parlo, e ne parlo giustappunto con questa frase qui, simile a quelle di cui sto parlando..., staccarsi, dicevo, e cancellare tutto, o tagliare qua e là, solo perché c’è quella parola, quel passaggio che più di tutto gli piace, che più di tutto, scrivendolo, lo ha sorpreso, è impossibile: e la lavora ancora, ma tenendo tutto o quasi, senza rinunciare a niente e piuttosto aggiungendo ancora un dettaglio, una sfumatura, un paradosso, come per una bulimia spirituale, perché questa è l’arte, si dice, il mestiere... Perché tutto deve essere detto; ogni strada imboccata ha da essere percorsa fino alla fine, lunga o corta che sia; ogni dettaglio cesellato e laccato; ogni detrito recuperato, reso funzionale, redento, con qua e là, magari, qualche parola che spicca come fuori luogo, per studiatissimo effetto di abbassamento, o solo di cambio di registro, per straniamento, per sprezzatura. La sublime sprezzatura! Perché senza di essa a parlare sembra che sia sempre un signorino, un elegantone di primo pelo, come Proust con la sua racchetta, un giovane snob così patetico, in fondo, che ci commuove, che ci commuoverebbe anche se non ne conoscessimo l’immensa grandezza.

 


L’immensa grandezza, dell’autore della Recherche come di altri del pantheon letterario e artistico, che invece Michon non riesce, e non vuole, dimenticare nemmeno un istante (ma per fortuna poi lo fa). Sono i padri che lo scrittore francese ha eletto a propri ideale e misura, forse a compensazione dell’assenza fisica (e dell’incombenza mentale) del padre biologico. Non sembri un facile riduzionismo psicologico: è l’autore stesso a dirlo in vari luoghi della sua opera, e in particolare nel notevole Rimbaud il figlio (tradotto da Maurizio Ferrara per le edizioni Mavida, 2005, e da noi passato quasi completamente inosservato), affrontando le varie dinamiche di questa assenza, inclusa l’identificazione con Rimbaud stesso, che l’ha accompagnato per lunghi tratti della sua vita, appunto in virtù di questa comunanza di destino.

E se non sono i padri ad abbandonare i figli, sono questi che li abbandonano, se ne vanno, abbandonano tutto, come Rimbaud, e come in Vite Minuscole Antoine, il figlio del trisavolo Toussaint, poi finito male, in tutta una costellazione di rapporti mancati o conflittuali o ancor più dolorosi in quanto rimossi o passati sotto silenzio, a volte da entrambe le parti.

Questo rapporto mancato si traduce nel contrasto, da una parte, tra la singolarità inimitabile dell’artista (Jean-Pierre Richard, Chemins de Michon, Verdier poche, 2008, p. 72) che il narratore vuole conquistare contro i padri assenti e perciò opprimenti e i grandi scrittori e artisti, loro sostituti venerati ma appunto per questo ingombrantissimi, irraggiungibili: trascendenti, sacralizzati, come sacralizzata sono l’arte e la scrittura, a dispetto di ogni successivo tentativo di innervarli di carne, sangue e altri liquidi più o meno viscosi; e dall’altra, più complementari che opposti, questi personaggi minimi, individui che tali non sono mai stati forse nemmeno per se stessi, o che hanno rinunciato presto ad esserlo per rintanarsi nell’anonimato, nel generico o nella perdita di se stessi dovuta all’alcol e alle reiterate sconfitte, ciascuno la propria e ciascuna irredimibile, e che solo la scrittura, il divenir vita delle loro insignificanti e presto dimenticate esistenze, se non già dimenticate mentre ancora duravano, può forse provare a redimere, restituendo loro, non fosse che attraverso la perpetuazione di un episodio o di uno stigma tutto loro, qualcosa di più che un semplice nome o soprannome.

A volte basta questo a renderne le figure memorabili (la nonna Elisa, la madre, il nonno paterno, il citato père Foucault, ecc.), altre invece, come già accennato, esse si appiattiscono di nuovo, non appena venute alla superficie, su topos narrativi abbastanza risaputi, perché insomma, la storia del romanzo è anche la storia della conquista di un nome, di un accesso alla narrazione e alla memorabilità proprio di coloro che fino a quel momento apparivano periferici, emarginati, silenziosi, insignificanti, o non apparivano affatto.

Sorte, questa di ricalcare topos già orecchiati, a cui non sempre riesce a sfuggire neppure la figura del narratore, esplicitamente autobiografico, discretamente antipatico in alcuni punti, sia per il suo compiaciuto maledettismo di maniera, sia per certi toni sarcastici, per non dire acidi e meschini, nei confronti di alcuni suoi personaggi, che però non riesce  a tenere fino in fondo, fino alla vera cattiveria, al fiele, perché il bagnomaria del sentimento è sempre in agguato, specie quando parla di se stesso, laddove ce ne sarebbe invece più bisogno.

Eppure, più forte di queste debolezze, resta la benefica e benedetta illusione di salvare le vite infime scrivendone a dispetto di tutto, ricercandone o immaginandone le storie sulla scorta di pochi o nulli documenti e di vaghe memorie di testimoni diretti o indiretti, o della loro somiglianza con quelle di tanti altri altrettanto infimi e anonimi, che in tal modo (in qualche modo) verrebbero a loro volta salvati, quando in realtà non si salva niente, come in realtà niente si salva neppure dei cosiddetti grandi e rinomati, se non parole che prescindono da loro e di cui loro, ora, non sanno che farsene, e i loro nomi... Se non che, forse, un nome è tutto. Tutto ciò che può restare e forse resta, alla fine, non è, al massimo, che un nome.

Ma poi no, resta anche la volontà ostinata, viscerale, insopprimibile come un dovere insieme laico e metafisico, di dare pace ai morti: ai propri e, attraverso loro, a tutti quelli che ne hanno condiviso la sorte. Tuttavia, se dare pace ai morti, all’infinita distesa delle esistenze offese, dimenticate, mai sapute, è un compito, oltre che impossibile, inutile, certo per i morti; farlo, come noto, è di qualche consolazione per chi vive, a cui sarebbe crudele negarla; un compito infinito, insensato, in fondo, ma che pure, pensa qualcuno, vale la pena, ciascuno a modo suo, di cercare di assolvere, se non altro per coloro stessi che se ne assumono il carico, onerosissimo, insopportabile e insieme lieve, e che allevia.

 


 

10/12/22

Appunti per niente 38. In margine a Questa bruma insensata di Enrique Vila-Matas

Se c’è una cosa che mi piace di Vila-Matas è che, per quanto ironico sia e sempre pronto a ribaltare e sfumare con continui richiami e variazioni ogni affermazione, è uno per cui il mondo della letteratura non solo è importante in una misura oggi impensabile ai più, ma è anzi praticamente l’unico. L’unico vivibile e vero: l’unico in cui i suoi personaggi, e i suoi narratori, e arrivo a dire lui stesso, riescono a vivere, abitandolo in tutta naturalezza, aggirandosi perfettamente a proprio agio tra le sue vie, parlando con i suoi abitanti come si fa con concittadini e parenti, e parlandone ai lettori come se tutti li conoscessero e a loro volta li frequentassero, in modo a volte anche divertito ma senza strizzatine d’occhio o altre basse forme di ammiccamento. Al massimo col tono scherzoso che si usa per certi zii strambi e originali, come in questo romanzo, o sbigottiti per le loro trovate e i loro exploit. O aggirandosi con vero smarrimento quando sale, dai campi o dal mare, a invadere la vita di tutti, a confondere menti e visioni, una bruma insensata.

Gli scrittori e le opere, le loro vite, i caratteri e le consuetudini, il tono delle loro parole, la piega delle frasi, gli intercalari e i tic, sono vicini di casa, conoscenti che si incrociano per strada e al bar o nelle più comuni occasioni pubbliche, e con i quali ci sia saluta e spesso ci si ferma a fare due chiacchiere, a commentare l’attualità o le letture recenti, le opere d’arte viste, le malattie e le morti, mentre attorno i morti in carne ed ossa con il loro sangue tuttora in circolazione e i loro appetiti e problemi sono solo loro riflessi, fantasmi trasparenti, al limite del visibile.

 

Per chi condivide questo mondo e vi abita considerando i suoi abitanti come membri di un’unica famiglia estesa a tutta la terra e a tutti i tempi, come il sottoscritto, quelle che lo scrittore catalano racconta sono tutte storie interessantissime, appassionanti come vicende di amici o cugini persi di vista e di cui lui ci porta notizie fresche, storie di amori, disgrazie, depressioni e fantasie coronate di successo o che li hanno condotti a smarrirsi o a morti disgraziate. Dubito invece che possano interessare a coloro che vogliono belle storie, trame appassionanti con morti a raffica, persone scomparse e da ritrovare, affari e malaffari, sentimenti e illuminazioni che li aiutino a orientarsi nel buio dei tempi, drammi, malattie, turbe, perdite di padri e madri e figli e mogli e amanti e compagni di qualsiasi genere, o non-genere (meglio), siano: per questo mi sento di sconsigliarne la lettura, sicuro che, non riconoscendo il loro ambiente, persi nelle loro brume, non ci metteranno molto a sentirsi spaesati  e ad annoiarsi. Però poi, ripensandoci meglio, io è proprio a questi che consiglierei la lettura, e di provare a insistere anche dopo la seconda e terza e quarta tentazione di gettare il libro alle ortiche, a respirare a lungo la sua aria per vedere come può essere una letteratura che coniuga comunque un racconto, il proprio, la sua peculiare saga familiare, con la storia in quanto storia della letteratura, in tutta serietà e in tutta ironia al contempo, serissima quanto leggera, teorica e divagante, fatta di echi e rimandi e ovviamente fitta di citazioni, esplicite e più spesso che non c’è bisogno di esplicitare essendo parole di amici e congiunti, vere ma anche inventate, verosimili, paradossali, assurde, ma forse anche no, e che è inutile cercare di verificare, dal momento che si adattano alle storie e alle figure di cui si va narrando e vi apportano scorci e sfumature congruenti eppure sorprendenti, e appassionanti. Come e più di thriller, distopie, corruzioni, mafie, amori a valanga, enormi straordinarie disgrazie che capitano a tante persone eccezionali ugualissime a ciascuno di noi. E ciò che non si capisce o non ci si preoccupa di verificare, la nebbia che ci avvolge in certi luoghi e passaggi, la si lascia volentieri a filologi e a dottorandi del futuro, e alle nostre stesse riletture, magari più consapevoli e, chissà, più colte e prese nel gioco della scoperta, e meno svagate e fantastiche, almeno fino a quando non ci lasceremo portare di nuovo dalla pura lettura, con buona pace di tutto il resto.

 

 

Ennesimo delirio sulle Meninas (un appunto)


Nelle Meninas l’apparato del potere, ciò che lo rappresenta, che appare, che gli sta attorno e lo dà indirettamente a vedere, è inquadrato. E’ in un quadro, in più di un quadro, tra tante virgolette, tante cornici (spazio, specchio, tela, porta; e famigliari e cortigiani e servi, che gli stanno attorno e fanno a loro volta cornice: corona): cosa che ha generato un’infinita serie di riflessioni a cui in questa sede non intendo aggiungerne un’ennesima mia; ma nel quadro la gran parte dello spazio è occupato dalla schiena della rappresentazione (il retro della tela che il pittore sta dipingendo, che occupa la sinistra della tela da Velásquez effettivamente dipinta), o dalla sua negazione totale o parziale (i quadri scuri e scarsamente leggibili alle pareti). Nella rappresentazione della scena, c’è spazio per la sua negazione e limitazione: il segno dell’irrappresentabile, la sua presenza, che deve passare comunque per la rappresentazione. Il retro della tela nasconde parte dell’ambiente, oltre che ovviamente quanto è rappresentato sul suo recto, che non è certamente la coppia reale che è riflessa, incorniciata, nello specchio come un doppio ritratto a sé. Noi non sapremo mai cosa sta dipingendo il pittore rappresentato, che si sporge da essa, in una postura e con un gesto simile al gentiluomo inquadrato dalla porta sullo sfondo, che è quasi un suo doppio ed è l’unico, con lui, che può vedere cosa c’è sulla tela, e che in realtà è quasi al centro del quadro, accanto allo specchio, e sta però su una soglia, come un guardiano o un cerimoniere, e sembra introdurre a un altro spazio, o provenirvi, di cui si vede solo la luce: vale a dire ciò che rende visibile in quello spazio ulteriore, e non ciò che lo occupa. Uno dei punti più luminosi del quadro, in effetti. E come il cortigiano guarda dentro l’atelier rappresentato, senza ovviamente vedersi, il pittore si sporge, con quella sua aria di signore della rappresentazione, di padrone che ha predisposto il gioco da fuori e proprio per questo può giocare a fingere di esservi dentro, mentre fa capolino dal quadro che sta dipingendo e guarda verso l’esterno, cioè verso lo spettatore che, nel punto in cui potrebbe essere anche Velásquez stesso in carne e ossa mentre dipinge o osserva ciò che ha dipinto, è così interpellato, chiamato dentro a guardare ciò che si vede e a immaginare ciò che non si può, a completare il visibile con il suo sguardo, a immaginare l’invisibile con la sua riflessione e immaginazione, senza dimenticare la cecità che comporta non solo la rappresentazione ma anche il suo sguardo. Forse l’invisibile, il soggetto della grande tela, è proprio lui, ognuno di quelli che sfilano davanti ad essa, come ho fatto io, con sguardo ammirato cercando di scandagliarne i dettagli e di carpirne il segreto, dimentichi di se stessi e degli apparati di cui sono prigionieri e costituiti, nella cecità su cui invece sono invitati a riflettere.


(Mentre io, ora, cerco di non dimenticare la mia – e così forse anche tu, lettore –, il buio che è sceso su tutte le cose che, a partire da Foucault più di 50 anni fa e poi nei decenni successivi, ho letto sul quadro e poi dimenticato, il cui frutto tardivo, uno dei tanti, è questo vecchio appunto che ho ricopiato solo ora, sporgendomi sulla mia cecità di allora e cercando di rimediarvi con quella di oggi.)

 

21/11/22

Coppia con cannuccia

 

 

Lui soffia nella cannuccia per colpirla forse con un frammento di ghiaccio risucchiato dal fondo del bicchiere. Lei si fa schermo al volto con le mani incrociate e piega il mento verso lo sterno. Lui continua a soffiare, ma dalla cannuccia non esce niente. Allora lei gli fa notare, come una maestrina compiacente, che non riuscirà mai nel suo intento se prima non raddrizza perfettamente la cannuccia, ancora leggermente incurvata dove ci sono i cerchi a molla che servono a piegarla verso la bocca. Lui esegue e la prende di mira di nuovo. Lei torna a schermarsi la faccia con le mani. Sorride. Il proiettile esce e la colpisce sul petto, da dove poi scivola nella scollatura. Poi si alzano e se ne vanno, con passi veloci. Sta arrivando un vaporetto, ma loro, giunti all’altezza dell’imbarcadero, proseguono a piedi. Piccole onde cozzano contro la zattera. Un forte odore di salmastro mi invade le narici.


17/11/22

Le anime di Marco Ercolani

 

Come quella di tutti, anche l’anima di Marco Ercolani è fatta di tante anime che si nutrono, rispecchiano, deformano, parassitano, imitano, parodiano, integrano e a modo loro completano anime altrui, o frammenti di anime altrui, che a loro volta sono fatte di altre anime o frammenti che si nutrono, rispecchiano e così via, in rimando infinito.

Artista è uno che queste cose le sa e adotta tutta una serie di strategie, a volte coscienti altre meno, per nutrirsi ecc. con l’intento (la speranza) che il risultato di tale strategia trasformi l’oggetto che gli ha fatto da nutrimento e specchio e stimolo e sfida, più spesso celandolo che tradendolo o esibendolo, per dar luogo a un’opera che, con il suo nome stavolta, rilanci il gioco. Quando l’artista attua questa strategia però, il meccanismo è già iniziato da tempo immemorabile e, in genere, ha già assunto una forma, o una serie di forme, che egli può modificare solo in parte. Piccola o grande, a seconda dei suoi desideri e delle sue capacità, e anche della forza e età di quelle. Spesso la cosa migliore che gli resta da fare è accettarle, magari riconoscerne questo o quel frammento, e assumerle fino in fondo. La sua opera non sarà che la diversa, e se possibile in diversa misura nuova, riformulazione o articolazione di queste forme, che vengono rimodellate, ridisposte e riaggregate, dalle esperienze del soggetto nella stessa misura in cui esse contribuiscono a fare scaturire queste esperienze e a modellarle. Così uno vive.

Da sempre la strategia di Marco Ercolani (spesso in simbiosi con Lucetta Frisa) è di esibire tutte queste operazioni (attività ecc.) e in qualche modo capovolgerle, ribaltarne o piegarne il senso e i modi, espropriandosi. Mi spiego: ogni volta che qualche forma o esperienza che egli sa benissimo di non poter definire come propriamente sua (anche se poi è lui che ne gioisce e soffre) ne incrocia una simile in qualche anima o opera altrui, ne sorge una nuova che però assume voce, tono e timbro di quest’ultima, e non i suoi. (Non la sua presunta voce, perlomeno: perché a volte, un tono, un'inflessione, il residuo di un timbro che venga fatto di attribuire a lui, sembra di riconoscerli. Ma è un attimo, un punto d'attrito, un bagliore, un apice puntuto il cui segno, sulla pelle, si vede solo dopo, senza che si possa risalire alla sua origine.)

Non si tratta di una proiezione o di un mascheramento che fa dire all’altro ciò che non ritiene possibile o opportuno o legittimo dire a nome proprio da sé (un sé che peraltro non c’è: cioè non  si dà al di fuori di questo dire già impuro, meticciato e multiplo) – anche se questo rischio sussiste, ed è il filo del discrimine e la misura della posta in gioco –;  né di far dire a qualcuno qualcosa che la sua opera (o anima) già conterrebbe, implicitamente o disseminata; e nemmeno di portare alle estreme conseguenze presupposti o indizi appena accennati e/o espressi ma non sviluppati in tutte le loro implicazioni; quanto piuttosto di condurre queste voci fuori da se stesse pur lasciandone intatti tutti i caratteri, di traslocarle, sfoderarle, e insieme, da parte dello scrivente, di uscire da sé cancellandosi in esse, assumendole tuttavia quasi senza residui. Quasi.


 

Per esempio: il Discorso contro la morte che dà il titolo a un notevole libretto del 2008 (ed. Joker) non è solo attribuito apocrifamente a John Donne: è di John Donne, ma il suo autore è Marco Ercolani. Ma Marco Ercolani ne è l’autore solo nella misura in cui quel sermone non gli appartiene; e solo nell’assunzione di questa non appartenenza egli da una parte può farne esperienza e viverne come propri i contenuti. Viverli di ritorno perché erano già all’origine. Tutto intrecciato in nodi, che sono la forma e la danno a ciò che annodano. (Nodi del cuore, Greco&Greco, 2000, è il titolo di una raccolta di scambi epistolari apocrifi scritta con la moglie Lucetta.)

Scrivere, in questo senso, è riconoscersi nell’altro e attraverso l’altro, e adottarne la voce, assumerla per poter essere in qualche modo se stesso, o per poter dire, in ciò che l’altro non ha detto pur aprendo la possibilità di dirlo, ciò che la propria voce non può dire perché non le appartiene nonostante sia ciò che le è più prossimo e più proprio. (O per non dire in prima persona, e tuttavia  dirlo senza farsi Medusa di se stessi: per non bloccarsi in un io che sarebbe fisso, univoco e proprio, identico a se stesso una volta per tutte; cosa esecrabile, certo, ma anche impossibile, aggiungo: perché c’è il linguaggio che comunque, non appartenendo – cioè includendo sia il detto che i dicitori –, lo impedisce.) Estrarre, o modellare, nella voce altrui, una modalità della propria che altrimenti non potrebbe venire ad essere; forzarla, per partorire la propria attraverso, o nel simulacro di quella.

Ma per fare questo bisogna cancellarsi nell’altro: essere l’altro per poter essere, in qualche modo, se stesso. (Non è l’amore; eppure, in qualche modo, in qualche senso – in sensi diversi – lo è.)

Per questo, come prima cosa bisognerebbe “liberarsi dal proprio stile” (Discorso contro la morte, p. 23). C’è un mezzo per farlo? Niente di più facile, verrebbe da rispondere: basta non averne. Come se fosse possibile. Oppure, meno banalmente, basta non averne uno solo. Ma anche averne molti non sarebbe a sua volta uno stile? Si potrebbe allora provare a liquefarsi, a dissolversi in quello di ogni altro. Adottarne ogni volta uno, non come una maschera, ma come una pelle...

Non: essere nessuno; semmai: essere tutti senza essere mai uno. “Usare materiali”, essere “la Lingua che (...) diventa lingue, il Fiume che (...) si manifesta in fiumi” (Il tempo di Perseo, Joker, 2004, p.12).


Eppure questo venir meno dell’identità, anche provvisoria, strategica, fittizia, del parlante/scrivente rischia di portare l’attenzione a focalizzarsi prevalentemente sulla domanda “chi parla?”, invece che su quella, altrettanto se non più importante, su “cosa dice e come”. E’ possibile trovare qualche filo conduttore, ricorrenza di tono, costellazione di senso? Alla lunga, come accennavo più sopra, credo proprio di sì, per quanto intrecciato nella varietà, a volte persino sommerso, incriptato, fatto silenzio o enigma, incandescenza lontana, che smuore nella distanza ma non cessa di mandare bagliori minimi e insistenti. E allora, per dipanare e organizzare, per estrarre e assemblare, diventa necessario fare un’operazione analoga, ma non uguale, simile ma deviata, con differente inclinazione, a quella che Ercolani fa con i suoi autori: aggiungere una voce, senza però l’appoggio di una precisa e già definita, in questo caso proprio quella vera o presunta di Ercolani, da cui partire. Una voce congetturale che mima, echeggia e/o costruisce/inventa un’altra voce congetturale, che poi però abbandona il gioco dei rimandi, che ne esce, fatta altra ancora, e da lì comincia a guardare.

Bisogna cercare di dimenticare i nomi degli scrittori, filosofi, pittori, musicisti, studiosi, politici in cima a ogni testo, e provare, da lì, a rileggere tutto come se fosse una voce: una sola voce nelle sue varie inflessioni e tonalità e modulazioni, come se le diversità di stili e rimandi fossero solo effetto di differenze di esperienze e umori. In fondo è legittimo pensare (con Borges, per esempio) che ci sia una sola voce, o nessuna; che la letteratura sia senza autori, che passi attraverso ciò che si è convenuto chiamare con un nome (identificando poi questo nome con un autore) come un unico flusso, composito ma in fondo continuo e unitario, di un’unitarietà sempre mutevole e che si riforma diversa ad ogni istante, pur essendo ogni istante conclusa e omogenea. Ogni nuova parola suggella il già detto e ne inaugura un altro.

Ma si può anche vedere, immaginare, in questo flusso, momenti in cui si addensa e poi si coagula e fissa in una unitarietà (in una unità) solida, per quanto provvisoria; fittizia, eppure che agisce realmente e necessita di essere assunta di volta in volta come propria: come qualcosa di cui si è, come per un’azione, responsabile, per quanto non si sappia a partire da che punto e ancor più da che punto in poi non lo si è più dei suoi effetti, che a loro volta, con effetto a posteriori, disappropriano la loro stessa scaturigine. Eppure questo punto va di volta in volta marcato e assunto: non per ciò che è scritto, ma per chi scrive, come qualcosa che riguarda solo lui, ma senza il quale, senza cioè che questo sguardo venga accolto e ricambiato, alla lettera non si scrive niente.


Il rischio è il parassitismo di un’autorità che si dubita di possedere in proprio, o che non si ha il coraggio di attribuirsi, o che non si vuole assumere. Anche nel senso di un atto volontario di rifiuto: che non si vuole assumere, e non si vuole assumere. Per negare l’io? La proprietà del discorso? E lasciare invece che sia il discorso da solo a dire, a essere in qualche modo proprietario di se stesso? A se stesso appropriato?  Troppo facile però: una proiezione di, o su un’autorità e autorevolezza avviene/si verifica (anche nel senso di 'rende vera se stessa') comunque; (sempre) un altro dice quello che tu non vuoi/sai/intendi dire: attribuzione di peso autoritario, cioè dal di fuori, alle parole, che però le svuota dal di dentro.

"Sentiva che avrebbe dovuto erigere limiti e steccati, proprio per descrivere quell'istante di follia, quel brulichio ininterrotto, quell'affollarsi di fantasmi. (...) Capì che, ancora una volta, era questione di linguaggio. (...) Era stanco di una pazzia che fosse negazione del mondo e dell'io, anamnesi di una malattia, cronaca di una sconfitta. Doveva rielaborarla in forme che ne rendessero dicibile la rivolta. (...)  La Lingua che non diventa lingue, il Fiume che non si manifesta in fiumi: la cieca adesione al Sacro. No." (ibid., p. 11-12)

Sempre questione di linguaggio. Non per il fatto che il linguaggio non mi appartiene, io devo sottrarmi alla responsabilità, anche a quella di assumerlo, e non solo a quella di ciò che dico io in ciò che dice lui.

"Una costante definiva le sue visioni: la presenza di uno spazio circolare, talvolta ridotto alla dimensione di un punto. Su questo punto convergevano forze diverse. [Qualunque fosse la sua incarnazione, sempre] la sensazione era la stessa: un punto pieno, una sfera compatta sta per disarticolarsi, letteralmente frantumata dalle forze che la schiacceranno. (...) Mille variazioni su uno stesso tema."  (Il tempo di Perseo, Joker, 2004, p. 9)  

Questo punto, per Marco Ercolani, è il discorso della follia. Il discorso che dalla follia parte e su di essa non cessa di tornare, che insiste nel suo luogo, cioè nel luogo dove tutto si sfalda, ovvero dove si coagula momentaneamente, con forza lacerante, per poi diffrangersi e disperdersi: perché a lungo non si può tenere, sopportare; né vi si può consistere senza smarrirsi. Luogo dove l'io non è nemmeno l'istanza dell'enunciazione, ma un fantasma, un'imago già svanita, o al contrario solo un'ipostasi, una corazza dalla rigidità proporzionale alla sua friabilità, l'illusione di una difesa, un'inconsistenza. 

Ercolani è psichiatra in una struttura pubblica e la sua professione non si disgiunge dalla sua scrittura: dall'esigenza di venire in qualche modo a capo della propria vita. Di tenere qualcuno dei capi delle proprie vite. La citazione ligure è scontata.


In ogni caso, che si tratti di psichiatria o di scrittura, il suo è un ascolto delle voci. Ascolta le voci di tutti coloro che sentono le voci (e di tutti coloro che hanno parlato/scritto). Si mette in ascolto – fa la guardia – come una sentinella a cui non viene mai dato il turno*. Finito quello assegnato, comincia quello assunto volontariamente, anzi: quello necessario, perché da ogni parte la sua voce ti chiama. Non c'è pausa. Non c'è silenzio. Il riposo da una voce è un'altra, che talvolta può prendere altre forma, o addirittura la forma di un apparente silenzio, ma subito si mette a parlare, e invoglia a farlo per farla tacere. Ma in realtà a Marco Ercolani il silenzio è insopportabile, perché di troppe voci subito si rivela saturo, intrecciate, sovrapposte e incontrollabili.

Come con la follia, con cui in parte si identifica, l'eccesso di prossimità è non solo insopportabile, ma alla lettera impossibile. Troppo incandescente, irrespirabile. Per non essere annientato dal contatto diretto, per districare le voci, sentirle (con tutti i sensi), capirle e dare loro la parola nel loro "dis-ordine e (...) complessità inesauribili" (L'opera non perfetta Note su arte e follia 1999-2009, Nicomp L.E., 2010, p. 75) si rende allora necessario frapporre – e lo stesso tra sé, la propria scrittura e la sua scaturigine – uno schermo, un filtro, una camera di decompressione e di raffreddamento: insieme forme di protezione e sintomi di attrazione, vengono frapposte non per allontanarsene, come difesa, ma perché, pur intendendone l'estremo pericolo, se ne è irresistibilmente calamitati e non si intende rinunciarvi, se non si vuole rinunciare a se stessi. Poiché l'accesso diretto, come al volto di Medusa, è ferale, vi si torna mediante una deviazione, un détour (ci si volta e si fa un giro).

In questo a Ercolani la psichiatria come professione fa senza dubbio gioco. Potrebbe ostacolarlo, certo, proiettando l'ombra della terapia su ogni cosa, ma siccome l'artista non se ne disgiunge mai, e anzi la sovrasta (o la erode), non solo essa gli fornisce strumenti e distanza, ma soprattutto gli offre materia, che però solo l'artista trova il modo di lasciar parlare da sé, aggirando (appunto) il rischio, l'indelicatezza di volerla trasformare in poesia o racconto. Il contatto quotidiano con la follia, l'avvicinamento che essa comanda e la barriera, spesso ostile, che erige, lo difendono dalla tentazione di farne un oggetto, di rendere il dolore astratto e generico, nient'altro che una parola ad effetto, o una sfumatura opaca della compassione: anche quando parla di arte o di poesia, non perde mai di vista la comprensione della malattia, la specificità del dolore e dell'individuo che ha di fronte, per trovare un modo migliore per affrontarli, gestirli, lenirli, in sé oltre che nel "paziente".

La luce non è mai unidirezionale; è sempre (almeno) doppia (arte-follia; scrittura-terapia; comprensione-partecipazione...) e su almeno due piani (psichiatra-folle; psichiatra-artista; artista-artista; "malato"-malato...), con almeno due obiettivi: la clinica e, più che la scrittura (come sarebbe più presumibile), la quotidianità, per trovare un modo per gestire l'esistenza, l'emergenza che è la sua normalità. Si dovrebbe poter "tenere un diario correndo. (...) provare a non vestire più le mie follie con abiti da cerimonia" (Turno di guardia, Il canneto, 2011, p. 32). Ed è proprio questo che Ercolani fa sempre più spesso nelle sue ultime opere, e soprattutto in questo Turno di guardia.

A volte ci si nasconde meglio parlando di se stessi e delle cose che ci capitano, e ci si rivela di più assumendo altre identità (perché sembra di poter parlare impuniti) o creando personaggi ex-nihilo, come se fosse possibile. Il problema non è celarsi, mimetizzarsi, mascherarsi o rivelarsi: il problema è quello che si fa con la scrittura, quello che esce; e nemmeno quello che viene detto, ma il tono, la capacità di convincimento e le proiezioni o assunzioni che suscita. Il narcisismo della prima persona nelle cosiddette autofinzioni è un problema secondario, se non falso: dipende ancora da cosa ne fai, dalla banalità o originalità di ciò che viene detto e del modo, dalla semplicità o dalla complessità; dal fatto che la semplicità va verso la banalità o se contiene invece pluralità e stratificazione; e viceversa se la complessità non è per caso confusione e abborracciatura (cioè superficiale in senso classico)... ecc. La finzione che funziona meglio, a volte, è proprio quella della "sincerità", che parte magari dalla propria esperienza e parla della propria vita, e invece le usa soltanto come trampolino, o maschera dell'invenzione, e della comprensione dell'altro. Ed è spesso quando mette direttamente e chiaramente in campo se stesso, che Ercolani riesce anche a parlare meglio degli altri: a parlare degli altri come altri.

E' sul filo di questa serie di doppie partite che sta Ercolani: in bilico, ondeggiando sul filo teso tra voce propria e voci altrui, tra invenzione e riflessione, filo che le unisce e separa e che appartiene a entrambe; soprattutto filo, o più correttamente linea che percorre il bordo sfrangiato tra malattia e salute, tra follia e presunta normalità, delirio e ragione, silenzio rumoroso e discorsi inauditi: linea di una piega che distingue e cuce assieme la distanza, e il distacco della terapia, e la pura umanità (l’amore), che condivide e un po’ già guarisce da sola, e da sola già un po’ capisce.

 

*  Sempre in guardia, di sentinella. Si potrebbe costruire una teoria della sua teoria, combinando i titoli dei suoi libri: Sento le voci. Discorsi di "matti", La vita felice, 2009, è il titolo di uno dei due volumi scritto con Lucetta Frisa, - l'altro è Anime strane, Greco&Greco, 2006 - che raccoglie i discorsi e le teorie raccolte in trent'anni di studi e pratica; Sentinella, Carta bianca, 2011, è quello di un recente libretto che combina poesia e filosofia: un po' alla maniera di René Char, verrebbe da pensare; mentre Turno di guardia, Il canneto editore, 2011, è una notevole raccolta di testi relativi alla sua esperienza come guardia medica in una struttura pubblica.